Diocesi di Teano-Calvi

Chiesa S. Sebastiano di Marzano Appio

5 aprile 2011

 

Incontro di preghiera

in preparazione al Congresso Eucaristico di Ancona

 “Eucarestia per la fragilità”

Meditazioni di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

~

Gv 6, 16-24

 

Vogliamo anche noi metterci alla ricerca di Gesù, come dicevano le ultime parole del Vangelo: Allora la folla salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù.

Spero siate venuti per questo. Cerchiamo Gesù? Lo cercano anche quelli che non lo conoscono o quelli che cercano altre cose, altre persone, la felicità, la convivialità, la pace. Anche quelli che cercano il male, senza saperlo, cercano il bene nel suo inverso; è come cercare il cielo in un pantano: anche il pantano può sembrare un cielo, per chi lo guardi con gli occhi bassi.

 

Siamo al nostro terzo appuntamento in preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale. Questa sera, come annunciava la locandina, preghiamo il tema “Eucarestia e fragilità”. Gesù sta qui, come diceva il brano letto all’inizio, ma sta qui in una dimensione da perdente, perché Gesù non vince nell’Eucarestia, come non ha voluto vincere nella Sua vita. Gesù è venuto a perdere e a perdersi. E non contento di perdersi nella via della Croce, dell’annientamento, ha deciso anche di perdersi per tutti i secoli dei secoli nel silenzio dell’Eucarestia, dove sembra che non ci sia, eppure, come vi ricordavo in qualche incontro precedente, questa presenza è indicata, nella teologia, con un aggettivo: reale, presenza reale. È come - ma dobbiamo mettere l’orecchio sul cuore di Gesù - è come se nell’Eucarestia ci fosse un ribollire di un vulcano che sta per esplodere e che esplode, senza che noi ce ne accorgiamo, in esplosioni subacquee, in esplosioni stellari. Anche stasera esploderanno delle stelle con fragore enorme e noi non ce ne accorgeremo. Accade così - ovviamente è un esempio, una similitudine - per questo ribollire di Gesù nell’Eucarestia: sembra che tutto sia silenzioso, in realtà Lui ci cambia, quando abbiamo il coraggio di esporci, come al sole, davanti a Lui, senza dir niente. Quando voi prendete il sole, fate qualcosa? pensate qualcosa per abbronzarvi? o state lì, in silenzio, e lasciate che il sole vi cambi, generi, rilanci la generosità delle cellule? Stare al sole è ricevere un’energia che non solo ci abbronza, ma che mette in circolo una vitalità delle cellule che godono, che con i fotoni - si chiamano così le particelle della luce - vengono rilanciate. Capita così per noi, in questo momento, anche senza parole. Vado ad abbronzarmi nella mia chiesa parrocchiale, vado ad abbronzarmi all’altare del Santissimo, vado ad abbronzarmi, a rigenerarmi, in un momento di Adorazione.

 

Nel Vangelo abbiamo un quadro esplicito ed anche un campionario di fragilità, innanzi tutto nella solitudine.

Era ormai buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti. Quando si fa sera, noi vogliamo avere qualcuno accanto; gli amori, perlopiù, si ritrovano e nascono a sera, perché la sera è il momento in cui la fame della comunione, la fame dell’amicizia, la fame dell’affetto, la fame della tenerezza si fanno più alte (vorrei dire “più feroci”, nel senso bello del termine).

È sera e Gesù non è ancora venuto. La prima fragilità - fragilità estrema - è la solitudine che ci attraversa e di cui fanno esperienza anche i piccoli. Com’è sconsolante sentire un bambino che piange! Non so a voi che effetto faccia, ma se sento piangere un bambino, mi si strazia l’anima. Magari piange per una sciocchezza, per una caramella non data o perduta, o anche senza motivo, perché spesso i bambini piagnucolano senza motivo; in realtà piangono la morte, piangono la solitudine, perché c’è una solitudine anche dei piccoli, prima ancora che imparino a pensare. Nel primo anno di vita - dice un autore che si chiama Spitz, un grande psicologo degli anni addietro - si fa la prima grande esperienza di solitudine, che è il distacco dalla madre. Quindi non solo gli anziani, voi anziani, o non solo gli adulti o voi giovani sentite il morso della solitudine, ma tutti, anche i bambini; anche gli sposi che si abbracciano sentono la solitudine e cercano di vincerla. E all’atto in cui cercano di vincerla, la sentono di più. Forse in nessun luogo, come nell’intimità, si esperimenta la solitudine: quando ho detto cento parole, ho ricevuto cento baci, mi accorgo di non aver detto niente e che tante cose restano nel “non detto”. Questa esperienza è innanzi tutto la fragilità radicale. Se ci pensate, la morte null’altro è che estrema, radicale solitudine. Era ormai buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti. Ecco la prima fragilità che ci appartiene.

 

Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento. Indicazioni che dicono di una tempesta: fuori? dentro? nel cuore dei discepoli? Ecco un’altra categoria di fragilità: la tempesta.

Stamattina c’era il sole, nel primo pomeriggio si è oscurato il cielo: tuoni, pioggia… Si è scatenata una tempesta. La tempesta dice insicurezza, dice persone che barcollano, stabilità che non è più così forte, senso di vuoto sotto i piedi. Questo è il motivo per cui alcuni hanno paura di andare in barca: pensano di stare al sicuro sulla terraferma. Ma anche la terra trema, anche le pietre hanno le loro tempeste: si chiamano terremoti. “Tempesta” uguale a “instabilità”, “barcollamenti”. “Vento forte” uguale a “tentazione”. Chi di noi non ne vive cento e cento? Sono fragilità, tempeste che avvengono sul piano fisico, malattie; armonie che si interrompono e diventano disarmonia. La malattia è una disarmonia nell’armonia del microcosmo del nostro corpo: basta che una cellula si ribelli, impazzisca ed entriamo in una dimensione tumorale, una tempesta che ci riduce in fragilità. Don Antonino, qualche anno fa, in pochi istanti ha visto una tempesta scatenarsi nel suo cuore, quello fisico, ed è stato ad un passo dalla morte.

Quindi, tempeste che sono malattie sul piano fisico e tempeste in un corpo sano, ma che sconvolgono la mente e conseguentemente anche il corpo: tempeste nella mente, di pensieri che si contrappongono e si combattono come eserciti, tempeste psichiche, come la depressione, così frequente anche nelle persone più credenti. La fede è un deterrente per la depressione, ma andiamo in depressione anche noi. Come si va in depressione? Si scatena una tempesta nella mente, idee che si cozzano, che cozzano tra loro, che si rincorrono, che si disperdono.

Ma il luogo dove avvengono le più grandi tempeste è il cuore (tempeste affettive), perché la mente ancora riusciamo qualche volta a imbrigliarla, ma il cuore chi lo conosce? - dice il salmista. Le tempeste del cuore - terribili - ti sconvolgono, ti prendono, ti fanno piangere… Le tempeste del cuore, oggi, separano le famiglie, dividono le coppie, creano scompiglio in una parrocchia, in un nucleo che sembrava solido e che invece viene assalito da marosi, da venti, da raffiche, da senso di insicurezza, per cui ciò che sembrava solido - Io prendo te come mia sposa e prometto d’esserti fedele sempre, nella gioia, nel dolore, nella salute, nella malattia ed amarti ed onorarti tutti i giorni della mia vita - un attimo dopo, in viaggio di nozze, dopo un anno, dieci, quindici, o quindici giorni dopo, non è più così: c’è una tempesta.

 

Potrei continuare a lungo in questo elenco di fragilità, ma bastino queste tre classi, queste tre categorie di tempeste - tempeste del corpo (le malattie), tempeste della mente, della psiche (le depressioni in tutte le loro forme), tempeste del cuore - per capire come i discepoli sulla barca rappresentano la Chiesa, ma rappresentano anche l’umanità.

 

Quando qualche istante fa ci siamo fermati in silenzio e Don Antonino ci ha detto: “Ciascuno di voi si presenti al Signore”, abbiamo trovato tanto scompiglio dentro di noi, nei nostri corpi, nelle nostre menti fragili, nei nostri cuori sempre vaganti, sempre mendicanti. Che ne facciamo di queste tempeste e di queste fragilità? Spesso ci viene la tentazione di non parlarne ed è una tentazione terribile. La Chiesa italiana, al Convegno di Verona, per la prima volta ha messo a tema la fragilità come luogo di grazia, perché non parlarne significa che la malattia avanza, non parlarne significa che il tradimento si allarga, non parlarne significa continuare a vestire abiti mentre il corpo è in decomposizione. E invece bisogna parlarne. Lo fanno i discepoli, manifestando un sentimento che attraversa tutte queste tempeste (le malattie fisiche, psichiche e affettive): la paura.

 

Dopo aver remato per circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Sono io, non abbiate paura!”.

Ebbero paura. Anche noi abbiamo paura, anche il vostro Vescovo ha paura, anche i sacerdoti presenti hanno paura, anche voi avete paura. La preghiera è il momento della guarigione, ma la guarigione avviene solo se uno ha la sfrontatezza di andare dal medico e dire: “Dottore, non mi sento bene”. Qualche volta ci manca l’umiltà di dire le nostre fragilità. Non parliamo, poi, di quella difficoltà che abbiamo a confessarci e a dire i nostri peccati! Li nascondiamo sotto il tappeto, li nascondiamo sotto l’abito luccicante, li nascondiamo magari anche a noi stessi, ma così non si guarisce. Guariscono solo quelli che hanno il coraggio, la spudoratezza di andare dal medico e dire: “Dottore, mi visiti, perché sto male”. È una fragilità riconosciuta. Ricordatevi che si redimono solo le fragilità riconosciute: quelle nascoste vanno in putrefazione. L’autore dell’Imitazione di Cristo dice che quando arriva il medico è troppo tardi, per indicare persone che nascondono i loro mali e poi chiamano il medico quando ormai il cancro è in metastasi: “Signora, non si può più far nulla; se lei fosse venuta qui sei mesi fa, un anno fa - dice l’oncologo - avrei potuto indicarle una terapia, intervenire. Ma adesso è impossibile, è troppo tardi”. Quando si chiama il medico è troppo tardi. Allora questo medico invochiamolo subito, appena abbiamo un’avvisaglia, un colpo di tosse strano, un dolore che permane per giorni, una nausea, un malessere da qualche parte del corpo, della mente, del cuore, dell’anima. Siamo qui per questo. Siamo venuti dal Medico: qui non dovete fare la fila e non vi viene neanche chiesto l’onorario. Le chiese sono sempre aperte, ci si può confessare in qualsiasi momento, Gesù è in attesa come Medico e sta in ozio, perché i malati vanno altrove, perché i malati si nascondono, perché i malati dicono d’essere sani, ma stanno morendo. Per questo ho insistito un po’ di più sull’esigenza di riconoscere le nostre fragilità. Fratelli, per celebrare degnamente i Santi Misteri, riconosciamo i nostri peccati. Diciamo: Sì, ho il cancro, sto vivendo una tempesta del cuore, sento i miei punti fermi vacillare; quello che ieri mi sembrava vero, adesso mi sembra falso; sto vivendo una crisi personale, coniugale, familiare, professionale, vocazionale… Quando si ha il coraggio di lanciare un SOS, qualcuno viene a salvarci. Un SOS in mare è fatto via radio o attraverso quei fuochi, che a voi sembrano pirotecnici ma che in realtà sono dei segnali luminosi, visibili anche a molte miglia di distanza, che scendono adagio adagio. Li avrete visti qualche volta; a Capodanno qualcuno li spara, ma in realtà sono i fuochi dell’SOS marittimo, come una sorta di ombrello a cui è legato qualcosa di molto luminoso che scende pian piano. Una nave avvista questo segnale e dice: “C’è una nave sorella in pericolo!”. E si avvicina alla zona.

Manda un SOS.

 

La fragilità, di cui siamo impastati, dev’essere riconosciuta. Ma non basta, perché poi c’è anche la terapia. Ci sono delle persone che per la loro fragilità si fermano alla diagnosi; vanno anche dal professore più “in”, più costoso, di fama internazionale, che li sottopone ad una serie di analisi, di lastre… “Lei, signora, ha il morbo di Hodgkin”. La signora ringrazia, prende le sue lastre e se ne torna contentissima a casa, perché qualcuno le ha detto cosa ha. Voi sorridete, ma facciamo sempre così, cioè una volta superato l’ostacolo del riconoscimento - ed è meglio un occhio esterno, oggettivo, perché nessuno è giudice nella propria causa, dicevano gli antichi (Nemo est iudex in causa propria) - le persone che ricevono una diagnosi, non fanno la terapia; il medico prescrive una serie di farmaci, ma non li prendono. Magari li comprano anche, li mettono in un deposito e pensano che il farmaco, purché sia in casa, agisca automaticamente; magari si tratta di iniezioni da fare, di pillole da ingerire, di pomate da spalmare... Questi passaggi della vita fisica o della vita psichica o affettiva riguardano anche la vita spirituale: so qual è il mio male, ma non faccio la terapia.

E qual è la terapia per le nostre fragilità? Accostare la nostra malattia al Medico, che è Medico ed è Medicina: Lui solo mette insieme queste dimensioni. Nella vita normale, altro è il medico, altro è la medicina. Qui c’è il Medico e la Medicina, Colui che è Medico è anche Medicina e dice: “Adesso lasciati toccare la parte malata, lasciati guarire”.

Vuoi guarire? - dice Gesù al paralitico che era sulla piscina di Betzata. Perché glielo chiede? Perché uno che è malato, non sempre vuole guarire. Già vi ho raccontato - perché mi sconvolse, quand’ero giovane studente di Sociologia - che in un libro di psicologia si narrava di una donna che il giorno in cui la figlia handicappata (allora si diceva così) guarì, si uccise. È un fatto vero; da manuale di patologia, ma vero. Perché si uccise? Perché cominciò a pensare: “E adesso che faccio? Mia figlia è guarita: non ha più bisogno di me, non devo più portarla, non devo più andare in farmacia…”. Le venne una crisi e si suicidò. La patologia aiuta a capire la normalità; chi sta a contatto con i malati capisce cosa significa essere sani, non fosse altro che per contrapposizione. Facciamo così anche noi.

 

Noi vogliamo guarire, e allora stasera Gesù ti dice: Tu sei fragile e lo stai riconoscendo; ma vuoi cambiare? vuoi guarire? vuoi che questa tempesta del corpo, della mente, del cuore, dell’anima, si risolva? E noi dobbiamo dire: Sì, Signore, io voglio guarire.

Quando il malato dice: “Io voglio guarire”, la medicina ha effetto. Ci sono terapie portate avanti – si dice in termine tecnico – secondo un protocollo, ma che non hanno effetto, perché la persona non vuole guarire. Non si guarisce, perché la persona non ha voglia di guarire, ha voglia di morire, è doppiamente malata: è malata nel corpo, ma è malata anche nella mente o forse è sola o forse non sa amare o forse non si sente amata. Allora si lascia andare e le medicine non hanno effetto.

Questi sentimenti che adesso vi ho raccontato, molto umani (vi ho raccontato cose che credo siano sotto la vostra osservazione), ci fanno capire perché siamo qui: siamo qui per guarire, se lo vogliamo; siamo qui per dire a Gesù: “Sono malato”. Ascolteremo, Domenica prossima, che a Gesù, per annunciargli che Lazzaro versa in gravi condizioni, dicono: “Signore, colui che tu ami è malato”. Mi ha sempre commosso questa espressione.

 

Siamo qui per dire a Gesù: Voglio guarire, voglio accostare la mia fragilità alla Tua potenza; Tu che sei Medico e Medicina guariscimi, dammi la pace che non ho, riporta l’ordine nel mio corpo, nella mia psiche, nel mio cuore, nella mia anima.

Ma egli disse loro: “Sono io, non abbiate paura!”. È detto a te che hai paura, a me che ho paura del futuro, di quello che mi può capitare.

Allora vollero prenderlo sulla barca. Prendere Gesù sulla barca significa assumerLo nella vita, significa prenderLo con noi. Gli adolescenti vogliono prendere Gesù nella loro vita? I giovani lo prendono a carico? E gli adulti? gli anziani? il Vescovo? i preti?

Io voglio prenderLo Gesù, stasera. Spero anche tu. PrendiLo nella tua barca che vacilla, nella tua vita incerta, nel tuo cuore oscillante, nella tua mente obnubilata, nel tuo corpo segnato da tante cicatrici. PrendiLo: con Lui a bordo, si arriva subito all’altra riva. Quella sicura.   

  

***

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.