Diocesi di Teano-Calvi

Chiesa Madre di Sparanise

22 marzo 2011

 

Incontro di preghiera

in preparazione al Congresso Eucaristico di Ancona

 “L’Eucarestia per il lavoro e la festa”

Meditazioni di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

~

Gv 6, 35-40

 

I PARTE

 

Abbiamo pregato con la formula della preghiera di preparazione al Congresso Eucaristico: Venga il Tuo Regno, e il mondo si trasformi in una Eucarestia vivente.

In questa seconda tappa del nostro cammino quaresimale in preparazione al Congresso Eucaristico, davanti a Gesù Eucarestia, vorrei partire da questa espressione: Trasformi il mondo in una Eucarestia vivente. Cosa significa per noi?

Il mondo ha bisogno d’essere trasformato. “Eucarestia” significa “rendimento di grazie” e si rende grazie a Colui che ci ha fatti. Il mondo che si trasforma in una Eucarestia vivente è il mondo fermentato, fecondato dall’Eucarestia, impastato nel pane, nel vino, nella Parola - elementi essenziali della celebrazione eucaristica - e che diventa, misteriosamente, segretamente, anche attraverso di noi, attraverso la nostra fede, attraverso il nostro lasciarci coinvolgere in ciò che celebriamo, un rendimento di grazie al Padre. A questo tende la vita del mondo e a questo tende la vita della Chiesa. A questo deve tendere anche la nostra vita, cari fratelli e sorelle, che siamo qui davanti a Gesù Eucarestia per ritrovare l’orientamento della nostra vita.

Del Vangelo scelto per questa sera vorrei sottolineare l’espressione “E questa è la volontà di Colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”.

Gesù sente una responsabilità nei confronti di ciò che il Padre gli ha dato e che cosa gli ha dato? Tutto. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui, le cose del cielo e quelle della terra – dice Paolo. Quindi il Padre gli ha affidato tutto ed egli non deve perdere nulla. Una cosa è certa: non si perderanno le cose, non si perderanno le piante, non si perderanno gli animali, non si perderanno le pietre, e perché non si perderanno? Perché non hanno possibilità di dire no. È possibile che si perda una sola cosa: l’uomo, che ha la libertà che lo pone nella possibilità di dire no a Dio, no al Suo progetto, no al Sangue di Cristo che ci lava, non automaticamente, ma nella misura in cui ci lasciamo inondare. Quindi la preoccupazione di Gesù è che gli uomini corrispondano (le cose, gli animali, le piante sono già salve), che gli uomini si lascino trovare, non abbiano a perdersi. Io posso perdermi, io che vi sto parlando, e voi potete perdervi, noi possiamo perderci. Tante persone si perdono perché perdono l’orientamento, perché non sanno più chi sono, perché l’Eucarestia è il ricordo della Prima Comunione o di qualche celebrazione casuale in cui non ci si è lasciati coinvolgere. Accade dell’Eucarestia quello che accade in una relazione: ci si può lasciare coinvolgere e si può restare estranei. Purtroppo, cari fratelli e sorelle, noi rischiamo d’essere estranei a Gesù, benché Egli sia rimasto con noi in questo mistero, al centro della vita della Chiesa, che è l’Eucarestia. È possibile perdersi quando Lui si è perso per noi perché noi avessimo a ritrovarci e a ritrovarlo? La risposta è sì. Gesù farà di tutto perché noi non ci perdiamo, ma d’altra parte, se solo guardate l’andamento delle comunità parrocchiali (in qualche maniera sono qui rappresentate quelle della forania di Pignataro, Sparanise, con le altre parrocchie che vi girano intorno), vi rendete conto da voi di quante persone siano lontane, anche di quelle che una volta erano vicine: si sono allontanate impercettibilmente, a piccoli passi, forse anche tuo figlio, forse anche tuo marito, forse anche quella persona, forse anche quel catechista, quell’educatore, quell’operatore pastorale, quel componente del consiglio pastorale che era così zelante, così presente, così vicino, così preso… Poi ad un certo punto è accaduto qualcosa e, come il giovane ricco, ha girato le spalle e se n’è andato, ritenendo che le richieste di Gesù fossero esorbitanti, mentre Gesù chiede qualcosa, che è sempre un “prezzo simbolico” rispetto a ciò che Egli vuole darci, cioè la salvezza (perché non perda nessuno di ciò che il Padre mi ha dato e lo risusciti nell’ultimo giorno). Questo si chiama felicità.

Comprendiamo che abbiamo la felicità a portata di mano, qui, ad un passo da noi, sull’altare? È il Pane da mangiare, adesso un Pane da guardare perché ti venga appetito, perché se il pane lo mangiamo soltanto e non lo guardiamo, ne perdiamo il sapore. Guardare il pane per aumentare la “salivazione spirituale”, guardare il pane come si guarda – spero – un piatto colmo prima di affondarvi la forchetta. L’arte della cucina è anche questo: vedere, sentire l’odore; dopo, mangiare. L’adorazione è sentire l’odore, il profumo, guardare il Pane, quel Pane che poi mangerai domani.

 

Il tema che mi è stato affidato, in questa seconda giornata dei quattro incontri quaresimali, è l’Eucarestia collegata al lavoro e alla festa. Dividerò in due parti il mio intervento nell’Adorazione. Innanzi tutto l’Eucarestia collegata al lavoro: non è che sia un’agenzia di lavoro (non ne troviamo qui, anzi, qui veniamo a riposarci), ma è il luogo dove tutto deve passare. L’Eucarestia, nel modo in cui la celebriamo, negli effetti che ha nella nostra vita, è ancora solo parzialmente utilizzata, perché noi non vi facciamo passare tutto. Adesso mi interessa chiarire questo piccolo concetto: quello che non passa attraverso l’Eucarestia non è efficace. Ieri, in un incontro, parlavamo della vita affettiva e adesso lo diciamo del lavoro: anche il lavoro deve passare attraverso l’Eucarestia, perché - diceva un antico adagio che adesso vi traduco dal latino - ciò che non è offerto, non è trasformato. Significa, innanzi tutto, che se tu non porti il pane e il vino sull’altare, non diventa il Corpo e il Sangue di Gesù. Questo lo capiamo per l’Eucarestia, perché ci hanno insegnato, fin da quando eravamo bambini, che il pane e il vino sono essenziali, è la materia dell’Eucarestia, e poi ci vorrà anche la comunità, la Parola… Non lo capiamo invece per quanto concerne il resto della nostra vita, cioè se tu non porti qui qualcosa di te, quel qualcosa di te rimane non divinizzato, non consacrato. Allora, quando vieni a Messa, porti la tua famiglia? porti i tuoi figli? porti le tue preoccupazioni? porti i tuoi peccati? Anche quelli! Ci appartengono! D’altra parte l’Eucarestia è punteggiata di elementi penitenziali, a partire dall’atto penitenziale (Per celebrare degnamente i Santi Misteri, riconosciamo i nostri peccati… La Parola del Vangelo cancelli i nostri peccati… Agnello di Dio che togli i peccati del mondo… Signore non sono degno…). Il peccato è nostro: se tu non lo porti, non è trasformato, non è perdonato, non è consacrato. Si può consacrare anche il peccato? Certamente anche il peccato, come espressione della nostra vita, deve passare attraverso l’altare. Se ci lamentiamo di quelli che non vengono, dobbiamo lamentarci anche di quelli che vengono parzialmente a Messa e che dicono (anche se non lo pensano così come adesso lo sto esprimendo): Io vengo a Messa, Signore; ti presento l’80% della mia vita, ma questo 20% non lo guardare, non Te lo porto perché è mio, perché è una cosa a cui tengo, perché non voglio che Tu ci metta lo sguardo… Normalmente si tratta di cose dove preferiamo fare da soli, dove non vogliamo che il Signore Gesù metta il naso, ma ciò che non porti, ciò che non metti sull’altare, non è trasformato. Allora dobbiamo portare sull’altare quella dimensione essenziale della nostra vita che si chiama lavoro. D’altra parte questo termine torna anche in un punto della liturgia dell’offertorio: frutto della terra e del lavoro dell’uomo, detto del pane e del vino. Questa espressione – frutto della terra e del lavoro dell’uomo – su cui forse non ci siamo mai fermati a riflettere abbastanza, esprime proprio questo passaggio, questo mettere sull’altare, questo affidare a Dio e dire: Trasforma questa parte della mia vita. Frutto della terra e del lavoro dell’uomo: perché si utilizza questa espressione? Perché qui ci sono due elementi essenziali della vita, cioè la natura e la cultura, altrimenti si sarebbe detto frutto della terra oppure frutto del lavoro dell’uomo. Qual è il rapporto tra la terra e il lavoro dell’uomo? Il lavoro si pone in questa relazione: ci sono delle materie prime che vengono trasformate; le materie prime le troviamo in natura, ma poi l’intelligenza umana, la cultura trasformano queste materie prime. In primis questo riguarda il pane e il vino, perché il pane e il vino è innanzi tutto frutto della terra. Forse hai fatto spuntare tu il grano? hai fatto fiorire la vite? hai fatto maturare il grappolo? No, anche se sei già intervenuto attraverso la potatura, per quanto concerne le viti, sulla semina per quanto concerne il pane. Ma chi ha fatto crescere? D’altra parte il grano che hai seminato viene dalla terra stessa ed è quindi frutto della terra, perché il lavoro innanzi tutto riguarda il nostro rapporto con la terra (questo discorso vale anche per quelli che non lavorano la terra, che fanno un lavoro concettuale, non manuale). Quindi il lavoro innanzi tutto riguarda la terra e quindi riguarda la natura, poi la natura viene assunta dall’uomo, attraverso un processo che si chiama “cultura”. Quando io mangio il pane o guardo il pane, come adesso, io svolgo un’azione culturale: perché quest’Ostia potesse diventare Ostia, sono intervenute la cultura e la natura. È intervenuta la natura perché quest’Ostia era grano, poi un germoglio, poi una spiga matura che è stata recisa. Fin qui la natura, anche se è intervenuto l’uomo nella semina e nella mietitura; poi c’è un processo: il grano macinato è un fatto culturale, la farina impastata - e qui entrano le mani delle donne - è un fatto culturale, il pane fermentato e lasciato fermentare è un fatto culturale, il pane messo nel forno è un fatto culturale, il pane croccante, profumato - spero di farvi venire un po’ di acquolina in bocca - è un fatto culturale.

Il lavoro riguarda la natura e riguarda la cultura; riguarda le materie prime, che troviamo in natura, ma riguarda anche la trasformazione di queste materie attraverso una elaborazione. La spiga-pane è un processo naturale e culturale.

Questa spiegazione, che potrebbe apparirvi un tantino arida, in realtà ha delle grosse incidenze per quanto concerne la spiritualità dell’Eucarestia rispetto al lavoro. Qualsiasi lavoro tu faccia, tu sei implicato sul piano della natura e della cultura. Tu ricevi delle cose e le trasformi, fosse anche, come sto facendo io in questo momento, attraverso le parole. Quelli fra voi che insegnano svolgono questa azione: impastano parole; poi ci sono quelli che impastano farina, quelli che impastano dolci, quelli che impastano sostanze chimiche e quelli che impastano poesie. Tutti impastiamo e, nell’impasto, abbiamo bisogno di seguire le dosi giuste, come mi insegnate, altrimenti non viene fuori nulla di buono. Questo è un fatto culturale. Questo aspetto di te non può prescindere dall’Eucarestia, perché se ci fate caso, trascorriamo più tempo al lavoro di quanto non ne trascorriamo con il marito o con la moglie, con i figli o con gli amici. È il problema dell’alienazione del lavoro (adesso dimentichiamo per un attimo - ci porterebbe lontano - il fatto che il lavoro non c’è come offerta). L’aspetto lavorativo è apparso spesso un elemento alieno dalla fede: che c’entra che tu sia un ingegnere, un operaio, un coltivatore diretto o una cantante lirica? C’entra con la  fede! C’entra!, perché se tu tagli fuori la fetta del lavoro, tu tagli fuori gran parte della tua vita. Il dottor Pozzuoli - che è qui - nella sua veneranda età, ancora va in farmacia: significa che, benché possa vivere tranquillamente da pensionato, sente che il rapporto non tanto con i farmaci, quanto con i clienti, sia un fatto vitale per lui. Quindi il lavoro, che riguarda gran parte della nostra vita, deve trovare un collegamento con la nostra fede, altrimenti noi siamo scissi, siamo persone non equilibrate.

A che serve il lavoro? (Vi sembra che io vi stia facendo un catechismo sul lavoro). Se io ve lo chiedessi, voi mi rispondereste che serve per il sostentamento della vita. È vero, ma non è l’unico motivo del lavoro.

Il lavoro non è solo legato allo stipendio: il lavoro è legato alla realizzazione della propria vita, tant’è vero che alcune persone, che non hanno bisogno di lavorare, continuano a lavorare. Perché? Sono avide? No, perché il lavoro non è solo produttivo nei termini economici, ma è produttivo nei termini dell’equilibrio, nei termini di un investimento di energia, nei termini di una costruzione di me che non può fermarsi. Non so se siete d’accordo, ma stiamo facendo una conferenza su questo aspetto; tra l’altro non dico cose mie, ma una riflessione elementare sul tema del lavoro così com’è andata sviluppandosi anche all’interno della dottrina sociale della Chiesa. Volete una prova che il lavoro non è solo legato allo stipendio? Il momento del pensionamento è un momento terribile per le persone. Noi potremmo dire: “Adesso puoi goderti la pensione! Non devi più andare a lavorare!”. Tante persone o muoiono o vanno in depressione all’atto in cui non lavorano più. Dobbiamo insegnare ai nostri anziani che bisogna andare in pensione, ma non bisogna stare inattivi, altrimenti si invecchia in caduta libera, come invecchiano anche quelli – beati loro – in pensione anche a 50’anni (quelli dell’esercito, quelli un po’ benemeriti, di certe categorie…). Il fatto che, all’indomani della pensione, uno possa vedersi disorientato è una prova del lavoro come luogo di edificazione della propria persona, come modo di comunicare col mondo, di mettersi d’accordo con la storia, per dire “ci sono anch’io”. Vivete così il lavoro?

Questo non è un seminario di orientamento al lavoro, di rimotivazione lavorativa, ma è una riflessione all’interno della fede, davanti a Gesù, che ci dice: Tu il tuo lavoro me lo porti la Domenica? me ne parli?

Succede con Gesù quello che succede a casa vostra. Quando tornate da lavoro, e il marito o la moglie non vuole saperne dei problemi del lavoro, non è un buon segno: “Adesso stiamo qui e non parliamo dei problemi del lavoro!”. Se fa parte della mia vita, se con il mio capo-reparto sono andato in rotta di collisione, se ho avuto delle ingiustizie, non posso non raccontartele, perché il lavoro è costitutivo della vita e, ripeto, quelli fra voi – non ce ne saranno – che sono inattivi in qualche maniera, si mettono in attività. È un lavoro di tutto rispetto anche quello casalingo, tanto per sollevare le sorti delle donne che si sentono un po’ penalizzate perché non escono; c’è un lavoro anche interno. Gesù vuole che questo lavoro ti edifichi: tu stai impastando il mondo. Nel Libro di Genesi è scritto che Dio pianta un giardino in Eden e lo affida all’uomo perché ne fosse “custode e contadino”. “Custode” riguarda la natura, “contadino” riguarda la cultura; “custode” riguarda “l’ho fatto Io, non è tuo, te lo affido temporaneamente”. Tu sei un affittuario del mondo, non un proprietario, non esistono proprietari del mondo, neanche terrieri o di case. “Contadino” significa che tu non mi devi rendere questo terreno così come te l’ho dato, ma valorizzato.

Cari fratelli e sorelle, questa è la nostra vita (non vi sto parlando di un problema sociale) e se alla fine della mia vita mi presentassi a Gesù, al Padre, e ponessi davanti a loro la mia vita così come l’ho ricevuta, tale e quale, posso essere salvato? No, perché ho nascosto il talento, l’ho sotterrato, ho avuto paura, sono stato un timido rispetto alla vita, non mi sono lanciato, non mi sono giocato, non ho impastato. Io debbo giungere, alla fine dei giorni, maturo anche in questa opera; il Signore deve dire: “Tu sei riuscito a trasformare in aiuola – speriamo! – il piccolo giardino dell’Episcopio!”, per fare un riferimento molto concreto a cui il Vescovo tiene non poco (e non per un fatto estetico). Se ciascuno di noi trasforma in giardino la piccola aiuola che ha ricevuto, allora abbiamo un custode che è diventato anche contadino, che ha trasformato, che ha migliorato. Quando si dice di un terreno: “Però l’ho migliorato…”, significa una certa cosa in termini economici; c’è bisogno che tu mi paghi anche le migliorie, cioè quello che sotto la mia mano (la mia cultura, il mio impegno, il mio lavoro) questo terreno, questo appezzamento ha reso rispetto a come me lo hai consegnato. Arriveremo così davanti al Signore o saremo servi fannulloni, inoperosi, che timbrano il cartellino e vanno via? che non svolgono bene il loro dovere? Ma cristiani così non sono cristiani. I cristiani così non collegano - per quello che mi stava a cuore di dirvi - il proprio aspetto lavorativo con ciò che celebrano la Domenica.

Chiediamo perdono a Gesù per tutto il lavoro che non abbiamo svolto o per tutti quegli aspetti lavorativi che, per un erroneo senso del sacro, non vi abbiamo fatto entrare, perché fatto laico, perché fatto prosaico. No. Gesù che ha lavorato con le sue mani (Non è il figlio del carpentiere, del falegname? - si chiedono gli abitanti di Nazareth), sa cos’è il lavoro e sa che il lavoro è elemento di equilibrio per ogni persona.

Gesù, portiamo nell’Eucarestia il nostro lavoro e i problemi inerenti al lavoro.  

 

***

 

II PARTE

 

Il lavoro ha un grande pericolo da evitare, una grande tentazione lo attraversa: la presunzione. Il lavoro, quando entusiasma, quando ci prende – ed è bene che ci entusiasmi e ci prenda – può anche condurci lontani da Dio, perché presi dalla presunzione di trasformare il mondo, di prendere le materie prime e trasformarle, passando dalla natura alla cultura. Perché questo non avvenga, c’è bisogno di una pausa, di una distanza. Questa distanza si chiama festa.

Dobbiamo riconoscere al popolo ebraico la chiarezza di questo rapporto “lavoro-festa” fin dall’antichità. Israele ha, tra i tanti motivi di genialità - a prescindere che questo sia venuto, ovviamente, dalla Parola di Dio (faccio una lettura umana) - anche questo: d’aver ipotizzato, in tempi non sospetti, in cui il lavoro era vessazione, era forzato, c’era la schiavitù, un giorno per la festa (il sabato). Nella creazione, anche Dio lavora, anche Dio impasta la terra, cerca nuove ipotesi per la compagnia dell’uomo, ma quando portò a compimento il cielo e la terra, Dio si riposò dal suo lavoro e consacrò il settimo giorno come giorno del riposo, cioè giorno della festa. Qui non si tratta solo dell’astensione dal lavoro, ma si tratta di un lavoro diverso, di un lavoro senza retribuzione, di un lavoro che è danza, di un lavoro che è gratuità, di un lavoro che è amore, di un lavoro che è celebrazione, di un lavoro che è assemblea sacra per gli ebrei e per noi: Santa Messa. La festa è una sorta di condimento del lavoro e, senza il sale della festa, il lavoro diventa insipido e insopportabile. Nell’Eucarestia noi portiamo il lavoro (frutto della terra e del lavoro dell’uomo), ma lo facciamo in una maniera solenne nel giorno della festa, nel giorno della Domenica, giorno della Resurrezione, come per il sabato ebraico, intorno alla quale danzano gli altri giorni. Il giorno centrale è il giorno della festa, è il giorno del gioco. Se tuo marito va a giocare a calcetto (speriamo non tutte le sere), fa un lavoro gratuito, fa un lavoro piacevole. Quindi la festa non è solo la sospensione del lavoro, ma è un modo diverso di rapportarsi alla vita, celebrando il fatto che stiamo insieme e quindi ceniamo insieme, pranziamo insieme, facciamo un viaggio (non significa fare le mummie, le statuine, perché tu cucini anche di Domenica, perché si imbandisce la mensa in maniera più solenne, perché si prendono gli argenti)… Tutto questo è un lavoro piacevole: a nessuno dovrai chiedere lo stipendio per quello che fai la Domenica, perché la Domenica è il giorno della gratuità, è il giorno in cui bisogna lavorare danzando, bisogna lavorare riposandosi. Sto parlando in una maniera apparentemente paradossale, ma spero di riuscire a trasmettervi il fatto che il lavoro e la festa sono insieme.

Adesso noi stiamo estendendo il tempo della festa e diminuendo il tempo del lavoro; una cosa di per sé giusta, ma che ci fa rischiare molto: ci fa rischiare la perdita del senso della festa, perché la festa (cfr. Il sabato del villaggio) ha senso in quanto è attesa: Diman tristezza e noia recheran l’ore (sarebbe il lunedì, il martedì…). La festa è bella perché è attesa, ma se io trasformo una settimana in festa, allora la Domenica non avrà più alcun senso; se io lavoro una tantum e invece passo da un viaggio all’altro, da un pellegrinaggio a un altro, vado sempre dove c’è il sole, questa estensione della festa porta all’insignificanza della festa, perché la festa ha senso nella misura in cui è a piccole dosi, nella misura in cui è attesa, nella misura in cui scandisce il tempo del lavoro. C’è un grande conoscitore della cultura ebraica che si chiama Elyashiv, un rabbino, defunto, che ha scritto un’opera: Il sabato. Se volete capire qualcosa dell’ebraismo, del sabato, ma anche della nostra Domenica, leggetevi questa voluminosa opera, bellissima e scritta anche in una maniera molto poetica. È sua questa espressione: Mentre durante i giorni della settimana noi ci dedichiamo alle opere di Dio, il sabato – e tu leggi per te, la Domenica – ci dedichiamo al Dio delle opere. Quindi, durante la settimana ci dedichiamo alle opere di Dio, e quindi il lavoro è opera di Dio (opus Dei, dice San Benedetto della preghiera), come anche il lavoro, l’insegnamento, fare la casalinga: tutto è opera di Dio. Poi c’è un giorno in cui smetti di fare le opere di Dio e ti dedichi al Dio delle opere, cioè al Dio che è al di sopra di tutto. Quindi la Domenica deve essere questa festa, e noi dobbiamo organizzarci, in qualche maniera nelle nostre parrocchie, per ridare alla Domenica la sua dignità di festa. Ma la Domenica avrà la sua dignità di festa nella misura in cui al centro c’è la “regina”.

Oggi non vado a Messa, perché sono in vacanza… È una contraddizione in termini per un credente, tanto più per un catechista. Sono in vacanza e non vado a Messa, a dire: sto nella reggia, ma metto fuori la regina. Se ci fate caso, questa festa reiterata ossessivamente, ci sta facendo perdere il senso della gioia. La gioia voi la vedete nelle feste, nelle vacanze, nei tour a prova di sforzo?, per dirla con gli esami che ci fanno fare in ospedale. Sempre a correre e si arriva stanchi dalle vacanze, si arriva stanchi dai viaggi, si arriva stanchi dal riposo; è una contraddizione dinanzi ai nostri occhi, a dire che non sappiamo più riposarci, non sappiamo più far festa, non sappiamo più far festa nella maniera più immediata, più semplice, ma anche più costruttiva. Nelle vostre parrocchie – e voi siete corresponsabili con i parroci –, nelle vostre comunità, bisogna fare delle “promozioni” della Domenica e dell’Eucarestia domenicale. Non è una promozione la Messa prefestiva; purtroppo c’è, ma non è una promozione, perché è prendere a pochi spiccioli, a meno che non ci siano gravi ragioni. L’Eucarestia deve restare al centro della Domenica, non può stare: “Adesso mi tolgo il pensiero e poi mi dedico alla Domenica”. No, la “Regina” sta sul trono, deve stare al centro. Ciascuno di voi risponda a questa domanda: la mia famiglia dove colloca la Messa? Le persone anziane alle prime ore del mattino; gli altri, se ci vanno, cercano un angolino, il più nascosto possibile, la sera prima o la sera della Domenica. Forse verrà un tempo – forse scandalizzo i miei preti – in cui si eliminerà la Messa prefestiva e la Messa vespertina. Passerà un po’ di tempo, ma succederà; toglieremo queste due messe scandalose che sono una sorta di escamotage per mettere la “Regina” nello sgabuzzino. No, deve stare al centro!, a costo di dire una sola Messa, alle 11:00, alle 10:30, alle 10:00, dove converga la comunità, dove si faccia festa e gli altri ci vedano uscire di chiesa, non imbronciati e innervositi dalla predica del Vescovo, ma gioiosi come se uscissimo da una seduta dall’estetista: Ma dove siete stati? Siamo stati a Messa! Siamo stati alla nostra festa: abbiamo cantato, condiviso la gioia, ascoltato la Parola, abbiamo ricevuto il perdono dei peccati e abbiamo mangiato il Corpo e il Sangue del Signore.

Un gruppo enorme di fedeli, all’inizio della storia del Cristianesimo, si fece trucidare perché disse: “Senza la Domenica non possiamo vivere!” (intendevano l’Eucarestia). Lasciamoci provocare da questi martiri dell’Eucarestia e dalla centralità dell’Eucarestia come senso di festa. Vi auguro di riscoprire il senso del lavoro e il senso della festa, e l’uno e l’altro convergenti nella Celebrazione Eucaristica.

Accetta, Signore, questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo e fa’ che divenga per noi cibo di vita eterna.

Benedetto nei secoli il Signore.      

  

  

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.