Fede e religiosità popolare
Teano, 15 gennaio 2011
Salone dell’Episcopio
Riflessioni
di
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
~
Sapete
bene che prediligo questo tipo di atmosfera: l’atmosfera del salotto (sono un po’
nostalgico e spero che queste esperienze ne generino altre, altrove, in altri
luoghi); del “salotto” nel senso più alto del termine, o anche, più popolare
del termine. Vale a dire: persone che si riuniscono insieme non per fare
pettegolezzi – anche quello è salotto – ma per comunicarsi delle idee, per
ascoltare musica, per leggere insieme un poeta, per dirsi, raccontarsi. E nel
salotto, come quello del Settecento per esempio, dove non mancava la spinetta e c’erano sempre
persone che suonavano, ma credo anche nei ricordi di infanzia di alcuni di noi,
la musica non mancava mai. Quindi, grazie.
Grazie
anche a questi giovani - sono tutti teanesi DOC o comunque della Diocesi - che
fanno da interfaccia a discorsi - direbbe il Prof. Ruotolo - un po’ più difficili,
che sono quelli legati alla parola e al racconto di quello che è stato. Io
apprezzo sempre gli interventi del Prof. Ruotolo perché viene fuori una cultura
enciclopedica, anche se lui riesce, con una battuta, a dire che non sta
raccontando nulla, ma dietro le cose che ci ha detto, ci sono anni e anni di
studio, di ricerca e di confronto.
A
me è dato di rispondere all’interrogativo che mi è stato appena posto: che
rapporto c’è tra fede e religiosità popolare? Vorrei fare due interventi e,
dalla vostra attenzione, deciderò se brevi o un po’ più approfonditi.
Il
primo è l’evoluzione dell’immagine nel
vissuto della fede - è un tema grosso, ma cercherò di sminuzzarlo in una
maniera molto immediata -, cioè: che rapporto c’è stato tra l’immagine e il credere?
Poi,
dopo l’intermezzo musicale, nel secondo intervento, più dentro al tema, vorrei
invece mettere a fuoco il rapporto tra
liturgia maggiore e liturgie minori.
I parte
L’evoluzione
dell’immagine nel vissuto della fede
Anche
le persone più sprovvedute sanno che c’è stata un’evoluzione - non sempre
lineare - rispetto al rapporto fede-immagine, perché la fede cristiana è
impiantata nella fede ebraica da cui ci viene il divieto assoluto di riprodurre
immagini del divino. Questo divieto - Non
farai immagine alcuna, etc. – aveva due motivazioni che è bene conoscere.
La
prima era che, per l’orientale, avere l’immagine - come conoscere il nome - è
possedere la persona. Ovviamente Dio non è conoscibile e Dio, ancor più, non Lo
posso possedere e dunque non Lo posso raffigurare.
L’altra
motivazione, che vietava le immagini, dipende dalla differenza che Israele
sentiva come vocazione rispetto ai popoli vicini, che avevano invece le loro
tradizioni religiose con tanti idoli. Spesso nei salmi troviamo: Non come gli idoli d’argento e oro, che
hanno bocca e non parlano, hanno orecchi e non sentono, hanno piedi e non camminano… A dire: Sono delle statue.
Quindi
noi veniamo dall’imprinting ebraico,
che è rimasto per un po’ di secoli anche nella fede cristiana, e che ha
indotto, ha portato dentro di sé anche questo elemento. Per cui, nelle
catacombe noi troveremo al massimo dei simboli. La prima architettura di chiese
– quella romanica – è di una semplicità disarmante: non troviamo arzigogoli,
non troviamo immagini e le poche, pochissime statue, sono così stilizzate e, a
nostro parere, brutte – per tornare anche al discorso fatto poc’anzi dal prof. Ruotolo che parlava di Madonne brutte, e ce ne sono in
giro di bruttissime, anche qui da noi – tanto che diciamo: Com’è possibile
pregare davanti a questa immagine? Eppure, per le persone è la loro Madonna, la
Madonna dell’infanzia, legata a dei ricordi…
Qui
entriamo in un altro mondo, in un altro orizzonte di comprensione, che pone me,
che dico che quella Madonna è brutta, in minoranza, perché mi manca la chiave
interpretativa per entrare in quella dimensione di bellezza presente sul volto
di quella Madonna (ho presente, in questo momento, qualche statua un po’ di
impianto romanico, presente anche sul territorio della nostra Diocesi). Ma torno
al discorso principale.
Abbiamo
una struttura, una linearità architettonica ed una presenza, al massimo, di
crocifissi; ovviamente non quelli del Settecento, dell’Ottocento, molto
sofferenti, ma perlopiù regali. Dobbiamo aspettare il Rinascimento, con tutto
quel fervore di voglia di rappresentare la vita - e, dunque, anche la vita di
fede -, per entrare in quel mondo più vicino al nostro, che è quello
dell’immagine (intendo l’immagine sacra).
Quindi
i nostri progenitori sono quelli del “non farai nessuna immagine!”. Ricordate
che ci sono state anche epoche dove sono andati al macero centinaia di statue e
di immagini, perché di tanto in tanto questo virus, che è nel nostro sangue,
che circola, ha portato ad una demonizzazione dell’immagine e, quindi, anche
dell’immagine sacra.
Nel
Rinascimento, con i Papi mecenati, con questo tentativo – non riuscito,
ovviamente – di imbrigliare l’arte, che era esclusiva, abbiamo un nuovo
rapporto, all’interno del discorso della fede, con l’immagine che diventa un
elemento non decorativo, ma direi importante - non essenziale - nell’ambito
liturgico. Quando dico “dell’ambito liturgico” parlo delle chiese; ma poi, per
l’arte popolare, parlo anche delle scarabattole, di cui parlava il professore poc’anzi, di quelle campane che
abbiamo visto nelle case delle nostre nonne, fino a poco tempo fa, e che adesso
sono diventati oggetti super ricercati ma, per tanto tempo, sono rimasti in
soffitta a giacere. Quindi ci troviamo già in un momento dove l’immagine
diventa importante. Ovviamente la nostra sensibilità, molto legata all’immagine
a partire dalle tavole del Quattrocento per arrivare a tutta la scuola caravaggesca, fino ai ripetitori di paese, ci fa accostare
a queste opere dicendo che sono un racconto della fede, tanto che si diceva che
queste opere erano il vangelo delle persone che non sapevano leggere, il
vangelo dei semplici. Pensate anche a certe raffigurazioni, in certe cattedrali
famosissime, dove dalla Creazione al Nuovo Testamento, c’è la “Bibbia a
fumetti”, diremmo noi oggi, con un’immagine un po’ sbarazzina sul piano
artistico.
Quindi
l’uomo ha bisogno di immaginare e, per immaginare, ha bisogno di immagini.
Questo è vero anche per la fede.
Lo
dico oggi, perché noi veniamo da una nuova rivoluzione iconoclasta, perché
nell’immediato post Concilio tante statue sono state abbattute, come se fossero
degli idoli, come se fossero delle cose estranee alla fede. La ricerca della
fede autentica ha impoverito, a mio parere, la fede, perché i princìpi erano ottimi, ma sono stati applicati in una
maniera pedante e restrittiva, al punto che anche noi – voi non ve ne siete
accorti – siamo reduci da un momento iconoclasta. Magari, adesso, vi sembrerà
eccessivo, ma utilizzo sempre delle tinte forti per spiegarmi, per essere
chiaro.
Negli
anni ’70-’80, c’è stato un vero movimento nelle nostre chiese, nelle nostre
parrocchie – ma, in una maniera più ampia, nella cattolicità - rispetto a una
demonizzazione dell’immagine.
Perché
non va demonizzata? Per un principio antropologico: perché l’uomo ha bisogno di
rappresentazioni, cioè l’uomo ha bisogno di immagini, di oggetti, di specchi,
di indici puntati… Tutta la raffigurazione di quadri
e di sculture è un aiuto alla fede, al punto che certe chiese moderne (per
“moderno” intendo non dell’epoca moderna, ma contemporanee), per quanto opere
d’arte esse stesse - mi riferisco a quelle grandi: per esempio, al Giovanni Battista a Firenze -
da un punto di vista di immagini, sono di una povertà e di una nudità dove il
cemento armato sembra esprimere il meglio del nostro tempo. All’atto in cui è
stato pensato - qui ci sono degli esperti e non voglio entrare nella
professione di altri - questo “armato” era un segno di perennità; poi abbiamo
scoperto che c’è un cancro anche per il cemento armato. Quindi quelle vele, di cui
c’è stata un’edizione a non finire sul piano architettonico delle chiese
moderne (mi riferisco a quelle di un certo prestigio), rischiano di durare
molto meno delle chiese romaniche o delle chiese gotiche che hanno sulle spalle
secoli e secoli.
Quindi,
riassumendo, per chi si fosse perso, se sono stato un po’ confusionario.
Veniamo
dal “no all’immagine” del mondo ebraico, vissuto anche nei primi secoli della
Chiesa; poi dalla grande fioritura nel Rinascimento (’600-’700-’800). Il ’900,
che è il nostro secolo (non di questi giovani artisti, che appartengono tutti
al 2000, e quindi al nuovo secolo, al nuovo millennio), è un momento di
incertezza rispetto al rapporto fede-immagine che, invece, dev’essere
ripreso.
Parto
da una mia constatazione. Io ho dei rapporti con la Val Gardena; le statue di
San Casto e San Paride, come quelle che avete visto in Cattedrale, vengono da
Ortisei. C’è tutta una scuola (al Nord, Ortisei e il Trentino in genere; al
Sud, per la cartapesta, Lecce), e queste ditte, questi artisti lamentano un
calo vertiginoso delle committenze, per cui si stanno dirigendo su altri
soggetti. Una volta, anche in tempi dove economicamente si stava peggio,
avevano una serie di relazioni con sacerdoti di tutta Italia o anche della
Germania (loro servono anche il mondo “austro-ungarico”, come si sarebbe detto
una volta); oggi, per sopravvivere, devono dirigere la loro attenzione verso
altri soggetti.
La
mia preoccupazione non è che soggetti faranno - mi conoscete troppo bene per
sapere che non mi preoccupo più di tanto - ma è la preoccupazione del Pastore
che dice: Come mai non si commissionano più statue?
Probabilmente
la maniera iconoclasta - e non parlo dei problemi economici - è un problema di
fede, nel senso che le persone (produzione popolare), o anche le comunità, non
sentono più il bisogno di riproporre la loro fede attraverso immagini. D’altra
parte, potrei chiedervi che calo di immagini sacre ci sia stato nelle vostre
case, oltre che nelle nostre chiese, perché poi le cose vanno di pari passo:
questi segni perdono di significato nei luoghi di culto, ma perdono di valore,
di incidenza, anche nelle nostre case.
Vi
dico questo per farvi sorridere e chiudo questo momento. Da seminarista, a
Ciorani, che è la culla dei Padri Redentoristi, dove il buon Sant’Alfonso aveva
tirato su tante cose, ricordo d’essere rimasto scandalizzato da un poster di
Raffaella Carrà nella stanza del priore. Mi conoscete bene per dire che il
Vescovo non è un fustigatore, né tantomeno lo era all’epoca, appena
post-adolescente. Interrogato questo buon priore della comunità di Ciorani: “Ma
che ci fa Raffaella Carrà qui?”. Risposta: “È una Madonna!”.
***
II parte
Il rapporto tra
liturgia maggiore e liturgia minore
Dicasi
“liturgia maggiore” quella ufficiale della Chiesa (col messale, ecc.). Dicasi
“liturgia minore” le forme di fede con forti accentuazioni di religiosità -
sono due cose diverse - portate avanti dal popolo.
Anche
qui – e per questo ho voluto far precedere questa riflessione dal discorso
delle immagini – noi abbiamo avuto un diverso sentire. Vediamo delle curve,
delle anse, in questo rapporto, perché è facile, sul piano pastorale,
demonizzare queste forme: processioni, novene… Per
esempio, la pianista si è seduta e un ammiratore, presumo il padre - il nonno?
meglio! -, ha portato un fiore. Ecco, quel gesto potrebbe rientrare nei gesti
d’affetto che, nei confronti anche della raffigurazione di un santo o della
Madonna, si pone da parte di una persona.
La
demonizzazione, ancora oggi in atto, è pericolosissima perché, da un lato, crea
una intellighenzia chiusa
– adesso “mi zappo sui piedi” – da parte dei detentori ufficiali della fede e
dell’espressione esterna della fede - la liturgia - che sono i presbiteri, i parroci,
i vescovi, il Papa, che intravedono in queste forme dei pericoli, che ci sono,
ci sono! La religiosità, spesso, frana nella magia; la religiosità, se non
imbrigliata, può indulgere ad aspetti esterni o lontanissimi o opposti alla
fede. Ma questa paura ci fa tenere troppo il piede sul freno, al punto che le
masse si allontanano, avendo una loro liturgia né maggiore, né minore, ma del
tutto aliena, autonoma (ovviamente questo discorso dovrei farlo ai preti, ma
questa sera mi trovo a farlo a voi, perché siamo nel tema che ci è stato
affidato).
Questo
discorso porta, se esasperato, se accentuato, ad uno slegamento, ad una perdita
di un’isola importante della comunità ecclesiale: il popolo, i semplici, gli
umili, quelli che non avendo tanti ghirigori teologici per la testa, hanno
bisogno di risolvere alcuni problemi fondamentali che interferiscono con i temi
della fede; per esempio la vita, la morte, la malattia, l’amore, il lavoro, il
bisogno d’essere rassicurati… Noi oggi ne abbiamo
bisogno estremamente. Già lo dicevo al concerto in Cattedrale, alla fine delle
festività: questo mese di gennaio è difficilissimo già in sé; ma che sarà a
febbraio, a marzo? Quindi la gente ancora di più avrà bisogno di toccare; io
stesso sento una sorta di istintiva avversione rispetto a questo gesto: adesso
sto toccando l’amplificatore, ma immaginate qui la statua con i fiori, le candele… Il gesto di toccare è un gesto di religiosità
popolare: cosa significa? Significa la stessa cosa che abbiamo appena visto,
del nonno che ha appoggiato i fiori lì, cioè un nonno ha inteso incoraggiare
una nipote che stava per mettersi alla tastiera, portandole dei fiori e dandole
un bacio. Facendo così, che è un gesto che appartiene alla religiosità
popolare, si vuol mandare un bacio accorciando la distanza tra sé e un presente
difficile e la divinità, in questo momento simbolizzata dalla statua. Come
vedete, un gesto oggettivamente un po’ repellente per chi abbia superato certe
fasi, nasconde un’intensità di fede, a dire: Aiutami! Ci sono! Ricordati! Ricordati di me! Tutto questo ha un
armamentario variegato di forme, di colori, di vivacità che noi neanche
immaginiamo. In questo momento, in America Latina - non oggi, ma cito quella
regione del mondo e della vita della Chiesa perché lì c’è una sovrapproduzione:
masse popolari che vivono una religiosità fortissima facendo pellegrinaggi,
andando a piedi per chilometri e chilometri, in ginocchio, con mantelli, con
colori, con danze - in quella regione, più intelligentemente che da noi, i
Pastori, vescovi e preti (non tutti, ma quelli più intelligenti), hanno
compreso che bisognava - e questa è una formula pastorale - evangelizzare la
religiosità popolare: è inutile che tu l’annulli, l’azzeri, perché avrà una sua
vita autonoma; è più opportuno, invece, che tu ti inserisca, ovviamente dando
delle motivazioni, offrendo degli ulteriori significati, che immediatamente le
persone non percepiscono.
Faccio
un esempio che mi è venuto in mente mentre parlava il professore: Sant’Antonio
Abate, il “santo del porcellino” – dice la gente – ma non c’entra niente, né
con la protezione animali, né con i maiali o con i problemi di quei contadini
che ancora avessero a loro ausilio degli animali domestici. Sant’Antonio Abate
è la cristianizzazione - non tanto Sant’Antonio, ma questi segni - di una
statua pagana, che aveva il suo seguito simbolico di atteggiamenti viziosi (per
esempio, la dea dell’amore aveva un seguito di animali, ma questi animali
avevano tutti valore simbolico); per cui, dietro quegli animali c’è una simbologia
di vizi. C’era la statua di Venere o della dea della fertilità col suo seguito
e, ovviamente, questa statua, intelligentemente, non poteva essere demolita.
Molte statue di dee sono diventate statue di madonne e questo è un impianto
intelligente: non demoliamo la statua, che per tanti secoli ha significato
delle cose per delle persone – e questo si chiama “inculturazione”, per chi
vada in terra di missione –, ma assumiamola e diamogli un'altra valenza. La
stessa immagine della Madonna dei Lattani, protettrice della nostra Diocesi, è
chiaramente – e spero che nessuno di voi si scandalizzi in questa sede –
l’impianto di una dea pagana: le si legge in faccia da migliaia di chilometri!
Una Madonna così dov’è? È una dea-madre ribattezzata. Quindi, probabilmente,
anche nell’immagine della Madonna dei Lattani è avvenuta un’opera di
inculturazione, cioè di assunzione e di riedizione di un’immagine, che
fondamentalmente è rimasta la stessa, ma la dea-madre è diventata Madonna dei
Lattani. Forse la dea della fecondità e la dea che faceva produrre latte alle
donne che non potevano allattare i figli è diventata la Madonna protettrice
della nostra Diocesi. Spero, dicendo questo, di non aver offeso la fede di
nessuno, ma ve la indico come un’opera di trasformazione.
Allora
questo è il compito della fede nei confronti della religiosità: entrare nella
religiosità e assumerla, capirla innanzi tutto. Perché le persone toccano?
Toccano perché vogliono essere rassicurate, toccano perché sono in difficoltà,
toccano perché vogliono superare la paura della morte, la paura della malattia,
la paura del contagio. Quindi capire e dirigere. È chiaro che questa direzione
non porterà mai la liturgia minore dentro la liturgia maggiore a tutti gli
effetti, cioè è come se dovessimo vivere la liturgia maggiore sentendo che
questa grazia va sfaldandosi in tanti rigagnoli quotidiani, dove ciascuno di
voi, nella sua casa, davanti ad un’immagine, accende un lumino, oppure il
figlio è andato a fare l’esame e allora si accende la candela…
Qualcuno sorriderà di questo gesto, ma è un gesto di grande significato:
significa che questa persona crede e ritiene che il figlio possa ricevere
serenità all’atto in cui va a compiere questa prova, che è una prova
universitaria, ma che è una prova di vita.
Concludo
dicendo che sono appassionato di queste cose perché, nella mia esperienza
parrocchiale, ho svolto un’opera che vi racconto brevemente.
Ero
nella mia parrocchia, a Piano di Sorrento, dove, come in tante parrocchie della
penisola sorrentina, la Settimana Santa è un tour de force per chi abbia
responsabilità, perché c’è la liturgia maggiore - e quella non si tocca: il
Triduo Pasquale che facciamo qui, a Roma, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre
al Reno - e la liturgia minore: una processione il Giovedì Santo, una
processione nella notte tra il giovedì e il venerdì, una processione il venerdì
sera. Voi direte: “Poco male!”. Sì, poco male se però non si aggiunga che tutte
queste processioni chiamavano migliaia di persone, dentro e fuori, impegnate a
cantare, a lucidare… Per cui, dal Mercoledì delle
Ceneri al Venerdì Santo sera, non si trova pace.
Cosa
avrebbe dovuto fare un parroco lì? Queste
sono cose pagane: vedetevela voi! - cosa che in alcune parti è stata anche
fatta. Ovviamente quelli escono lo stesso: portano i loro simboli, fanno i loro
inni… Ma la fede va da tutt’altra parte e –
ovviamente sto parlando a un parroco che non c’è qui – non ti illudere che le
persone vengano alla tua liturgia maggiore.
C’era
un’unica possibilità: entrare in queste forme, tra l’altro bellissime (qualche
volta che avete un Triduo Pasquale libero andate e non troverete pace, né di
giorno, né di notte, e andate solo a piedi perché incrocerete 500 processioni),
e depositare dentro a queste forme – dico questo con un po’ di presunzione, ma
non parlo di me – le uova del Vangelo.
Lo
sapete che queste uova sono schiuse? Sono schiuse!
Sono
schiuse al punto che un anno ho portato cinquecento uomini – e dico cinquecento
– per un’intera Quaresima (uomini maschi: che è dire tutto!) a cantare il
Miserere a quattro voci, a fare le prove… Ma prima di
ogni prova, o durante ogni prova, si sorbivano la spiegazione di quello che
cantavano: il Miserere, il Salmo 50, il peccato, la redenzione... Alla fine,
collegando: Il Giovedì Santo, dalla Messa
in Coena Domini, parte la processione…
La notte la Madonna cerca Gesù e non lo trova…
Insomma una serie di argomentazioni. Adesso lo dico sorridendo, ma è stata una
bella azione modulare tra religiosità e fede, tanto che anche la forma
religiosa, pur con le sue sbavature - è chiaro: non può essere perfetta,
altrimenti sarebbe liturgia maggiore - è diventata occasione di fede.
Allora,
guai ad escludere e ritenere antitetiche queste due liturgie!, perché il nonno
che ha portato il fiore e che ha lanciato il bacio, dal vivo, senza che noi ci
fossimo messi d’accordo, ha messo in scena un gesto di affetto, di
incoraggiamento, di “andrà bene: vedrai che non ti tremeranno le dita…”, che non può non essere riconosciuto nella sua
valenza umana, quindi antropologica, ma anche affettivo-spirituale,
perché, cari miei, se facciamo solo liturgia maggiore, finiremo con l’essere
dei monaci. Ma i monaci non sono la Chiesa.
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.