In punta di piedi in Episcopio

Ritiro per adulti

guidato da

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Fremiti di primavera”

 

Teano, 23 marzo 2011

 

Salone dell’Episcopio

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Clarinetti: Michele Smaldone, Michelangelo Borrelli

Pianoforte: Silvana Decato, Maria Teresa Roncone

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Per chi fosse nuovo di questa esperienza, “In punta di piedi in Episcopio” non è solo un titolo casuale, ma effettivamente è un tipo di presenza soft, soffice, silenziosa, per offrire la possibilità di un momento contemplativo, di riflessione, di ascolto, di arte. Speriamo di poter dire anche noi, alla fine della nostra vita: “Vissi d’arte” (questa espressione va bene anche sulla bocca di un credente).

Seguiamo la duplice riflessione, quella musicale e quella verbale, a cui poi si uniscono le riflessioni di ciascuno di voi, che vanno ad intrecciarsi con le sollecitazioni musicali e quelle evocative della parola.

Diamo il benvenuto ai nostri artisti; come avete visto dal programma, non ci sarà possibilità di appisolarsi, perché è un programma vario che terrà desta la nostra attenzione. Mantenendo il clima di preghiera, iniziamo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

F. Schubert – Marcia Eroica per pianoforte a 4 mani

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Un brano romantico ci introduce nel tema di questa sera: “Fremiti di primavera”. Vuole essere un modo “pensato” di celebrare questo tempo, il risorgimento della natura, e non solo nella stagione di primavera appena iniziata (per la verità non ancora esplosa, ancora in gemma, per il freddo che ancora sussiste), perché la primavera è molto di più che una stagione naturale o la stagione della natura: è una stagione del cuore.

Mi piace partire dal pezzo a quattro mani che abbiamo ascoltato - ne ascolteremo altri - che è una modalità di suonare degli amanti. Gli amanti vogliono suonare un pezzo a quattro mani, cioè essere all’unisono, sullo stesso spartito, con tocchi diversi per sprigionare un’unica musica. Anche la primavera è un pezzo a quattro mani, nel senso che c’è quello che avviene fuori di noi, ma che non tocca il cuore, la vita, il vissuto di tante persone, per le quali la primavera, come le altre stagioni, passerà inutilizzata, non scritta, non ascoltata, non celebrata. Come sempre, è rischioso, da parte mia, percorrere questi sentieri perché c’è il rischio di una sorta di dir tutto senza dir niente, fermarsi alla suggestione rinunciando ai contenuti, ma forse ci sono dei contenuti anche nella suggestione della primavera. Io vorrei, in varie tappe, scrivere con voi questo argomento - non so se ci riuscirò - primavera come verginità, verginità come primavera. Intanto partiamo dal dato oggettivo, quello che è sotto i nostri occhi: la nostra terra in questo periodo è particolarmente bella, anche la nostra terra martoriata del nord casertano, “Terra di lavoro”. Perché è il tempo più bello? Perché è una terra donna. Da qualsiasi parte si vada, c’è il rosa dei pescheti che ti chiama, che ti avvolge: la nostra terra, in questi giorni, è un grande pacco rosa, un grande dono avvolto di rosa. Ovviamente siamo chiamati a cogliere questi segni e a dire: Ma è solo un pacco? - a Napoli c’è la tradizione dei pacchi vuoti - È solo un’infiocchettatura della natura, senza che possa esserci un rinnovamento? o la natura ci chiama e ci provoca a un mutamento, a un rimetterci in gioco, a un ritentare? forse nella puntualità della primavera c’è un’idea di redenzione? è forse scritto il tracciato sul pentagramma per un percorso di rinnovamento? Questo sangue che comincia a circolare nelle vene - e non solo dei giovani - in una maniera diversa, chiama, preme. Chiama che cosa? Preme verso dove? Forse dobbiamo rimetterci in ascolto del corpo, perché mentre parlo della natura fuori di noi, parlo della natura che noi siamo, e la natura che noi siamo è il mio corpo, è il tuo corpo, è il nostro corpo, troppo bistrattato, anche dalla Chiesa in passato, troppo mortificato. È come uno strumento - mi si permetta questo accostamento - che riusciamo a stento a strimpellare, ma per il quale non siamo stati educati ad un pezzo a quattro mani. Il corpo è questo: è la natura dell’uomo e della donna, è questo nostro essere posti in una cornice più grande, che è la natura fuori di noi, ma c’è un collegamento, anche perché noi siamo fatti di acqua, siamo fatti di sale, siamo fatti di sostanze chimiche che troviamo anche fuori di noi, nel macrocosmo. Allora questo microcosmo, che sono io, è un’antenna che può percepire dei messaggi che vengono dalle galassie, che vengono da lontano e che in questo momento vestono di rosa la nostra terra. È possibile che la primavera mi chiami ad un rinnovamento? Vi lascio con questo interrogativo.

 

C. BaermannVortragsstück per clarinetto e pianoforte

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“Primavera e adolescenza” o anche “primavera è adolescenza” potrebbero essere due temi diversi, due temi musicali e due temi di riflessione. Perché dico “primavera è adolescenza”? Perché viene dopo il periodo di latenza. Prendo questa espressione da Freud che, come sapete, indica un tempo: dopo le curiosità dei bambini, si entra in un tempo dove l’attenzione è rivolta altrove. Quindi il periodo di latenza è l’inverno dei sensi - e non solo della mente -, un appisolamento, un letargo delle cose: l’erba non cresce, non c’è bisogno d’andare in giardino a tirare le erbacce… Da qualche giorno siamo tutti impegnati a ripulire le nostre aiuole, perché la terra freme, e in questo impeto di adolescenza, ovviamente, vengono fuori anche le erbacce. Dopo questo tempo silente (l’inverno), viene la primavera. Non sempre queste stagioni corrispondono alle stagioni del cuore, ma quello che mi interessa è guardare, a partire dalle stagioni della natura, le stagioni del cuore. Quindi ciascuno di voi si chieda: sono in un periodo di latenza? Per tanti di noi un po’ avanti negli anni, il periodo di latenza può essere anche un periodo di invecchiamento o un invecchiamento precoce della mente: una sorta di invecchiamento, di appiattimento, una sorta di assenza di stimoli, di piattezza delle emozioni, un grafico piatto dove niente, neanche un concerto, neanche una poesia, neanche un canto in lontananza, neanche il canto dei merli la mattina fa fremere (“Fremiti di primavera” è appunto il titolo del nostro essere qui). Allora mi chiedo: in che tempo sono? sono nel tempo della latenza? Può essere una latenza temporanea, ma può essere anche un addormentarsi della vivacità intellettuale e anche dei sentimenti, pronao di una sorta di morte. Non bisogna invecchiare (magari ognuno di voi lo pensa: Non voglio invecchiare). Come si fa? C’è un elisir dell’eterna giovinezza? Sì, ed è questo essere appassionati, interessati alla vita. Nulla riposa dalla vita quanto la vita - dice un poeta del Novecento -, cioè non ti riposa tirarti fuori, estrapolarti, ma “entrare dentro”, metterti al centro della piazza, nell’agorà del cuore dove si scontrano delle forze, dove i sentimenti fanno a pugni, dove ci sono sconvolgimenti, delle guerre, dei bombardamenti, degli tsunami… Questa è la vita, e se io ci sto dentro sono vivo, ma se io piano piano arretro e arretro, finisco con l’essere ai margini come un osservatore freddo. Ecco, questa è vecchiaia precoce, la latenza, ma il periodo di latenza serve a riprendere quota, a riprendere slancio, quando però è breve. Invece alcuni restano per anni, per decenni, per secoli, in questo tempo di latenza dove non cresce nulla. Certo, non devi impegnarti ad andare in giro con la falce, con il tagliaerba, ma capite bene che il non dover compiere questa fatica è come dire che i morti non lavorano. Invece è bene lavorare, è bene essere inseriti in questo circuito. L’adolescenza, che salutiamo con questa primavera (c’è un che di adolescenza che deve rimanere in noi anche a cinquant’anni, anche a settanta, se vogliamo essere vivi) è il premere. L’adolescenza è premere, è sentire che qualcosa preme. Questo voi lo avvertite, anche nel verbo che io ho usato, pensando all’aspetto della sessualità, che è un elemento; c’è un premere delle cose, c’è un voler rinascere, riprendere dialoghi interrotti, riprendere le fila della propria vita: ma cosa sto facendo? dove sono arrivato? Io ho 56 anni; non vi dico di dire la vostra età, ma ciascuno ci pensi: quanti anni ho? e che ne è della mia vita? come questa primavera mi raggiunge? e cosa mi dice? è solo un ricordo? una nostalgia? Ecco questo è il pericolo: il pericolo della primavera è metterci sul binario morto della nostalgia, mentre c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi, d’antico, mentre forse posso ancora rimpastare i miei giorni dando una forma nuova. Non vi sto invitando a lasciare il marito o la moglie, beninteso (andrei fuori del mio compito e andrei contro ciò che rappresento), ma piuttosto - ed è più difficile, come immaginate - è un invito a rigiocarsi con la persona con cui sto, nel mestiere che sto svolgendo da anni, rimettersi a nuovo, anche con ciò che mi interessa da anni, e che adesso è entrato nella dimensione di assopimento. La primavera bussa come la pioggia argentina sui tegoli vecchi del tetto.

 

F. Schubert – Marcia militare per pianoforte a 4 mani

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Abbiamo messo sul foglietto due testi di Ada Negri che non sono direttamente inerenti la primavera, ma in qualche maniera la echeggiano come basso continuo.

 

Il dono

 

 Il dono eccelso che di giorno in giorno
e d'anno in anno da te attesi, o vita,
(e per esso, lo sai, mi fu dolcezza
anche il pianto) non venne: ancor non venne.
Ad ogni alba che spunta io dico: - E' oggi -
e ad ogni giorno che tramonta io dico:
- Sarà domani -. Scorre intanto il fiume
del mio sangue vermiglio alla sua foce:
e forse il dono che puoi darmi, il solo
che valga, o vita, è questo sangue: questo
fluir segreto nelle vene, e battere
dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti
unicamente perché sei la vita.
 

 

Le donne - bisogna riconoscerlo - sono più brave di noi maschi a sentire i profumi, nell’avvertire che sta succedendo qualcosa: le donne sentono, presentono. Quindi affidiamo ad Ada Negri, una poetessa infelice da un punto di vista della carriera (per motivi politici purtroppo, come sempre), la possibilità di dare parola a quello che io molto maldestramente ho detto nei primi due punti, circa questa sorta di risveglio che qui è l’attesa di un giorno che deve venire. È oggi? Sarà domani.

Questa donna è in attesa, perché le donne sono sempre in attesa, perché l’attesa fa parte della nostra vita, quando siamo vivi (intendo quando non siamo in inverno, quando non siamo in una fase di glaciazione). Si attende: si attende un arrivo, si attende se stessi, si attende l’altro, si attende la felicità… Apparentemente, questo testo sembra attraversato da una percezione triste della vita, perché alla fine è come se si dicesse: non viene. Un rimando: è oggi? No, sarà domani… E intanto gli anni scorrono. Scorre intanto il fiume del mio sangue vermiglio alla sua foce. Questa foce, non lo dice, ma è la morte, è la fine del tempo, del mio tempo, sarà anche per me la fine del mondo. Non c’è bisogno che ne venga una fuori di me, ma a ben pensarci questo testo ci dice che forse proprio in questo scorrere del sangue vermiglio alla sua foce, c’è il senso: questo fluir segreto nelle vene e battere dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti unicamente perché sei la vita.

Cari amici, sta passando il tempo, stiamo invecchiando - i capelli bianchi, i capelli che cadono, i riflessi non più scattanti - ma forse ci siamo sbagliati? Me lo chiedo con voi questa sera: stiamo rincorrendo ciò che non ci sarà, ciò che è impossibile, una chimera? No - ci dice la poetessa - perché in questo stesso scorrere del sangue nelle vene c’è una grazia, c’è un dono. Il dono - che è il titolo e il la di questa piccola sinfonia, di questo piccolo gioiello - è il tempo stesso che tu stai vivendo: il dono è l’attesa, il dono è l’attesa del dono, come la vita è l’attesa della vita, come la felicità è l’attesa della felicità. Parole che tolte da questo contesto potrebbero suonare a morto, ma che invece, almeno per quello che avverto io, sono una bandiera da sventolare, a primavera o nella primavera della vita, o nella vita che è primavera, o nella primavera che attendiamo, come un poeta greco dice del viaggio di Ulisse: Itaca è il viaggio. Non è l’isola a cui approderai: è già il viaggio, sono già le difficoltà che hai attraversato. Anche qui sembra un’espressione pessimistica, a dire: Allora non c’è niente! È tutta un’illusione!

Invece, almeno così come la leggo, raccolgo la provocazione che Itaca sia il viaggio e la vita e il dono siano questo fluire del sangue. In positivo significa che la vita è nel suo scorrere (panta rei), è questo rincorrersi di giorni, delle stagioni; la vita è nei pescheti vestiti di rosa, tra poco sarà negli alberi di ciliegio che ammanteranno la nostra terra. È la vita: guardala. Qui, in questo momento, è il sangue delle vene, è il battere dei polsi, è la luce che raggiunge gli occhi e che è rossa, verde, azzurra, è policromia. Ho pensato anche a qualche quadro, come qualche volta abbiamo fatto; immaginate, come se adesso fosse qui, un quadro di un impressionista francese: una serie di colori, cappelli bianchi con i nastri, donne evanescenti, questo verde, queste signore con una vita da ballerine, in una sorta di fiaba. Ma gli impressionisti dipingevano la realtà? Domanda molto complessa. Potremmo dire no; potremmo dire sì: come la vedevano, come la sentivano. Forse sono poco bravo a dipingere, per questo la mia vita è grigia, perché lo stesso panorama sulla tua tela è un grigiore e per un impressionista è invece un’apoteosi di colori. Cari amici che siete qui, l’elisir dell’eterna giovinezza c’è, esiste, ed è l’essere interessati alla vita. Mi piace che questa sera, questi artisti che suonano per noi, che pregano con noi, che impastano con noi colori, suoni e parole, siano anche colleghi. C’è anche una preside: la preside e Maria Teresa fanno un pezzo a quattro mani. Immaginate: potrei fare un pezzo a quattro mani col mio direttore d’azienda? No, per carità!

Sono persone che lavorano, che si incontrano per motivi di lavoro, e che questa sera sono qui - immagino non solo stasera - per un motivo gratuito a 360 gradi, per un motivo di piacere, per un motivo di interesse alla vita. Forse anche con i tuoi colleghi di lavoro potresti fare un concerto, ma, ahimé!, tu lo escludi, perché dici: Già mi basta vedere la mia preside a scuola - sono qui diversi insegnanti - che mi tormenta, che tuona… Non vorrei vederla anche accanto a me sulla tastiera di un pianoforte!

Invece la vita ci affascia e, se ci affascia, ci affascina. È l’isolamento che non ci fa vedere tutti i colori di Monet, per esempio; è l’isolamento che non ci fa cogliere il sangue che batte nei polsi e la luce che dà sugli occhi. Allora cogliamo anche questa provocazione: chi suona, si incontra anche per motivi di lavoro. È possibile?

 

Ponchielli – Divertimento per due clarinetti e pianoforte “Il Convegno”

 

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Spero vi siate lasciati coinvolgere da questo “Convegno”: è il titolo di questo brano virtuosistico per due clarinetti.

Questi clarinetti erano ciarlieri, avevano molte cose da dirsi, si intersecavano nel discorso, si confrontavano, chiacchieravano con una verve che è primaverile, perché quello che stiamo dicendo - ma lo stiamo dicendo anche con loro, non sono due discorsi giustapposti, anche se il programma lo hanno scelto gli artisti - quello che stiamo dicendo sul tema della primavera (“Fremiti di primavera”), sulla primavera della vita, si verifica anche nella disponibilità al confronto, al convegno: il grado di vitalità di una persona è direttamente proporzionale alla possibilità di intessere dei discorsi che non siano dei monologhi, come sto facendo io (ma il mio non è un monologo, perché vi guardo). Quindi quante e quali sono le relazioni che tu intrattieni in questo momento? - e non mi fraintendete, mi raccomando - Qual è la caratura delle amicizie che tu intrattieni? quante persone conosci? non tanto per gloriarsi (Conosco questo e quello…, c’è anche una conoscenza con distintivo), ma di conoscenze coinvolgenti, di salotti… Anche questo - altre volte l’ho detto - dovrebbe essere un salotto di vecchio stampo dove si dibattono delle cose, dove ci si confronta su dei temi, dove si prepara una rivoluzione (per essere in tema con i 150’anni dell’Unità), perché, cari miei, dove non c’è rivoluzione non c’è vita. Invece rivoluzione è evoluzione e questo avviene nei convegni, avviene nella rosa di confronti che a volte sono anche degli scontri; invece se io mi rinchiudo - ecco l’inverno, la fase di latenza - in un monologo o con poche persone perché solo questi mi capiscono, se io non esco (la primavera è un invito ad uscire), se non intrattengo una serie variegata di relazioni, la mia vita si impoverisce e la mia cultura si appiattisce, perché anche se io ho qualcosa da dire e voi non mi permettete di dirlo, io muoio. Se uno ha qualcosa da dire, lo deve dire, ed è un’esigenza, è un’impellenza, è un fatto vitale, è il latte che non posso dare: che male per le donne che non possono allattare e hanno il latte! Il latte bisogna darlo, è un fatto vitale: se lo dai, stai bene; se te lo tieni, stai male. Questo, come vedete, è l’aspetto della relazione sulla quale siamo perlopiù - parlo a voi, ma non parlo di voi - mancanti, banali, prosaici, ingessati, ci limitiamo a dirci l’essenziale, piccoli avvisi di servizio, nulla di più, nessuna dichiarazione d’intenti, nessun piano per rendere, per esempio, la nostra terra più bella, oltre il tempo di primavera. Sono entrato in questo chiacchiericcio di clarinetti: ovviamente è un ordito virtuosistico, ma è stato un modo per renderci chiaro che in due si va meglio, che in due si vede meglio e in tre, in trecento, ci si organizza la vita. Voi state pensando che ce la complichiamo nella massa: certo, nella massa, ma non nella comunità. La comunità, invece, anche quando è numerosa, arricchisce la vita. Forse siamo poveri di dialogo, forse c’è un ammanco di convegni. “Primavera” è anche questo: la voglia di uscire. Ci siamo lasciati l’ultima volta con Traviata in Cattedrale; ricordate che anche Violetta, nel momento più tragico, dice: “Annina, il vestito! Uscire!”, anche ora che sta per morire.

Quando scenderete, troverete Teano deserta: tutti rintanati, tutti nel proprio igloo (dico Teano, ma vale per tante realtà della nostra zona). Che questo debba dirlo il Vescovo vi sembra un tantino eccessivo, dovrebbero dirlo gli altri, ma intanto lo dice il Vescovo: usciamo, passeggiamo… Nascono così le idee. Nascono così le rivoluzioni. Nascono così le evoluzioni.

 

J. Brahms – Danza ungherese n.5 per pianoforte a 4 mani

 

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Che ne è della verginità, in questa folla? Non ho perso il filo, come qualcuno di voi avrà pensato. Vi ho detto che avrei svolto il tema “Primavera come verginità, verginità come primavera”. Apparentemente pensiamo - ma è una distorsione mentale terribile che ci porta a fare tanti errori - che la verginità costituisca una sorta di solitudine incantata in un castello inaccessibile, perché se io vado in mezzo alla folla, se io mi confronto, se io vado al “Convegno” dei clarinetti, se io mi avvicino troppo, mi sporco. Allora è meglio che io mi tenga lontano. Il fatto che ci si debba tenere lontani dalla folla, lontani dal mondo, è un peccato che ci siamo portati dietro nella storia del Cristianesimo e che non ci ha reso un buon servigio, non ci ha portati alla ribalta della vita, ma piuttosto ci ha intristiti. Paradossalmente la folla è il luogo della verginità e non la solitudine, non l’isolamento, non la campana di vetro sotto cui mettiamo un cristallo in modo tale che non si rompa e non sia appannato neanche da un alito. Essere insieme, l’essere comunità più che folla (la folla è ancora una dimensione anonima), ci porta nella condizione di uno sguardo nuovo, perché la verginità - vorrei consegnarvi questa piccola perla che non trovo da nessuna parte - è uno sguardo, è uno sguardo sul mondo. La verginità è quando ci alziamo la mattina, apriamo la finestra e i merli cantano. C’è una verginità del mattino e una verginità della primavera, perché la primavera è il mattino di questo ciclo temporale delle stagioni, cioè uno sguardo pulito. Quindi non faccio minimamente riferimento ad una dimensione fisica della verginità, anche perché l’esperienza mi ha insegnato che ci sono delle prostitute che possono essere, come Gesù stesso ha detto, poste agli onori degli altari, e ci sono delle vergini dal cuore insozzato. Quindi la verginità non è un fatto fisico, ma un modulo di vita, è un’ottica, è una prospettiva di lettura, che chi fra voi sia un po’ più dentro alle cose della fede - come vedete, fino adesso io ho fatto un discorso molto umano, come d’altra parte mi è congeniale e sono solito fare - sa com’è possibile ricevere dalla liturgia, dai Sacramenti, questo sguardo nuovo. Pensate, per esempio: “Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. È una verginità, cioè noi usciamo vergini da una esperienza, noi usciremo vergini anche dall’esperienza di stasera, non perché io vi faccia un’assoluzione generale, ma perché quello che stiamo facendo (la musica, la riflessione, il silenzio, il dibattito, sia pure di sguardi), ci sta portando verso la finestra, verso la luce, verso un modo di guardare questa vita, che mi pesa a volte, in maniera nuova, perché anche la felicità è tutta in uno sguardo: non è in una vita facile o difficile, ricca o povera, realizzata o perseguitata, ma nel modo con cui guardo la mia vita. Per cui queste che, sulle prime, vi saranno sembrate delle divagazioni sul tema, degli “arzigogoli” di pensiero, in realtà ci riguardano direttamente, perché interpellano il modo con cui noi ci rapportiamo alla vita. Forse sei infelice perché vuoi esserlo - questa è la verità -, sono felici solo quelli che vogliono essere felici. Ma com’è possibile che uno voglia essere infelice? Nessuno di voi, in una maniera tematizzata, dice: “Voglio essere infelice”. Ma poi poniamo una serie di condizioni, di restrizioni, di chiusure, che ci pongono nella condizione dell’infelicità.

Sto cercando di farvi vedere nelle sue varie sfaccettature, che la verginità non è mai da soli. Forse si è vergini nel Matrimonio? Forse si è vergini in una comunità? Forse si è vergini in una famiglia? Forse si è vergini nella Chiesa? Forse si è vergini nella società? Mai da soli, perché una verginità isolata è una vita che si accartoccia e che, come dice Erri De Luca in un suo romanzo, è un vicolo cieco della storia.

 

Baermann – Adagio op. 63 N. 46 per clarinetto e pianoforte

 

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Questo brano un po’ dolente ci ha raccontato che la vita è anche questo: è anche una sorta di adagio, di lacrime, di pioggia di marzo, perché la primavera si annuncia nell’incertezza tra il freddo e Zefiro che torna, come dice il poeta, perché non viene tutta d’un tratto, ma convive insieme con il freddo…

 

Marzo: nu poco chiove
e n’ato ppoco stracqua.
Torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua.

Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.

N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole.
Ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.

 

Poi, come sapete, il poeta dice che marzo è Maria, è lei che cambia umore continuamente, perché è adolescente, è altalenante, non sa cosa vuole, e allora questo amante aspetta che esce ‘o sole tremando (n’auciello freddigliuso). È importante che ci fermiamo ad aspettare e non ce ne andiamo, perché l’inverno ha anche i suoi colpi di coda, perché l’infelicità ha anche i suoi ritorni; la malattia, le febbri hanno i loro ritorni e ci sembra d’essere sconfitti. Vorrei chiedere, per me e per voi, la grazia della testardaggine ad aspettare che il sole esca, che questa alternanza tra riso e pianto, tra vento, tempesta e sole si plachi, e la buona stagione possa esplodere in tutti i suoi colori. Alcuni se ne vanno intirizziti, ma se l’auciello freddigliuso si ritira, non esce più il sole.

 

E. Grieg – Danza Norvegese per pianoforte a 4 mani

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I colori del brano che abbiamo ascoltato, molto da fiaba e che forse ci hanno riportato anche immagini della nostra infanzia, possono fare da sfondo a questa seconda composizione sempre di Ada Negri. Perché vi ho detto “sfortunata poetessa”? Perché, come penso d’aver già spiegato qualche altra volta, non so se a voi o ad altri, la sfortuna di Ada Negri è stato il Ventennio, perché questa poetessa, l’unica donna ad essere fregiata dai riconoscimenti del Regime, quando è caduto il Regime, è caduta anche lei (quando un autore viene utilizzato o si lascia utilizzare - ma adesso non entriamo nella questione - dal potente di turno, è finita, perché poi cade il potente e cade anche l’artista). In questo momento gli artisti sono liberi, perché non ci sono potenti che li foraggiano, come noi d’altra parte, stasera, tutti nella massima gratuità, perché grazie a Dio non c’è nessuno che ci dà la copertura economica. Forse l’arte vera è questa. Chiusa la parentesi su queste note, su questi colori pastello, vi leggo “Il giglio” che non è direttamente primaverile, ma porta con sé un profumo inebriante.

 

Il Giglio

 

Ancor vivente è il giglio ch’io fanciulla

portai, felice, in processione, un giorno

di sagra. Dritto e casto era, ne’suoi

tre calici di limpido cristallo

sul gambo forte che alla man pesava.

Piccola mano e grandi occhi di bimba

stupefatta d’esistere; e dinanzi

ondeggiar di stendardi, e dietro i canti

delle povere donne in bruna schiera,

e ai lati della strada oro di messi.

Ancor vivente è il giglio che sì bianco

reggevo, specchio d’innocenza. Dove

si nasconde, lo so. Quando chiamarmi

vorrà il Signore, io che strappai le rose

di tante siepi, che mi punsi a tanti

pruni e raccolsi tante spighe ai campi,

offrirgli non potrò se non quel giglio.

 

Immagino che anche voi siate stati tormentati il giorno della Prima Comunione da quel giglio terribile (io ho tolto il giglio dalla mano dei bambini, quando ho avuto un minimo di autorità… Le mamme a protestare, a strapparsi i capelli, perché il parroco aveva tolto il giglio della purezza!). Ricordo l’imbarazzo di portare un giglio enorme, bisognava stare attenti che non macchiasse l’abito bianco della Prima Comunione (un’altra preoccupazione); poi c’era la candela… Mamma mia! Se uno queste cose le ha sofferte, cerca di non farle soffrire agli altri, per cui azzerai i gigli (magari da qualche parte ancora si usano). Quello che è importante, adesso (tra l’altro la poetessa qui non ricorda quello della Prima Comunione, ma un giglio portato in una processione di paese) è che da un lato c’è la piccolezza della mano (piccola mano e grandi occhi di bimba stupefatta d’esistere) e dall’altra c’è il giglio un po’ pomposo (il giglio di Sant’Antonio è effettivamente un po’ eccessivo).

Dritto e casto era, ne’suoi

tre calici di limpido cristallo

sul gambo forte che alla man pesava.

Questa donna, ormai avanti negli anni, si chiede: ma dov’è quel giglio? ho perso la mia infanzia? ho perso lo spirito di guardare il mondo con trasparenza, con verginità? Certo, è andata in cerca di altri fiori (io che strappai le rose tante siepi, che mi punsi a tanti pruni e raccolsi tante spighe ai campi), poi ha avuto altre possibilità, Ada Negri, ha fatto altre esperienze, ha colto altri fiori, ma sempre ferendosi, e si presenterà davanti al Signore - lei dice - e non potrò offrirgli se non quel giglio. Cos’è questo giglio? È l’infanzia che sta dentro di noi, che è la vera verginità. La verginità non è la verginità dei bambini, ma è la verginità dei grandi che hanno ancora dentro il bambino, la bambina che si innamora, che freme, che guarda i fiori, che ha gli occhi grandi… Gli occhi grandi dei bambini sono un capolavoro, grandi quanto il loro interesse, grandi quanto la loro voglia d’apprendere, grandi quanto la loro voglia di vivere. Poi, andando avanti nella loro vita, gli occhi diventano sempre più piccoli, tanto che abbiamo bisogno degli occhiali per vederci meglio, ma gli occhioni dei bambini sono quel giglio. Io mi presenterò davanti al Signore con la primavera nel cuore, cioè con un bambino che, nonostante tutti i terremoti, emergerà dai residui, dai calcinacci di costruzioni inutili della mia vita e avrà in mano un bambolotto, avrà in mano un giocattolo, avrà in mano un oggetto che gli psicologi chiamano “oggetto transazionale” perché viene investito di energia affettiva, una volta che ci si è separati dalla madre (lì c’è Dolores che potrebbe farci una conferenza sull’argomento), cioè quegli oggetti che i bambini tengono e senza i quali non si addormentano: un peluche o un oggetto qualsiasi che dà sicurezza, un giocattolo, una cosa da niente, senza la quale - si chiama oggetto transazionale - non viene il sonno e non vengono i sogni.

 

F. Mendelssohn – Concerto N. 2 per due clarinetti e pianoforte

 

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Ho ascoltato questo duetto, anche nel brano precedente, chiedendomi cosa Michelangelo sentisse, suonando col maestro col quale ha iniziato il suo percorso musicale col clarinetto e, dall’altra, cosa il Maestro Smaldone, al di là del brano, al di là dell’esecuzione, al di là della perfezione, mettesse di suo in questo duetto, con quello che ha visto essere un bambino (Ricordo la volta in cui è venuto a fare la prima lezione ed era incerto…). Perché ho guardato? Perché ci sono due relazioni; innanzi tutto ci sono due generazioni tra questi due leggii, ma poi ci sono anche due relazioni, perché c’è il maestro e l’alunno, il padre e il figlio. Ovviamente il figlio, come avete visto, ha fatto tanta strada, tanto da poter suonare col maestro con cui ha iniziato il suo percorso. È interessante questa griglia umana: uno non suona mai uno spartito, solo, ma suona insieme a un altro, che può essere indifferente ma può essere un altro significativo. Vorrei concludere così la nostra serata di “Fremiti di primavera”, e cioè che questa primavera-verginità avviene nel dialogo tra due generazioni; non può essere la primavera dei giovani isolata dalla primavera degli adulti; non può essere la primavera dei maestri che nascondono i segreti del mestiere ai propri alunni. A volte succede anche questo, in tutte le arti: non trasmetto questa cosa, altrimenti il mio alunno mi supererà... A volte anche i miei figli preti vengono a raccontarmi la loro predica: vi farà sorridere, ma è una cosa dolcissima per me. Da parte nostra, dobbiamo dare molta fiducia ai figli, agli alunni, ai discepoli, dicendo: Tu diventerai migliore di me. Spero che il maestro Smaldone abbia trasmesso questa idea: Diventerai migliore di me, più bravo! Dall’altra - ma questo dipende da noi adulti -, gli alunni, i figli, i giovani, quindi la generazione emergente dirà: Per me è importante che tu ci sia. C’è sempre, ovviamente, un conflitto generazionale, non lo possiamo eliminare: fa parte della natura, fa parte di questo scontro di tensioni in un campo magnetico, ma al di là dello scontro fisiologico, una generazione è appoggiata all’altra (l’ho vissuta e la vivo in una maniera forte e anche dolcissima nel rapporto, oggi poco tematizzato del discepolo e del maestro). Si rimane vergini e si è vergini se, innanzi tutto, si ha dei discepoli, e dall’altra se si ha un maestro, perché senza maestro non c’è verginità, né nei figli, né nei genitori, cioè noi ci offriamo vicendevolmente questo dono che ci dà la possibilità di guardare la primavera e di lasciarcene provocare, destando una stagione dello spirito. Concludo dicendovi che questa congiunzione - che non è una congiunzione astrale ma riguarda gli astri - tra la Pasqua e la primavera non è un matrimonio casuale. La Pasqua trova nella primavera la sua epifania esterna, naturale, e la primavera trova nella Pasqua la sua stagione spirituale, perché da quella notte, gli ebrei partirono, ed era dopo il plenilunio, ma facendo uno scavo di “archeologia” della Pasqua, ancor prima dell’uscita, che ha poi solennemente sancito che la Pasqua si celebra dopo il plenilunio, quindi a luna piena, i pastori si mettevano in cammino verso nuove terre, nuove zone con il proprio gregge e prima di partire, sacrificavano un agnello alla divinità - questo era quello che c’era prima-prima… - perché accompagnasse il pastore e il gregge in questo cammino. Questo era accompagnato probabilmente da una danza (loro ne hanno eseguite diverse: Danza ungherese, ecc.) che era fatta di passi e in cui si saltava. Sapete che Pasqua significa “passaggio”, ma anche “salto”; quindi, prima c’era la danza del salto che facevano i pastori, dopo aver offerto l’agnello alla divinità, perché proteggesse il gregge e il pastore in quella transumanza; poi è venuto il popolo che nella notte del plenilunio di marzo si era liberato, e poi è venuto Gesù, che ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli ed è esplosa la vita dopo la morte. Vi ho fatto, in poche battute, una serie di scavi di varie stratificazioni della Pasqua. Noi conosciamo quella di Gesù, ma quella di Gesù era quella degli ebrei, e quella degli ebrei era del popolo liberato, e quella del popolo liberato era prima dei pastori che partivano e partivano non perché fosse settembre, ma perché era primavera, si dovevano muovere, andando a cercare nuovi pascoli. Così vi auguro buona Pasqua, visto che questa è l’ultima volta che ci vediamo qui in Episcopio: mettiti in cammino, salta anche un ostacolo, un rancore, una difficoltà che non ti lascia vivere, che ti strozza. Salta, va’ oltre. Il salto era anche quello dell’angelo sterminatore che saltava le case degli ebrei che avevano il sigillo del sangue sull’architrave. Salta ed entra in questa stagione che non è più solo una stagione naturale, ma una stagione dello spirito.

Dunque, buona primavera? Buona Pasqua. Ascoltiamo l’ultimo brano e poi esplodiamo nell’applauso di ringraziamento. Veramente siamo grati per la vostra presenza qui, questa sera, e per l’aiuto che ci avete offerto.

 

N. Rubinstein – Tarantella per pianoforte a 4 mani     

      

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.