Diocesi di Teano-Calvi
Chiesa Madre di Sparanise
22 marzo 2011
Incontro di preghiera
in preparazione al Congresso
Eucaristico di Ancona
“L’Eucarestia per il lavoro e la festa”
Meditazioni di
S. E. Rev.ma
Mons. Arturo Aiello
~
Gv 6, 35-40
I PARTE
Abbiamo
pregato con la formula della preghiera di preparazione al Congresso
Eucaristico: Venga il Tuo Regno, e il
mondo si trasformi in una Eucarestia vivente.
In
questa seconda tappa del nostro cammino quaresimale in preparazione al
Congresso Eucaristico, davanti a Gesù Eucarestia, vorrei partire da questa
espressione: Trasformi il mondo in una
Eucarestia vivente. Cosa significa per noi?
Il
mondo ha bisogno d’essere trasformato. “Eucarestia” significa “rendimento di
grazie” e si rende grazie a Colui che ci ha fatti. Il mondo che si trasforma in
una Eucarestia vivente è il mondo fermentato, fecondato dall’Eucarestia,
impastato nel pane, nel vino, nella Parola - elementi essenziali della
celebrazione eucaristica - e che diventa, misteriosamente, segretamente, anche
attraverso di noi, attraverso la nostra fede, attraverso il nostro lasciarci
coinvolgere in ciò che celebriamo, un rendimento di grazie al Padre. A questo
tende la vita del mondo e a questo tende la vita della Chiesa. A questo deve
tendere anche la nostra vita, cari fratelli e sorelle, che siamo qui davanti a
Gesù Eucarestia per ritrovare l’orientamento della nostra vita.
Del
Vangelo scelto per questa sera vorrei sottolineare l’espressione “E questa è la volontà di Colui che mi ha
mandato: che io non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma che lo risusciti
nell’ultimo giorno”.
Gesù
sente una responsabilità nei confronti di ciò che il Padre gli ha dato e che
cosa gli ha dato? Tutto. Tutto è stato
fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui, le cose del cielo e quelle della
terra – dice Paolo. Quindi il Padre gli ha affidato tutto ed egli non deve
perdere nulla. Una cosa è certa: non si perderanno le cose, non si perderanno
le piante, non si perderanno gli animali, non si perderanno le pietre, e perché
non si perderanno? Perché non hanno possibilità di dire no. È possibile che si
perda una sola cosa: l’uomo, che ha la libertà che lo pone nella possibilità di
dire no a Dio, no al Suo progetto, no al Sangue di Cristo che ci lava, non
automaticamente, ma nella misura in cui ci lasciamo inondare. Quindi la
preoccupazione di Gesù è che gli uomini corrispondano (le cose, gli animali, le
piante sono già salve), che gli uomini si lascino trovare, non abbiano a
perdersi. Io posso perdermi, io che vi sto parlando, e voi potete perdervi, noi
possiamo perderci. Tante persone si perdono perché perdono l’orientamento,
perché non sanno più chi sono, perché l’Eucarestia è il ricordo della Prima
Comunione o di qualche celebrazione casuale in cui non ci si è lasciati coinvolgere.
Accade dell’Eucarestia quello che accade in una relazione: ci si può lasciare
coinvolgere e si può restare estranei. Purtroppo, cari fratelli e sorelle, noi
rischiamo d’essere estranei a Gesù, benché Egli sia rimasto con noi in questo
mistero, al centro della vita della Chiesa, che è l’Eucarestia. È possibile
perdersi quando Lui si è perso per noi perché noi avessimo a ritrovarci e a
ritrovarlo? La risposta è sì. Gesù farà di tutto perché noi non ci perdiamo, ma
d’altra parte, se solo guardate l’andamento delle comunità parrocchiali (in
qualche maniera sono qui rappresentate quelle della forania
di Pignataro, Sparanise, con le altre parrocchie che vi girano intorno), vi
rendete conto da voi di quante persone siano lontane, anche di quelle che una
volta erano vicine: si sono allontanate impercettibilmente, a piccoli passi,
forse anche tuo figlio, forse anche tuo marito, forse anche quella persona,
forse anche quel catechista, quell’educatore, quell’operatore pastorale, quel
componente del consiglio pastorale che era così zelante, così presente, così
vicino, così preso… Poi ad un certo punto è accaduto
qualcosa e, come il giovane ricco, ha girato le spalle e se n’è andato,
ritenendo che le richieste di Gesù fossero esorbitanti, mentre Gesù chiede
qualcosa, che è sempre un “prezzo simbolico” rispetto a ciò che Egli vuole
darci, cioè la salvezza (perché non perda
nessuno di ciò che il Padre mi ha dato e lo risusciti nell’ultimo giorno).
Questo si chiama felicità.
Comprendiamo
che abbiamo la felicità a portata di mano, qui, ad un passo da noi,
sull’altare? È il Pane da mangiare, adesso un Pane da guardare perché ti venga
appetito, perché se il pane lo mangiamo soltanto e non lo guardiamo, ne
perdiamo il sapore. Guardare il pane per aumentare la “salivazione spirituale”,
guardare il pane come si guarda – spero – un piatto colmo prima di affondarvi
la forchetta. L’arte della cucina è anche questo: vedere, sentire l’odore;
dopo, mangiare. L’adorazione è sentire l’odore, il profumo, guardare il Pane,
quel Pane che poi mangerai domani.
Il
tema che mi è stato affidato, in questa seconda giornata dei quattro incontri
quaresimali, è l’Eucarestia collegata al lavoro e alla festa. Dividerò in due
parti il mio intervento nell’Adorazione. Innanzi tutto l’Eucarestia collegata
al lavoro: non è che sia un’agenzia di lavoro (non ne troviamo qui, anzi, qui
veniamo a riposarci), ma è il luogo dove tutto deve passare. L’Eucarestia, nel
modo in cui la celebriamo, negli effetti che ha nella nostra vita, è ancora
solo parzialmente utilizzata, perché noi non vi facciamo passare tutto. Adesso
mi interessa chiarire questo piccolo concetto: quello che non passa attraverso
l’Eucarestia non è efficace. Ieri, in un incontro, parlavamo della vita
affettiva e adesso lo diciamo del lavoro: anche il lavoro deve passare
attraverso l’Eucarestia, perché - diceva un antico adagio che adesso vi traduco
dal latino - ciò che non è offerto, non è
trasformato. Significa, innanzi tutto, che se tu non porti il pane e il
vino sull’altare, non diventa il Corpo e il Sangue di Gesù. Questo lo capiamo
per l’Eucarestia, perché ci hanno insegnato, fin da quando eravamo bambini, che
il pane e il vino sono essenziali, è la materia dell’Eucarestia, e poi ci vorrà
anche la comunità, la Parola… Non lo capiamo invece
per quanto concerne il resto della nostra vita, cioè se tu non porti qui
qualcosa di te, quel qualcosa di te rimane non divinizzato, non consacrato.
Allora, quando vieni a Messa, porti la tua famiglia? porti i tuoi figli? porti
le tue preoccupazioni? porti i tuoi peccati? Anche quelli! Ci appartengono!
D’altra parte l’Eucarestia è punteggiata di elementi penitenziali, a partire
dall’atto penitenziale (Per celebrare
degnamente i Santi Misteri, riconosciamo i nostri peccati…
La Parola del Vangelo cancelli i nostri peccati…
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo… Signore
non sono degno…). Il peccato è nostro: se tu non
lo porti, non è trasformato, non è perdonato, non è consacrato. Si può
consacrare anche il peccato? Certamente anche il peccato, come espressione
della nostra vita, deve passare attraverso l’altare. Se ci lamentiamo di quelli
che non vengono, dobbiamo lamentarci anche di quelli che vengono parzialmente a
Messa e che dicono (anche se non lo pensano così come adesso lo sto
esprimendo): Io vengo a Messa, Signore; ti presento l’80% della mia vita, ma
questo 20% non lo guardare, non Te lo porto perché è mio, perché è una cosa a
cui tengo, perché non voglio che Tu ci metta lo sguardo…
Normalmente si tratta di cose dove preferiamo fare da soli, dove non vogliamo
che il Signore Gesù metta il naso, ma ciò che non porti, ciò che non metti
sull’altare, non è trasformato. Allora dobbiamo portare sull’altare quella
dimensione essenziale della nostra vita che si chiama lavoro. D’altra parte
questo termine torna anche in un punto della liturgia dell’offertorio: frutto della terra e del lavoro dell’uomo,
detto del pane e del vino. Questa espressione – frutto della terra e del lavoro dell’uomo – su cui forse non ci
siamo mai fermati a riflettere abbastanza, esprime proprio questo passaggio,
questo mettere sull’altare, questo affidare a Dio e dire: Trasforma questa
parte della mia vita. Frutto della terra
e del lavoro dell’uomo: perché si utilizza questa espressione? Perché qui
ci sono due elementi essenziali della vita, cioè la natura e la cultura,
altrimenti si sarebbe detto frutto della
terra oppure frutto del lavoro
dell’uomo. Qual è il rapporto tra la terra e il lavoro dell’uomo? Il lavoro
si pone in questa relazione: ci sono delle materie prime che vengono
trasformate; le materie prime le troviamo in natura, ma poi l’intelligenza
umana, la cultura trasformano queste materie prime. In primis questo riguarda
il pane e il vino, perché il pane e il vino è innanzi tutto frutto della terra.
Forse hai fatto spuntare tu il grano? hai fatto fiorire la vite? hai fatto
maturare il grappolo? No, anche se sei già intervenuto attraverso la potatura,
per quanto concerne le viti, sulla semina per quanto concerne il pane. Ma chi
ha fatto crescere? D’altra parte il grano che hai seminato viene dalla terra
stessa ed è quindi frutto della terra,
perché il lavoro innanzi tutto riguarda il nostro rapporto con la terra (questo
discorso vale anche per quelli che non lavorano la terra, che fanno un lavoro
concettuale, non manuale). Quindi il lavoro innanzi tutto riguarda la terra e
quindi riguarda la natura, poi la natura viene assunta dall’uomo, attraverso un
processo che si chiama “cultura”. Quando io mangio il pane o guardo il pane,
come adesso, io svolgo un’azione culturale: perché quest’Ostia potesse
diventare Ostia, sono intervenute la cultura e la natura. È intervenuta la
natura perché quest’Ostia era grano, poi un germoglio, poi una spiga matura che
è stata recisa. Fin qui la natura, anche se è intervenuto l’uomo nella semina e
nella mietitura; poi c’è un processo: il grano macinato è un fatto culturale,
la farina impastata - e qui entrano le mani delle donne - è un fatto culturale,
il pane fermentato e lasciato fermentare è un fatto culturale, il pane messo
nel forno è un fatto culturale, il pane croccante, profumato - spero di farvi
venire un po’ di acquolina in bocca - è un fatto culturale.
Il
lavoro riguarda la natura e riguarda la cultura; riguarda le materie prime, che
troviamo in natura, ma riguarda anche la trasformazione di queste materie
attraverso una elaborazione. La spiga-pane è un processo naturale e culturale.
Questa
spiegazione, che potrebbe apparirvi un tantino arida, in realtà ha delle grosse
incidenze per quanto concerne la spiritualità dell’Eucarestia rispetto al
lavoro. Qualsiasi lavoro tu faccia, tu sei implicato sul piano della natura e
della cultura. Tu ricevi delle cose e le trasformi, fosse anche, come sto
facendo io in questo momento, attraverso le parole. Quelli fra voi che
insegnano svolgono questa azione: impastano parole; poi ci sono quelli che
impastano farina, quelli che impastano dolci, quelli che impastano sostanze
chimiche e quelli che impastano poesie. Tutti impastiamo e, nell’impasto,
abbiamo bisogno di seguire le dosi giuste, come mi insegnate, altrimenti non
viene fuori nulla di buono. Questo è un fatto culturale. Questo aspetto di te
non può prescindere dall’Eucarestia, perché se ci fate caso, trascorriamo più
tempo al lavoro di quanto non ne trascorriamo con il marito o con la moglie, con
i figli o con gli amici. È il problema dell’alienazione del lavoro (adesso
dimentichiamo per un attimo - ci porterebbe lontano - il fatto che il lavoro
non c’è come offerta). L’aspetto lavorativo è apparso spesso un elemento alieno
dalla fede: che c’entra che tu sia un ingegnere, un operaio, un coltivatore
diretto o una cantante lirica? C’entra con la
fede! C’entra!, perché se tu tagli fuori la fetta del lavoro, tu tagli
fuori gran parte della tua vita. Il dottor Pozzuoli - che è qui - nella sua
veneranda età, ancora va in farmacia: significa che, benché possa vivere
tranquillamente da pensionato, sente che il rapporto non tanto con i farmaci,
quanto con i clienti, sia un fatto vitale per lui. Quindi il lavoro, che
riguarda gran parte della nostra vita, deve trovare un collegamento con la
nostra fede, altrimenti noi siamo scissi, siamo persone non equilibrate.
A
che serve il lavoro? (Vi sembra che io vi stia facendo un catechismo sul
lavoro). Se io ve lo chiedessi, voi mi rispondereste che serve per il
sostentamento della vita. È vero, ma non è l’unico motivo del lavoro.
Il
lavoro non è solo legato allo stipendio: il lavoro è legato alla realizzazione
della propria vita, tant’è vero che alcune persone, che non hanno bisogno di
lavorare, continuano a lavorare. Perché? Sono avide? No, perché il lavoro non è
solo produttivo nei termini economici, ma è produttivo nei termini
dell’equilibrio, nei termini di un investimento di energia, nei termini di una
costruzione di me che non può fermarsi. Non so se siete d’accordo, ma stiamo
facendo una conferenza su questo aspetto; tra l’altro non dico cose mie, ma una
riflessione elementare sul tema del lavoro così com’è andata sviluppandosi
anche all’interno della dottrina sociale della Chiesa. Volete una prova che il
lavoro non è solo legato allo stipendio? Il momento del pensionamento è un
momento terribile per le persone. Noi potremmo dire: “Adesso puoi goderti la
pensione! Non devi più andare a lavorare!”. Tante persone o muoiono o vanno in
depressione all’atto in cui non lavorano più. Dobbiamo insegnare ai nostri
anziani che bisogna andare in pensione, ma non bisogna stare inattivi,
altrimenti si invecchia in caduta libera, come invecchiano anche quelli – beati
loro – in pensione anche a 50’anni (quelli dell’esercito, quelli un po’
benemeriti, di certe categorie…). Il fatto che,
all’indomani della pensione, uno possa vedersi disorientato è una prova del
lavoro come luogo di edificazione della propria persona, come modo di
comunicare col mondo, di mettersi d’accordo con la storia, per dire “ci sono anch’io”.
Vivete così il lavoro?
Questo
non è un seminario di orientamento al lavoro, di rimotivazione
lavorativa, ma è una riflessione all’interno della fede, davanti a Gesù, che ci
dice: Tu il tuo lavoro me lo porti la Domenica? me ne parli?
Succede
con Gesù quello che succede a casa vostra. Quando tornate da lavoro, e il
marito o la moglie non vuole saperne dei problemi del lavoro, non è un buon
segno: “Adesso stiamo qui e non parliamo dei problemi del lavoro!”. Se fa parte
della mia vita, se con il mio capo-reparto sono andato in rotta di collisione,
se ho avuto delle ingiustizie, non posso non raccontartele, perché il lavoro è
costitutivo della vita e, ripeto, quelli fra voi – non ce ne saranno – che sono
inattivi in qualche maniera, si mettono in attività. È un lavoro di tutto
rispetto anche quello casalingo, tanto per sollevare le sorti delle donne che
si sentono un po’ penalizzate perché non escono; c’è un lavoro anche interno.
Gesù vuole che questo lavoro ti edifichi: tu stai impastando il mondo. Nel
Libro di Genesi è scritto che Dio pianta un giardino in Eden e lo affida
all’uomo perché ne fosse “custode e contadino”. “Custode” riguarda la natura,
“contadino” riguarda la cultura; “custode” riguarda “l’ho fatto Io, non è tuo,
te lo affido temporaneamente”. Tu sei un affittuario del mondo, non un
proprietario, non esistono proprietari del mondo, neanche terrieri o di case.
“Contadino” significa che tu non mi devi rendere questo terreno così come te
l’ho dato, ma valorizzato.
Cari
fratelli e sorelle, questa è la nostra vita (non vi sto parlando di un problema
sociale) e se alla fine della mia vita mi presentassi a Gesù, al Padre, e
ponessi davanti a loro la mia vita così come l’ho ricevuta, tale e quale, posso
essere salvato? No, perché ho nascosto il talento, l’ho sotterrato, ho avuto
paura, sono stato un timido rispetto alla vita, non mi sono lanciato, non mi
sono giocato, non ho impastato. Io debbo giungere, alla fine dei giorni, maturo
anche in questa opera; il Signore deve dire: “Tu sei riuscito a trasformare in
aiuola – speriamo! – il piccolo giardino dell’Episcopio!”, per fare un
riferimento molto concreto a cui il Vescovo tiene non poco (e non per un fatto
estetico). Se ciascuno di noi trasforma in giardino la piccola aiuola che ha
ricevuto, allora abbiamo un custode che è diventato anche contadino, che ha
trasformato, che ha migliorato. Quando si dice di un terreno: “Però l’ho migliorato…”, significa una certa cosa in termini economici;
c’è bisogno che tu mi paghi anche le migliorie, cioè quello che sotto la mia
mano (la mia cultura, il mio impegno, il mio lavoro) questo terreno, questo
appezzamento ha reso rispetto a come me lo hai consegnato. Arriveremo così
davanti al Signore o saremo servi fannulloni, inoperosi, che timbrano il
cartellino e vanno via? che non svolgono bene il loro dovere? Ma cristiani così
non sono cristiani. I cristiani così non collegano - per quello che mi stava a
cuore di dirvi - il proprio aspetto lavorativo con ciò che celebrano la
Domenica.
Chiediamo
perdono a Gesù per tutto il lavoro che non abbiamo svolto o per tutti quegli
aspetti lavorativi che, per un erroneo senso del sacro, non vi abbiamo fatto
entrare, perché fatto laico, perché fatto prosaico. No. Gesù che ha lavorato
con le sue mani (Non è il figlio del
carpentiere, del falegname? - si chiedono gli abitanti di Nazareth), sa
cos’è il lavoro e sa che il lavoro è elemento di equilibrio per ogni persona.
Gesù, portiamo nell’Eucarestia
il nostro lavoro e i problemi inerenti al lavoro.
***
II PARTE
Il
lavoro ha un grande pericolo da evitare, una grande tentazione lo attraversa:
la presunzione. Il lavoro, quando entusiasma, quando ci prende – ed è bene che
ci entusiasmi e ci prenda – può anche condurci lontani da Dio, perché presi
dalla presunzione di trasformare il mondo, di prendere le materie prime e
trasformarle, passando dalla natura alla cultura. Perché questo non avvenga,
c’è bisogno di una pausa, di una distanza. Questa distanza si chiama festa.
Dobbiamo
riconoscere al popolo ebraico la chiarezza di questo rapporto “lavoro-festa”
fin dall’antichità. Israele ha, tra i tanti motivi di genialità - a prescindere
che questo sia venuto, ovviamente, dalla Parola di Dio (faccio una lettura
umana) - anche questo: d’aver ipotizzato, in tempi non sospetti, in cui il
lavoro era vessazione, era forzato, c’era la schiavitù, un giorno per la festa
(il sabato). Nella creazione, anche Dio lavora, anche Dio impasta la terra, cerca
nuove ipotesi per la compagnia dell’uomo, ma quando portò a compimento il cielo
e la terra, Dio si riposò dal suo lavoro e consacrò il settimo giorno come
giorno del riposo, cioè giorno della festa. Qui non si tratta solo
dell’astensione dal lavoro, ma si tratta di un lavoro diverso, di un lavoro
senza retribuzione, di un lavoro che è danza, di un lavoro che è gratuità, di
un lavoro che è amore, di un lavoro che è celebrazione, di un lavoro che è
assemblea sacra per gli ebrei e per noi: Santa Messa. La festa è una sorta di
condimento del lavoro e, senza il sale della festa, il lavoro diventa insipido
e insopportabile. Nell’Eucarestia noi portiamo il lavoro (frutto della terra e del lavoro dell’uomo), ma lo facciamo in una
maniera solenne nel giorno della festa, nel giorno della Domenica, giorno della
Resurrezione, come per il sabato ebraico, intorno alla quale danzano gli altri
giorni. Il giorno centrale è il giorno della festa, è il giorno del gioco. Se
tuo marito va a giocare a calcetto (speriamo non tutte le sere), fa un lavoro
gratuito, fa un lavoro piacevole. Quindi la festa non è solo la sospensione del
lavoro, ma è un modo diverso di rapportarsi alla vita, celebrando il fatto che
stiamo insieme e quindi ceniamo insieme, pranziamo insieme, facciamo un viaggio
(non significa fare le mummie, le statuine, perché tu cucini anche di Domenica,
perché si imbandisce la mensa in maniera più solenne, perché si prendono gli
argenti)… Tutto questo è un lavoro piacevole: a nessuno dovrai chiedere lo
stipendio per quello che fai la Domenica, perché la Domenica è il giorno della
gratuità, è il giorno in cui bisogna lavorare danzando, bisogna lavorare
riposandosi. Sto parlando in una maniera apparentemente paradossale, ma spero
di riuscire a trasmettervi il fatto che il lavoro e la festa sono insieme.
Adesso
noi stiamo estendendo il tempo della festa e diminuendo il tempo del lavoro;
una cosa di per sé giusta, ma che ci fa rischiare molto: ci fa rischiare la
perdita del senso della festa, perché la festa (cfr. Il sabato del villaggio) ha senso in quanto è attesa: Diman tristezza e noia recheran l’ore (sarebbe il lunedì, il martedì…). La festa è bella perché è attesa, ma se io
trasformo una settimana in festa, allora la Domenica non avrà più alcun senso;
se io lavoro una tantum e invece
passo da un viaggio all’altro, da un pellegrinaggio a un altro, vado sempre
dove c’è il sole, questa estensione della festa porta all’insignificanza della
festa, perché la festa ha senso nella misura in cui è a piccole dosi, nella
misura in cui è attesa, nella misura in cui scandisce il tempo del lavoro. C’è
un grande conoscitore della cultura ebraica che si chiama Elyashiv,
un rabbino, defunto, che ha scritto un’opera: Il sabato. Se volete capire qualcosa dell’ebraismo, del sabato, ma
anche della nostra Domenica, leggetevi questa voluminosa opera, bellissima e
scritta anche in una maniera molto poetica. È sua questa espressione: Mentre
durante i giorni della settimana noi ci dedichiamo alle opere di Dio, il sabato
– e tu leggi per te, la Domenica – ci dedichiamo al Dio delle opere. Quindi,
durante la settimana ci dedichiamo alle opere di Dio, e quindi il lavoro è
opera di Dio (opus Dei, dice San
Benedetto della preghiera), come anche il lavoro, l’insegnamento, fare la
casalinga: tutto è opera di Dio. Poi c’è un giorno in cui smetti di fare le
opere di Dio e ti dedichi al Dio delle opere, cioè al Dio che è al di sopra di
tutto. Quindi la Domenica deve essere questa festa, e noi dobbiamo
organizzarci, in qualche maniera nelle nostre parrocchie, per ridare alla
Domenica la sua dignità di festa. Ma la Domenica avrà la sua dignità di festa
nella misura in cui al centro c’è la “regina”.
Oggi non vado a Messa, perché sono in vacanza… È una
contraddizione in termini per un credente, tanto più per un catechista. Sono in
vacanza e non vado a Messa, a dire: sto nella reggia, ma metto fuori la regina.
Se ci fate caso, questa festa reiterata ossessivamente, ci sta facendo perdere
il senso della gioia. La gioia voi la vedete nelle feste, nelle vacanze, nei tour a prova di sforzo?, per dirla con
gli esami che ci fanno fare in ospedale. Sempre a correre e si arriva stanchi
dalle vacanze, si arriva stanchi dai viaggi, si arriva stanchi dal riposo; è
una contraddizione dinanzi ai nostri occhi, a dire che non sappiamo più
riposarci, non sappiamo più far festa, non sappiamo più far festa nella maniera
più immediata, più semplice, ma anche più costruttiva. Nelle vostre parrocchie
– e voi siete corresponsabili con i parroci –, nelle vostre comunità, bisogna
fare delle “promozioni” della Domenica e dell’Eucarestia domenicale. Non è una
promozione la Messa prefestiva; purtroppo c’è, ma non è una promozione, perché
è prendere a pochi spiccioli, a meno che non ci siano gravi ragioni.
L’Eucarestia deve restare al centro della Domenica, non può stare: “Adesso mi
tolgo il pensiero e poi mi dedico alla Domenica”. No, la “Regina” sta sul
trono, deve stare al centro. Ciascuno di voi risponda a questa domanda: la mia
famiglia dove colloca la Messa? Le persone anziane alle prime ore del mattino;
gli altri, se ci vanno, cercano un angolino, il più nascosto possibile, la sera
prima o la sera della Domenica. Forse verrà un tempo – forse scandalizzo i miei
preti – in cui si eliminerà la Messa prefestiva e la Messa vespertina. Passerà
un po’ di tempo, ma succederà; toglieremo queste due messe scandalose che sono
una sorta di escamotage per mettere
la “Regina” nello sgabuzzino. No, deve stare al centro!, a costo di dire una
sola Messa, alle 11:00, alle 10:30, alle 10:00, dove converga la comunità, dove
si faccia festa e gli altri ci vedano uscire di chiesa, non imbronciati e
innervositi dalla predica del Vescovo, ma gioiosi come se uscissimo da una
seduta dall’estetista: Ma dove siete stati? Siamo stati a Messa! Siamo stati
alla nostra festa: abbiamo cantato, condiviso la gioia, ascoltato la Parola,
abbiamo ricevuto il perdono dei peccati e abbiamo mangiato il Corpo e il Sangue
del Signore.
Un
gruppo enorme di fedeli, all’inizio della storia del Cristianesimo, si fece
trucidare perché disse: “Senza la Domenica non possiamo vivere!” (intendevano
l’Eucarestia). Lasciamoci provocare da questi martiri dell’Eucarestia e dalla
centralità dell’Eucarestia come senso di festa. Vi auguro di riscoprire il
senso del lavoro e il senso della festa, e l’uno e l’altro convergenti nella
Celebrazione Eucaristica.
Accetta, Signore, questo pane, frutto
della terra e del lavoro dell’uomo e fa’ che divenga per noi cibo di vita
eterna.
Benedetto nei secoli il Signore.
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.