In punta di piedi in Episcopio

Riflessioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Con le ali ai piedi”

 

Teano, 10 maggio 2011

 

Salone dell’Episcopio

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Soprano: Margherita De Angelis

Pianoforte: Francesco Di Gennaro

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Questa serata è nata dal piacere, che ho condiviso con voi, nell’ascoltare Margherita, in Cattedrale, nell’edizione spirituale di Traviata; quindi, in qualche maniera, questo invito nasce da una sorta di ammirazione per la sua voce, per il modo in cui è riuscita a tradurci Traviata. L’incontro di stasera è più raccolto, con note e parole, in questo salone che in passato era serioso e che forse era il luogo delle grandi decisioni o anche dei grandi pianti, delle grandi ingiustizie, perché poi le cose che si decidono per gli altri hanno sempre un doppio esito. Qui, dove forse nell’Ottocento, nel Novecento, si vivevano altre esperienze, da circa quattro anni noi viviamo un’esperienza “contemplativa”.

Nel nome del Padre…

 

J. Bizet – Pastoral

G. Faurè – Après un reve

 

Il titolo della nostra serata è “Con le ali ai piedi” e il riferimento visivo - utilizziamo sempre diversi linguaggi, quello visivo, quello parlato e quello sonoro - è questo quadro dei due apostoli, Pietro e Giovanni, di un autore francese: “Il mattino di Pasqua”.

 

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1 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». 3 Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5 Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7 e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9 Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. (Gv 20, 1-9)

 

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“Con le ali ai piedi” è uno dei modi per entrare nel mistero della Pasqua. Andando avanti negli anni, ci si rende conto di quanto sia difficile vivere la Pasqua - io spero che sia anche la vostra constatazione - e più passano gli anni, più in qualche maniera si entra nell’esperienza spirituale, più ci si rende conto di quanto sia facile il Venerdì Santo e quanto sia difficile la Domenica di Pasqua e il Tempo Pasquale. Da che cosa nasce questa difficoltà? Nasce dalla percezione di un mistero per il quale non troviamo parole. Si possono descrivere esperienze vissute, e voi direte: “Ma la fantascienza, l’arte del romanzo sono il racconto di cose fantasiose…”. Ma ci sono aspetti del mistero cristiano davanti ai quali e per i quali muoiono i nostri vocabolari pittorici, espressivi, in altri ambiti dell’arte o semplicemente discorsivi. Come si fa a spiegare la Pasqua? Lo notate anche - credo di avervelo fatto notare nei giorni di Pasqua - dalla difficoltà a trovare una bella rappresentazione pittorica della Pasqua: dov’è? vi viene in mente un bel quadro di Gesù Risorto? A me fanno sempre un po’ ridere questi “folletti”, che a volte troviamo con le bandiere, sui nostri altari: cosa dicono? cosa esprimono? Uno che vola con una bandiera. Sì, è un simbolo, ma fate difficoltà a cogliere la Pasqua in sé. È possibile coglierla sul volto di coloro che ce l’hanno raccontata, come in questo momento sul volto di Pietro e Giovanni che vanno al sepolcro, sul volto della Maddalena, sul volto dei discepoli di Emmaus: noi vediamo la Pasqua solo di riverbero, proprio perché è un’esperienza oltre i nostri canoni, un’esperienza che fa esplodere ciò che già sappiamo. Per questo motivo la Pasqua trova grande difficoltà ad entrare; sono duemila anni, ma noi ancora balbettiamo quando tentiamo di spiegarla. Il tentativo di stasera è già perdente – io lo sapevo in partenza – ma ho voluto vivere con voi questa sconfitta, che tra l’altro è bella, perché dice di una realtà “oltre”, oltre le nostre categorie. Ho voluto perdere con voi questa partita, già in partenza, cercando però di farvi innamorare di questo che è il cuore della nostra fede, perché senza Pasqua siamo equiparati a qualsiasi altra tradizione religiosa (senza avere sentimenti che non siano di rispetto per qualsiasi tradizione religiosa diversa dalla nostra). Ciò che ci contraddistingue, ciò che ci rende cristiani è proprio la Pasqua, la Resurrezione. San Paolo l’ha detto in una maniera molto concisa: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”. Allora cominciamo così, stasera: da un lato, ascoltando Margherita, con le sue tonalità vocali, col suo modo di raccontarci le vicende che il programma, da lei stessa scelto, contiene; dall’altro lato, ci chiediamo cosa sia rimasto della Pasqua 2011 dopo tre settimane. Parlo della Pasqua celebrata, della celebrazione liturgica. Se ci fate caso, di aria pasquale in giro ce n’è poca; invece è tornato il lamento, è tornato l’elenco delle disgrazie, è tornata la croce, a dire che siamo tutti condannati.

Chiediamo, questa sera, di avere le ali ai piedi per tentare - ovviamente per intuizione, non c’è altra via - d’entrare più dentro a questo mistero: è un mistero che si deve aprire e che si apre, non automaticamente, andando avanti negli anni, forse anche - e spero non vi dolga questa sottolineatura - avvicinandoci alla data della morte che non conosciamo, ma che vediamo in qualche maniera avanzare con l’avanzata dei nostri compleanni, dei nostri lustri, che da un lato ci fa perdenti, ma dall’altro forse ci fa più candidati a capire che non può finire così.

 

G. Verdi – Aida – Ritorna vincitor

 

Vorrei invitarvi a guardare questo quadro di Pietro e Giovanni sbilanciati. La bellezza di questo quadro è nel movimento che il pittore è riuscito a trasmettere. C’è un moto nel vento, forte, a giudicare dalle vesti, dai capelli scompigliati, perché stanno correndo. Sono sbilanciati perché c’è Pietro un po’ più dietro, affannato, appesantito dai suoi rinnegamenti e Giovanni che è preso. Guardateli questi due volti: esprimono dei sentimenti che sono i sentimenti della Pasqua. Gli occhi di Simon Pietro dicono stupore, quasi incredulità: È possibile che quello che ha raccontato questa donna, Maria di Magdala (il Vangelo della Pasqua è al femminile), possa essere vero? e se è vero, cosa dirà il Maestro che ho rinnegato?

Pietro rappresenta una stagione della vita, che è la stagione in cui siamo appesantiti, andando avanti negli anni. Non mi riferisco al peso (spero che non sia questa la vostra preoccupazione), ma piuttosto ai tormenti - dirò di più - ai rimorsi. È giusto che i rimorsi ci appesantiscano? non ci permettano di volare, d’esser leggeri? Sta di fatto che Pietro, con le rughe e anche per il colore che il pittore ha scelto per le vesti, esprime un che di cupo, mentre Giovanni, con quella verginità, con quella leggerezza, anche se con un volto sofferente, è semplicemente preso dall’ansia di voler tagliare i tempi. Queste due stagioni, per non scoraggiare nessuno, sono due dimensioni co-presenti in ciascuno di noi: in te, in me, c’è Simon Pietro che ha l’affanno rispetto ai misteri della fede, alla gioia della Pasqua, e c’è un Giovanni, che è come una rondine che salta, che vola con quella leggerezza che noi stiamo ammirando nelle rondini che sono tornate. Da un lato ci chiediamo chi dei due ha la meglio in noi: Pietro?, con questa sorta di bagaglio dei giorni, bagaglio dei rimorsi, valigie di errori…, o Giovanni, dimentico di qualsiasi peso, reso leggero, con le ali ai piedi? Dice il testo del Vangelo di Giovanni che correvano insieme, tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e  giunse per primo al sepolcro. C’è una parte di noi che giunge prima e una parte di noi che tarda ad arrivare. Lo vedete anche nelle vostre famiglie: ci sono quelli che arrivano prima e quelli che arrivano con ritardo, non solo a pranzo, ma anche nella percezione della famiglia, nella percezione della vita. Non siamo uguali, ciascuno ha i suoi tempi e Gesù rispetta il tempo di Giovanni (gode della sua velocità), ma anche il tempo aggravato di Simone; accetta, questa sera, quelli fra noi che hanno il profilo di gabbiano, di rondine (rondine e gabbiano sono i due uccelli che dicono delle mie due vite e anche di due luoghi), ma accoglie anche questo uccello un po’ appesantito, sgraziato. Ci sono degli uccelli sgraziati, che volano senza l’eleganza del gabbiano, la leggerezza della rondine: si alzano da terra con difficoltà, sono appesantiti, non vivono la leggerezza dentro, benché con le ossa pneumatiche (come ci insegnavano alle elementari per dirci come gli uccelli volano). Tra l’altro “pneumatico” viene da “pneuma”, cioè dallo spirito, dal soffio; queste ossa diventano una sorta di galleggiante, di forza propulsiva. Pietro e Giovanni sono questo, e io sono Pietro e io sono Giovanni. Speriamo che il Giovanni in noi spinga anche Pietro a correre più veloce.

Se volete, Pietro è l’incredulo e Giovanni è il credente.

 

G. Verdi – La forza del destino – Pace, pace mio Dio

 

Vorrei partire dal tema della forza del destino, che è anche un tema musicale e che sembra dirigere le cose nel melodramma romantico: “fatalità”, si diceva qui, come in “Notre Dame de Paris” di Cocciante (probabilmente i musicisti hanno un’attenzione anche a quello che si produce oggi). Il tema d’essere sotto una determinazione che ci sfugge, che non dipende da noi, attraversa non solo la forza del destino, ma tante percezioni di vita: cerchiamo di capire come questa percezione venga fugata dalla Pasqua. Quando entra nell’ordito musicale proprio il tema conduttore, la forza del destino, sta per succedere qualcosa che va al di là della decisione, della libertà dei protagonisti, delle coincidenze, che è come se fossero stabilite altrove, da un’altra entità, normalmente percepita come negativa. Questo appartiene anche alla storia, alla percezione che avevano gli antichi. La Pasqua viene ad aprire uno sprazzo di luce nella percezione drammatica e anche tetra della vita, quasi che nonostante gli sforzi, nonostante il bene, ci siano “ali di pipistrello” che chiudono l’orizzonte e che mortificano ogni male. Pietro e Giovanni, che stiamo guardando correre al sepolcro e che sono espressioni di due modi, due stagioni della vita, ma anche due modi di percepire la vita, presenti in ognuno di noi, stanno andando verso un sepolcro vuoto. Anche qui, nel Vangelo della Pasqua, non c’è un racconto - lo abbiamo incontrato nei vangeli apocrifi - di angeli che scendono, di pietre che vengono rotolate via, di soldati che sono stati messi in guardia, ma giunti c’è un sepolcro vuoto: grande silenzio…

 

Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

 

“Avvolto”: in questo verbo c’è il sapore della Pasqua. Avvolto, piegato, piegato a parte. Riuscite a vederlo questo sudario avvolto? È stato avvolto con cura, come in un quadro, come in una stanza dove chi è partito ha avuto tutto il tempo di organizzare, di lasciare le tracce, di scrivere un messaggio sulla parete, di fare in modo che si trovasse il romanzo a pagina 175 e non 200, con una candela accesa… Questo sudario avvolto è la Pasqua, cioè un segno di un ordine, non di un trafugamento, non di una fuga, ma di chi ha avuto tutto il tempo di uscirsene dalla morte da vincitore.

Il sudario è avvolto; può essere piegato, può essere avvolto: l’importante è che è stato deposto come una traccia, come un velo da sposa, come un mantello, come un oggetto donato per compassione e che adesso è lasciato come un segno di resurrezione. Mi viene in mente la tradizione, ancora presente, per il Papa: prima di chiudere la bara si depone un velo sul suo volto (è il compito che ha il segretario). Ricordo anche un meraviglioso articolo di fondo per la morte di Giovanni Paolo II, dove l’articolista dice: “Santità, non le sia pesante quel velo”, per dire: ti sia leggero, non ti pesi… Perché? Ci sono mille spiegazioni: per alcuni è un gesto di venerazione nei confronti del Papa, ma forse anche - è una mia lettura - per evitargli la scena di vedere chiusa la porta. Ovviamente non succede - in realtà non vedremo nulla - però quel gesto di gentilezza di mettere un velo era il gesto di misericordia che si aveva nei confronti dei condannati, quando li si bendava prima dell’esecuzione capitale, perché all’atto in cui venivano impiccati, ghigliottinati o fucilati, l’incontro con la morte non avvenisse ad occhi aperti. Questo sudario è così: è stato posto sul corpo, sul capo del Crocifisso e adesso è avvolto. Guardatelo con me, almeno con gli occhi dell’immaginazione o, se volete, della fede, e lo vedrete così leggero, così dolce, così ordinato, così bello. Ecco, la Pasqua è questo sudario, che non serve più, ma che adesso è lasciato sulla sedia, in un punto preciso della stanza, come una sorta di reliquia, proprio perché la Pasqua è sugli oggetti, sulle persone, ma non è possibile vederla in volto a Gesù, almeno per oggi.

Noi stasera stiamo piegando questo sudario, anche con l’aiuto dei nostri artisti. Se volete, questo sudario è la percezione tragica che il melodramma ci trasmette, che la storia, che la percezione della vita proveniente da altrove, non bagnata nelle acque del Battesimo, nelle acque della Pasqua, ci consegna come “non c’è niente da fare”, come fatalità: la forza del destino. Pieghiamo questa forza del destino, così, dolcemente, a dire: Ve la lascio qui, in vista. Guardatela: non serve più.

 

G. Puccini – Manon Lescaut – Intermezzo

G. Puccini – M. Butterfly – Un bel dì vedremo

 

Le grandi cose sono precedute da una grande attesa, sembra dirci il testo che abbiamo appena ascoltato, anche se poi risulterà un’attesa che apre al dramma. Ma non così per noi. Certamente le attese del figlio, del marito, della moglie, dell’amante, contengono i drammi di cui la nostra vita è segnata, contrassegnata, ma la Pasqua porta con sé la certezza che Lui non ci deluderà, che Dio mantiene le Sue promesse.

Vorrei, in questo momento, dopo i brani di Puccini, guardare con voi le mani, perché sono indicative delle persone, ma anche delle statue e delle immagini nei quadri. Dobbiamo fare attenzione alle mani.

Guardiamo le mani di Pietro: la mano destra sembra, da un lato, mantenere il mantello, averlo gettato sulle spalle un attimo fa perché siamo ancora alle prime luci dell’alba e fa freddo, ma sembra anche una mano pronta a battersi il petto; l’altra, la sinistra, è la mano dell’incertezza, la mano dell’interrogativo – ma sarà vero? –, è la mano dell’incredulità. Quindi, da un lato c’è il gesto di chi dovrà prima o poi fare i conti con il Maestro rinnegato e, dall’altra, c’è una mano incerta che non sa dove porsi: un po’ indica e un po’ chiede. Quello che è importante, almeno nella mia lettura, è che queste due mani ancora non si tocchino. Invece, in contrapposizione, le mani di Giovanni sono nel gesto della preghiera, sono giunte, sono congiunte, ed è il gesto dell’unificazione. Quando si insegna il Segno della Croce - e spero lo faccia ancora, da qualche parte, qualche mamma - non bisogna mai omettere quella congiunzione delle mani all’Amen, che non fa parte proprio dell’aspetto teologico, come il nome delle persone, il segno della croce sul corpo, ma è una sorta di incontro di vita condensata, raccolta. Allora, la Pasqua incerta è la Pasqua dove le mani vanno ognuna per conto suo, sono le vite disgiunte - credo un po’ le vite di noi tutti, almeno in parte, speriamo - dove non si riesce a trovare il bandolo che unifichi tutto, e dall’altra, la vita che io ritengo essere la vita contemplativa, ma non riguarda solo i “tecnici della contemplazione” (anche Margherita ha una sorella in un Monastero di Clarisse), ma c’è un contemplativo anche nella persona di strada, nella persona più semplice ed è la possibilità di congiungere le mani, perché l’una trovi conforto e calore nell’altra e - chissà che questo gesto fatto sui morti non voglia significare anche questo - per trovare finalmente un punto di coesione. Allora c’è la Pasqua incerta, le mani che non riescono ancora a toccarsi, e le mani unite, congiunte, giunte, unificate, incrociate, che si danno forza l’un l’altra. Se ci pensate, quello che diciamo delle mani riguarda anche le persone: ci sono persone che stanno vicine ma non si incontrano, marito e moglie, genitori e figli, e poi c’è l’abbraccio delle mani giunte, che sono le persone abbracciate, non quelle che stanno l’una addosso all’altra, ma le persone che stanno bene insieme, che si toccano e si danno calore l’un l’altra. Anche questo è un frutto della Pasqua e il frutto della Pasqua è la comunità.

 

Louiguy – Piaf – La vie en rose

G. Gerswin – Porgy and Bess – Summertime

 

Gerswin, in Summertime, ha voluto rielaborare temi afroamericani, e quindi la nostra immaginazione, almeno la mia, forse anche la vostra, è andata alle donne di colore enormi, ma con una pastosità di voce, di colori, e oltre che della pelle anche della voce.

La Pasqua che abbiamo visto nel sudario, che abbiamo celebrato nella liberazione di un destino che incombe su di noi, verso il quale non abbiamo nessuna possibilità di intervento, perché le cose sono ben oltre le nostre teste, le nostre scelte, si coniuga con l’ottimismo.

Mi ha fatto piacere, due giorni fa, ascoltare una mia parola sulla bocca di Marco, uno dei seminaristi del primo anno; non ricordo neanche il contesto, ma ha detto: “Ci vuole l’ascesi della gioia”. Ed io subito, con le mie antenne, sono saltato, in senso bello, nel vedere che un concetto, che tu hai detto, torna nel linguaggio del figlio. Ho coniugato io stesso, credo, questo termine un po’ strano - “ascesi della gioia” - a proposito della Pasqua, dove quell’ottimismo di cui parlavo non è “andrà tutto bene, perché siamo fortunati”, ma è frutto di uno sforzo.

È possibile che la gioia si ottenga attraverso un’ascesi? Nel linguaggio e nell’esperienza comune no, perché la gioia è immediata, la gioia è quella del brindisi dell’inizio di Traviata. Invece no, la gioia, quella vera, ha bisogno d’essere elaborata, anche attraverso uno sforzo mentale e affettivo. Dirsi che nonostante tutto andiamo verso il meglio, è una frase, ma fare in modo che questa frase riformi la nostra vita richiede l’ascesi, uno sforzo. L’ascesi è lo sforzo quotidiano che facciamo contro i nostri difetti, contro gli aspetti del nostro carattere negativi. Noi dobbiamo sforzarci di vivere nella gioia della Pasqua, perché non è immediata, né scontata, e la verniciatura viene via dopo qualche giorno (già quella di questa Pasqua è andata via). Allora sposiamo questa ascesi, questo sforzo ad esser contenti nonostante tutto, a credere che, sia pure come un fiume carsico, la Pasqua sta avanzando lentamente ma decisamente. E Pasqua è vittoria.  

 

G. Di Giacomo – Era de maggio

D. Modugno – Tu sì ’na cosa grande

 

Un ultimo pensiero è proprio legato a questi due testi, a queste due canzoni d’amore. “Era de maggio” - e di maggio, gusterete le fragranze nel giardino dell’episcopio, anche stasera, scendendo - innanzi tutto ci riporta alla dimensione, sempre primaverile, dell’amore, presente nel Cantico dei Cantici, ma a me ha fatto venire in mente, mentre ascoltavo, un episodio della vita di San Francesco, molto dolce, legato all’amicizia spirituale, al legame con Santa Chiara. Francesco è molto restio ad andare a San Damiano, lesina le sue presenze, anche perché ha paura che Chiara gli legga nel cuore la tristezza che lo assale da tempo, perché i suoi frati non sono più quelli d’una volta, perché già ci sono delle divisioni, già si va lontano dalla Regola. In una di queste rare visite, mentre Francesco si congeda, con la durezza che gli è propria per non manifestare i sentimenti - e qui interviene “dillo, dillo ’na vota sola” della canzone successiva - Chiara, con la delicatezza delle donne, dice: “Padre, quando tornerai?”. Francesco risponde in una maniera molto dura: “Quando fioriranno le rose”. Siamo nel pieno gelo di gennaio e forse il povero giardino di San Damiano è anche coperto di neve; quindi ha risposto in una maniera dura, aggressiva, come a volte noi uomini sappiamo fare. Mentre Francesco fa pochi passi, quegli sterpi (null’altro che questo a gennaio) cominciano a fiorire. Ecco, l’amore fa fiorire le rose anche a gennaio, anche quando si vive una stagione difficile. Questo lo penso sul piano affettivo, ma anche sul piano della fede, perché ci sono stagioni della fede dove corriamo come Giovanni, e stagioni della fede dove - permettetemi il termine - “arranchiamo” come Simon Pietro.

Tu sì ’na cosa grande” fa parte del background della nostra adolescenza, quando con la canzone napoletana, prima dei cantanti neomelodici (su quelli avrei qualche perplessità, almeno io), si riusciva ancora a produrre testi che avrebbero avuto un futuro. Di questo testo c’è un’invocazione: da un lato, lei o lui che riconosce che l’affetto è grande (Tu sì ’na cosa grande), e noi vorremmo poterlo dire a Gesù o dirlo alla persona che amiamo. Dall’altra c’è la difficoltà a verbalizzare l’amore: Dillo, dillo ’na vota sola…, cioè sciogli, fa’ fiorire questa rosa, sciogli questa durezza. A volte la durezza è una durezza di cuore ed è una durezza di fede.

 

Ho voluto che questa nostra serata si concludesse – questa è una mia richiesta personale – con un tema già utilizzato per Traviata, perché quando Margherita ha cantato Traviata, ha fatto un gesto. In quel momento mi si è fatto chiaro che avevo una miniatura francese di fine Ottocento e allora ho detto: “Gliela devo regalare”. Questa miniatura, che viene da una famiglia che alcuni di voi conoscono (dopo, se volete, avrete la possibilità di vederla, prima che diventi di Margherita per tutti i secoli dei secoli), è di una dolcezza… Queste miniature sono dei piccoli capolavori, perché con poche pennellate l’artista è riuscito a rendere l’immagine di una bellezza, ma anche - almeno così vi leggo io, poi ognuno legge quello che ha dentro o quello che gli passa sul cuore - una sorta di nostalgia per qualcosa che c’era e non c’è più. Allora, dovendo fare questo dono - e non per aspetto plateale - ho pensato che era bello, prima invitarla, e poi consegnargliela. Gliene faccio dono, è una piccola reliquia, e così concludiamo la nostra serata, ascoltando -  e ora c’è anche l’oggetto - “Prendi, questa è l’immagine”.

Voi dite: che c’entra questo con la Pasqua? Dobbiamo consegnare delle immagini continuamente. Lì il tema è molto triste - questa è l’immagine dei miei passati giorni: verrà a rammentarti colei che sì t’amo - e poi, come già spiegai per Traviata in Cattedrale, c’è un’apertura di cuore - Se una pudica vergine - a dire: Séntiti libero di sposarti, anche domani, quando io sarò morta - dice Violetta. Questa è l’immagine della Pasqua, perché Gesù si presenta con le piaghe e le piaghe sono la sua vita precedente. Adesso è risorto, però ha le piaghe, quindi “questa è l’immagine dei miei passati giorni”.

Questa è la Pasqua. Avrei voluto regalare una miniatura a ciascuno, ma ne avevo una sola, però tornate tutti con questa miniatura della Pasqua 2011: Prendi, questa è l’immagine dei miei passati giorni.

 

G. Verdi – La traviata – Prendi, questa è l’immagine

      

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.