Giornata per la vita
“Educare alla pienezza della vita”
Teano, 6 febbraio 2011
Salone dell’Episcopio
Intervento
di
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
~
Ringraziamo
il professore[1] per questa dottissima
relazione.
Innanzi
tutto, Isaia 21 – ma lui non lo sapeva – è il motto del Vescovo di Teano-Calvi
e quindi – dico a mo’ di scherzo – non
parlare della fune in casa dell’impiccato…
Ho
cercato, mentre lo ascoltavo, di tentare un accostamento che fosse modulare a
quello che in una maniera molto dotta ci ha detto e – direi così – anche in una
maniera molto sintetica. Se bisogna chiedere alla sentinella quanto resta della
notte e la sentinella non risponde, ma dice: “Continuate a chiedere”, questo –
ci ha detto il professore – significa speranza. Ma quelli che fanno le domande
sono i bambini.
I
bambini sono gli esperti delle domande.
Purtroppo
– e spero di non offendere voi qui presenti, che invece vi ponete tante domande
– gli adulti tendono a non utilizzare molto il punto interrogativo, ma
eccessivamente quello esclamativo o la punteggiatura ferma.
Il
professore ha detto, all’inizio della relazione, che l’amore agapico è
germinativo: questo è vero, ma al tempo stesso (ovviamente mentre uno ascolta,
segue anche i suoi pensieri), guardavo la società, senza ombra di giudizio,
beninteso. La nostra famiglia, la nostra società civile, la nostra cultura
stanno producendo qualcosa? Perché anch’io debbo generare; anche Don
Pasqualino, anche Don Geppino, che sono presbiteri, debbono generare. Voglio
dire che tutti dobbiamo generare: non solo voi che siete sposati, ma anche voi
che siete sposati e che forse avete superato la soglia di una germinazione
fisica di figli, non dovete smettere di generare.
Perché
questa ulteriore problematizzazione? Perché la realtà che abbiamo davanti è una
realtà fondamentalmente conservativa ed è terribile questo termine (io spero,
ovviamente, di sbagliarmi). “Conservativa” significa che la classe politica (il
Vescovo non fa mai riferimenti, ma adesso ovviamente è immediato l’aggancio),
non riesce ad avere figli, a qualsiasi livello: dalle amministrazioni
provinciali, regionali, comunali, a livello nazionale (ma quello che vediamo in grande è il frutto
delle nostre scelte nel piccolo). Fondamentalmente è questo il problema.
Il
professore parlava dell’artigiano. L’artigiano teneva a bottega un ragazzo e
gli trasmetteva l’arte; così, per secoli, certi mestieri sono andati avanti, da
padre in figlio o in una paternità ampia, che non era fisiologica, perché il
ragazzo non era il figlio ma in qualche maniera diventava il figlio di colui
che lo teneva a bottega, e così sono nati gli artisti o semplicemente altri
artigiani.
La
nostra classe politica ha figli?
La
risposta che mi viene subito è che i primi ad avere ucciso i figli sono loro:
non ne hanno (sorrido, ma amaramente), non ne hanno perché non ne vogliono
avere, nel senso più deleterio del termine. E questo – attenti – non è un
giudizio su di loro, ma su di noi, perché i figli ci impauriscono. E perché ci
impauriscono? C’è la paura dell’altro, la paura dell’altro diverso da me,
perché l’altro, diventato grande, mi può detronizzare.
Carissimi
qui riuniti nella Giornata per la Vita, la vita va oltre se stessa, a prescindere
da ogni riflessione d’ordine morale, molto in alto: la vita vuole vivere e la
vita vuole vivere generando. Quindi i figli, in qualsiasi termine li assumiamo –
anche i miei figli, i figli di Don Pasqualino, i figli della comunità, i figli
dell’ingegnere, i figli del politico, i figli dell’artigiano – costituiscono il
ponte verso un tempo che noi non vivremo, uno spazio che non abiteremo, come
una sorta – dice Gibran, poeta libanese che altre volte abbiamo citato – di
freccia che lanciamo verso il futuro.
Ebbene,
se questo è il futuro, la freccia rischia di caderci in testa, perché noi non
stiamo generando. Quello che dico – perché è più chiaro – di un mondo politico,
di una classe politica che pensa solo a difendersi, potrei dirlo anche della
Chiesa. Attenti, faccio anche un’autocritica: una sorta di gerontocrazia ce
l’abbiamo anche noi, dove il giovane – qui non ce ne sono, ne intravedo solo
qualcuno là in fondo – dice: “Questo non è il mio ambiente, non riesco a
respirare!”, perché l’adulto tiene i segreti per sé, si mangia il capitale,
fosse anche il capitale del DNA, se non quello economico, se non quello
culturale, cioè godiamoci la vita come se il mondo dovesse finire adesso.
Mi
ha fatto piacere il riferimento anche all’ambiente, perché se ci saranno dei
figli, questi figli avranno un orizzonte. E se ci sarà un orizzonte per i miei
figli, vorrei che fosse un bell’orizzonte, per cui anche la raccolta
differenziata entra in una dimensione di vita, stavolta nei termini della
qualità della vita. Se io pianto un albero, è un canto alla vita, perché pianto
un albero di cui probabilmente non mangerò i frutti, perché i frutti li
raccoglierà mio figlio. Una volta, in questa sede, vi ho parlato del carrubo
che impiega, pare, quarant’anni per far frutti: io pianto un carrubo e tra
quarant’anni qualcuno mangerà… Adesso nessuno più mangia di questi buoni
frutti, è diventato un albero ornamentale (sono le sciuscelle, per intenderci: diamo anche una traduzione più popolare…).
L’albero di sciuscelle, che ha
bisogno di un arco di quarant’anni per produrre il frutto (è anche bello il
carrubo: ce n’è uno nel giardino dell’Episcopio, piuttosto giovane), significa:
io produco un gesto per un ambiente che non abiterò, ma di cui usufruirà un
altro. Questa è cultura della vita.
Allora,
ciascuno di voi si chieda:
1)
Io ho dei figli? e, rispetto a questi figli – molti di voi sono genitori,
conosco diversi di voi – come mi pongo? mi pongo nella dimensione difensiva o
nella dimensione di accompagnare questi figli nella vita?
2)
Bastano i figli che ho generato?
Magari
bastano, ma ci sono altri figli che vogliono nascere. Anche un’idea è un
figlio, anche un albero è un figlio, anche un fiore è un figlio, anche un
mobile è un figlio, anche una lampada, un microfono… Senza banalizzare, ma per
dire – oltre la fecondità che fino ad oggi la mia vita ha generato nei termini
di cultura, di fantasia, di poesia, di ambiente – quanto altro io posso fare per
non entrare anch’io – perché questo pericolo lo viviamo tutti, oggi – in questa
logica egoistica: il mondo finisce con me, conviene che mi mangio il capitale.
Invece questo capitale va investito.
Attenti
a nascondere – immagine classica – sotto la mattonella o nel materasso, il
capitale, perché il capitale va messo in circolazione, ovviamente con tutti i
rischi che questo comporta, perché tu generi un figlio col capitale e il figlio
ti uccide (Quoque tu, Brute, fili mihi!); tu metti questa forza,
questa idea, questo progetto in circolo e ti rispondono “picche”, oppure non ti
torna l’interesse che avevi intenzione di suscitare. Però il fatto di impiegare
il capitale – leggi “vita”, leggi “tempo”, leggi “cultura”, leggi “fede”, leggi
“società”, leggi “tutto” – per l’altro, credo che sia una legge fondamentale di
vita, perché le idee – che pure sono figli e figlie – se io le rimugino tra me
e me, mi fanno male, creano un’acidità allo stomaco; se invece si comunicano,
come stiamo tentando di fare adesso – magari voi vi sentite aggrediti dalle
idee del Vescovo, mentre in una maniera più dolce il professore vi ha cullati
con un pensiero più distillato (io sono un po’ più terra-terra) – se queste
idee vengono dette, allora creano altre idee, i figli generano i figli, fino
alla terza e alla quarta generazione.
Chiudo
con un’espressione bellissima sui figli che è nel Salmo 126. Normalmente è il
Salmo 127 quello che riguarda la famiglia:
La tua sposa come vita feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Invece
scendete di un salmo, ammesso che abbiate in testa il salterio, e arrivate al
Salmo 126 dove il salmista dice:
Ecco, dono di Dio sono i figli,
è Sua grazia il frutto del grembo.
Come frecce in mano all’eroe
sono i figli della giovinezza.
Beato l’uomo che piena ne ha la faretra:
non resterà confuso quando verrà alla
porta
a trattare con i propri nemici.
Quindi
i figli sono dono di Dio, d’accordo, però – dice anche il salmista – dipendono
da te, perché sapete bene che Dio vuole i figli, ma se non li voglio io, non
nascono. Allora sono, nell’immagine del salmista, ovviamente in tempi dove
bisognava difendersi, “frecce nella faretra”, in modo tale che io possa
prenderne. È piena la tua faretra? Quanti figli hai sulle spalle?
I
figli stanno sulle spalle come la faretra da cui prendiamo le frecce: questi
figli ci difenderanno. Alla fine – chiudo con questa immagine, se è vera com’è
vera l’espressione del Salmo 126 – si salveranno solo le famiglie numerose,
anche la mia: io ho 84000 figli (ma molti non mi riconoscono neanche come
padre, non sanno neanche che esisto).
Si
salveranno le famiglie numerose: tu quanti figli hai avuto? Non è importante se
hai fatto bene, se hai fatto male, se hai sbagliato (dieci sbagli, cinquanta
sbagli, tremila sbagli…): arriveremo tutti malconci, alla fine della gara, ma
ci salveranno i figli, cioè ci difenderanno. Due, dieci, cento, mille figli
verranno a dire: “Ma questo è mio padre! Non lo condannare!”.
Io
vi auguro che nella vostra vita, ma anche nella vostra professione, abbiate dei
figli, cioè persone nate da voi, nate dalla vostra voglia di vita, di
socialità, di intraprendenza, di produttività, nel senso più alto del termine,
e che domani verranno a difendervi davanti a Dio.
Da
solo non mi salverò: mi salveranno i miei figli.
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.