In punta di piedi in
Episcopio
Ritiro per adulti
guidato da
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
“Fremiti di primavera”
Teano, 23 marzo 2011
Salone dell’Episcopio
~
Clarinetti: Michele Smaldone,
Michelangelo Borrelli
Pianoforte: Silvana Decato,
Maria Teresa Roncone
~
Per
chi fosse nuovo di questa esperienza, “In punta di piedi in Episcopio” non è
solo un titolo casuale, ma effettivamente è un tipo di presenza soft, soffice, silenziosa, per offrire
la possibilità di un momento contemplativo, di riflessione, di ascolto, di
arte. Speriamo di poter dire anche noi, alla fine della nostra vita: “Vissi
d’arte” (questa espressione va bene anche sulla bocca di un credente).
Seguiamo
la duplice riflessione, quella musicale e quella verbale, a cui poi si uniscono
le riflessioni di ciascuno di voi, che vanno ad intrecciarsi con le
sollecitazioni musicali e quelle evocative della parola.
Diamo
il benvenuto ai nostri artisti; come avete visto dal programma, non ci sarà
possibilità di appisolarsi, perché è un programma vario che terrà desta la
nostra attenzione. Mantenendo il clima di preghiera, iniziamo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo. Amen.
F. Schubert – Marcia Eroica per
pianoforte a 4 mani
***
Un
brano romantico ci introduce nel tema di questa sera: “Fremiti di primavera”.
Vuole essere un modo “pensato” di celebrare questo tempo, il risorgimento della
natura, e non solo nella stagione di primavera appena iniziata (per la verità
non ancora esplosa, ancora in gemma, per il freddo che ancora sussiste), perché
la primavera è molto di più che una stagione naturale o la stagione della
natura: è una stagione del cuore.
Mi
piace partire dal pezzo a quattro mani che abbiamo ascoltato - ne ascolteremo
altri - che è una modalità di suonare degli amanti. Gli amanti vogliono suonare
un pezzo a quattro mani, cioè essere all’unisono, sullo stesso spartito, con
tocchi diversi per sprigionare un’unica musica. Anche la primavera è un pezzo a
quattro mani, nel senso che c’è quello che avviene fuori di noi, ma che non
tocca il cuore, la vita, il vissuto di tante persone, per le quali la
primavera, come le altre stagioni, passerà inutilizzata, non scritta, non
ascoltata, non celebrata. Come sempre, è rischioso, da parte mia, percorrere
questi sentieri perché c’è il rischio di una sorta di dir tutto senza dir
niente, fermarsi alla suggestione rinunciando ai contenuti, ma forse ci sono
dei contenuti anche nella suggestione della primavera. Io vorrei, in varie
tappe, scrivere con voi questo argomento - non so se ci riuscirò - primavera
come verginità, verginità come primavera. Intanto partiamo dal dato oggettivo,
quello che è sotto i nostri occhi: la nostra terra in questo periodo è
particolarmente bella, anche la nostra terra martoriata del nord casertano,
“Terra di lavoro”. Perché è il tempo più bello? Perché è una terra donna. Da
qualsiasi parte si vada, c’è il rosa dei pescheti che ti chiama, che ti
avvolge: la nostra terra, in questi giorni, è un grande pacco rosa, un grande
dono avvolto di rosa. Ovviamente siamo chiamati a cogliere questi segni e a
dire: Ma è solo un pacco? - a Napoli c’è la tradizione dei pacchi vuoti - È
solo un’infiocchettatura della natura, senza che possa esserci un rinnovamento?
o la natura ci chiama e ci provoca a un mutamento, a un rimetterci in gioco, a
un ritentare? forse nella puntualità della primavera c’è un’idea di redenzione?
è forse scritto il tracciato sul pentagramma per un percorso di rinnovamento?
Questo sangue che comincia a circolare nelle vene - e non solo dei giovani - in
una maniera diversa, chiama, preme. Chiama che cosa? Preme verso dove? Forse
dobbiamo rimetterci in ascolto del corpo, perché mentre parlo della natura
fuori di noi, parlo della natura che noi siamo, e la natura che noi siamo è il
mio corpo, è il tuo corpo, è il nostro corpo, troppo bistrattato, anche dalla
Chiesa in passato, troppo mortificato. È come uno strumento - mi si permetta
questo accostamento - che riusciamo a stento a strimpellare, ma per il quale
non siamo stati educati ad un pezzo a quattro mani. Il corpo è questo: è la
natura dell’uomo e della donna, è questo nostro essere posti in una cornice più
grande, che è la natura fuori di noi, ma c’è un collegamento, anche perché noi
siamo fatti di acqua, siamo fatti di sale, siamo fatti di sostanze chimiche che
troviamo anche fuori di noi, nel macrocosmo. Allora questo microcosmo, che sono
io, è un’antenna che può percepire dei messaggi che vengono dalle galassie, che
vengono da lontano e che in questo momento vestono di rosa la nostra terra. È
possibile che la primavera mi chiami ad un rinnovamento? Vi lascio con questo
interrogativo.
C. Baermann – Vortragsstück per clarinetto e pianoforte
***
“Primavera
e adolescenza” o anche “primavera è adolescenza” potrebbero essere due temi
diversi, due temi musicali e due temi di riflessione. Perché dico “primavera è
adolescenza”? Perché viene dopo il periodo di latenza. Prendo questa
espressione da Freud che, come sapete, indica un tempo: dopo le curiosità dei
bambini, si entra in un tempo dove l’attenzione è rivolta altrove. Quindi il
periodo di latenza è l’inverno dei sensi - e non solo della mente -, un
appisolamento, un letargo delle cose: l’erba non cresce, non c’è bisogno
d’andare in giardino a tirare le erbacce… Da qualche
giorno siamo tutti impegnati a ripulire le nostre aiuole, perché la terra
freme, e in questo impeto di adolescenza, ovviamente, vengono fuori anche le
erbacce. Dopo questo tempo silente (l’inverno), viene la primavera. Non sempre
queste stagioni corrispondono alle stagioni del cuore, ma quello che mi
interessa è guardare, a partire dalle stagioni della natura, le stagioni del
cuore. Quindi ciascuno di voi si chieda: sono in un periodo di latenza? Per
tanti di noi un po’ avanti negli anni, il periodo di latenza può essere anche
un periodo di invecchiamento o un invecchiamento precoce della mente: una sorta
di invecchiamento, di appiattimento, una sorta di assenza di stimoli, di
piattezza delle emozioni, un grafico piatto dove niente, neanche un concerto,
neanche una poesia, neanche un canto in lontananza, neanche il canto dei merli
la mattina fa fremere (“Fremiti di primavera” è appunto il titolo del nostro
essere qui). Allora mi chiedo: in che tempo sono? sono nel tempo della latenza?
Può essere una latenza temporanea, ma può essere anche un addormentarsi della
vivacità intellettuale e anche dei sentimenti, pronao di una sorta di morte.
Non bisogna invecchiare (magari ognuno di voi lo pensa: Non voglio
invecchiare). Come si fa? C’è un elisir dell’eterna giovinezza? Sì, ed è questo
essere appassionati, interessati alla vita. Nulla
riposa dalla vita quanto la vita - dice un poeta del Novecento -, cioè non
ti riposa tirarti fuori, estrapolarti, ma “entrare dentro”, metterti al centro
della piazza, nell’agorà del cuore dove si scontrano delle forze, dove i
sentimenti fanno a pugni, dove ci sono sconvolgimenti, delle guerre, dei
bombardamenti, degli tsunami… Questa è la vita, e se
io ci sto dentro sono vivo, ma se io piano piano
arretro e arretro, finisco con l’essere ai margini come un osservatore freddo.
Ecco, questa è vecchiaia precoce, la latenza, ma il periodo di latenza serve a
riprendere quota, a riprendere slancio, quando però è breve. Invece alcuni
restano per anni, per decenni, per secoli, in questo tempo di latenza dove non
cresce nulla. Certo, non devi impegnarti ad andare in giro con la falce, con il
tagliaerba, ma capite bene che il non dover compiere questa fatica è come dire
che i morti non lavorano. Invece è bene lavorare, è bene essere inseriti in
questo circuito. L’adolescenza, che salutiamo con questa primavera (c’è un che
di adolescenza che deve rimanere in noi anche a cinquant’anni, anche a
settanta, se vogliamo essere vivi) è il premere. L’adolescenza è premere, è
sentire che qualcosa preme. Questo voi lo avvertite, anche nel verbo che io ho
usato, pensando all’aspetto della sessualità, che è un elemento; c’è un premere
delle cose, c’è un voler rinascere, riprendere dialoghi interrotti, riprendere
le fila della propria vita: ma cosa sto facendo? dove sono arrivato? Io ho 56
anni; non vi dico di dire la vostra età, ma ciascuno ci pensi: quanti anni ho?
e che ne è della mia vita? come questa primavera mi raggiunge? e cosa mi dice?
è solo un ricordo? una nostalgia? Ecco questo è il pericolo: il pericolo della
primavera è metterci sul binario morto della nostalgia, mentre c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi,
d’antico, mentre forse posso ancora rimpastare i miei giorni dando una
forma nuova. Non vi sto invitando a lasciare il marito o la moglie, beninteso (andrei
fuori del mio compito e andrei contro ciò che rappresento), ma piuttosto - ed è
più difficile, come immaginate - è un invito a rigiocarsi con la persona con
cui sto, nel mestiere che sto svolgendo da anni, rimettersi a nuovo, anche con
ciò che mi interessa da anni, e che adesso è entrato nella dimensione di
assopimento. La primavera bussa
come la pioggia argentina sui tegoli vecchi del tetto.
F. Schubert – Marcia militare per
pianoforte a 4 mani
***
Abbiamo
messo sul foglietto due testi di Ada Negri che non sono direttamente inerenti
la primavera, ma in qualche maniera la echeggiano come basso continuo.
Il dono
Il dono eccelso che di giorno in giorno
e d'anno in anno da te attesi, o vita,
(e per esso, lo sai, mi fu dolcezza
anche il pianto) non venne: ancor non venne.
Ad ogni alba che spunta io dico: - E' oggi -
e ad ogni giorno che tramonta io dico:
- Sarà domani -. Scorre intanto il fiume
del mio sangue vermiglio alla sua foce:
e forse il dono che puoi darmi, il solo
che valga, o vita, è questo sangue: questo
fluir segreto nelle vene, e battere
dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti
unicamente perché sei la vita.
Le
donne - bisogna riconoscerlo - sono più brave di noi maschi a sentire i
profumi, nell’avvertire che sta succedendo qualcosa: le donne sentono,
presentono. Quindi affidiamo ad Ada Negri, una poetessa infelice da un punto di
vista della carriera (per motivi politici purtroppo, come sempre), la
possibilità di dare parola a quello che io molto maldestramente ho detto nei
primi due punti, circa questa sorta di risveglio che qui è l’attesa di un
giorno che deve venire. È oggi? Sarà domani.
Questa
donna è in attesa, perché le donne sono sempre in attesa, perché l’attesa fa
parte della nostra vita, quando siamo vivi (intendo quando non siamo in
inverno, quando non siamo in una fase di glaciazione). Si attende: si attende
un arrivo, si attende se stessi, si attende l’altro, si attende la felicità… Apparentemente, questo testo sembra attraversato
da una percezione triste della vita, perché alla fine è come se si dicesse: non
viene. Un rimando: è oggi? No, sarà domani… E intanto
gli anni scorrono. Scorre intanto il
fiume del mio sangue vermiglio alla sua foce. Questa foce, non lo dice, ma
è la morte, è la fine del tempo, del mio tempo, sarà anche per me la fine del
mondo. Non c’è bisogno che ne venga una fuori di me, ma a ben pensarci questo
testo ci dice che forse proprio in questo scorrere
del sangue vermiglio alla sua foce, c’è il senso: questo fluir segreto nelle vene e battere dei
polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti unicamente perché sei la vita.
Cari
amici, sta passando il tempo, stiamo invecchiando - i capelli bianchi, i
capelli che cadono, i riflessi non più scattanti - ma forse ci siamo sbagliati?
Me lo chiedo con voi questa sera: stiamo rincorrendo ciò che non ci sarà, ciò
che è impossibile, una chimera? No - ci dice la poetessa - perché in questo
stesso scorrere del sangue nelle vene c’è una grazia, c’è un dono. Il dono -
che è il titolo e il la di questa piccola sinfonia, di questo piccolo gioiello
- è il tempo stesso che tu stai vivendo: il dono è l’attesa, il dono è l’attesa
del dono, come la vita è l’attesa della vita, come la felicità è l’attesa della
felicità. Parole che tolte da questo contesto potrebbero suonare a morto, ma
che invece, almeno per quello che avverto io, sono una bandiera da sventolare,
a primavera o nella primavera della vita, o nella vita che è primavera, o nella
primavera che attendiamo, come un poeta greco dice del viaggio di Ulisse: Itaca
è il viaggio. Non è l’isola a cui approderai: è già il viaggio, sono già le
difficoltà che hai attraversato. Anche qui sembra un’espressione pessimistica,
a dire: Allora non c’è niente! È tutta un’illusione!
Invece,
almeno così come la leggo, raccolgo la provocazione che Itaca sia il viaggio e
la vita e il dono siano questo fluire del sangue. In positivo significa che la
vita è nel suo scorrere (panta rei), è questo rincorrersi di
giorni, delle stagioni; la vita è nei pescheti vestiti di rosa, tra poco sarà
negli alberi di ciliegio che ammanteranno la nostra terra. È la vita: guardala.
Qui, in questo momento, è il sangue delle vene, è il battere dei polsi, è la
luce che raggiunge gli occhi e che è rossa, verde, azzurra, è policromia. Ho
pensato anche a qualche quadro, come qualche volta abbiamo fatto; immaginate,
come se adesso fosse qui, un quadro di un impressionista francese: una serie di
colori, cappelli bianchi
con i nastri, donne evanescenti, questo verde, queste signore con una vita da
ballerine, in una sorta di fiaba. Ma gli impressionisti dipingevano la realtà?
Domanda molto complessa. Potremmo dire no; potremmo dire sì: come la vedevano,
come la sentivano. Forse sono poco bravo a dipingere, per questo la mia vita è
grigia, perché lo stesso panorama sulla tua tela è un grigiore e per un
impressionista è invece un’apoteosi di colori. Cari amici che siete qui,
l’elisir dell’eterna giovinezza c’è, esiste, ed è l’essere interessati alla
vita. Mi piace che questa sera, questi artisti che suonano per noi, che pregano
con noi, che impastano con noi colori, suoni e parole, siano anche colleghi.
C’è anche una preside: la preside e Maria Teresa fanno un pezzo a quattro mani.
Immaginate: potrei fare un pezzo a quattro mani col mio direttore d’azienda? No,
per carità!
Sono
persone che lavorano, che si incontrano per motivi di lavoro, e che questa sera
sono qui - immagino non solo stasera - per un motivo gratuito a 360 gradi, per
un motivo di piacere, per un motivo di interesse alla vita. Forse anche con i
tuoi colleghi di lavoro potresti fare un concerto, ma, ahimé!,
tu lo escludi, perché dici: Già mi basta vedere la mia preside a scuola - sono
qui diversi insegnanti - che mi tormenta, che tuona…
Non vorrei vederla anche accanto a me sulla tastiera di un pianoforte!
Invece
la vita ci affascia e, se ci affascia, ci affascina. È l’isolamento che non ci
fa vedere tutti i colori di Monet, per esempio; è l’isolamento che non ci fa
cogliere il sangue che batte nei polsi e la luce che dà sugli occhi. Allora
cogliamo anche questa provocazione: chi suona, si incontra anche per motivi di
lavoro. È possibile?
Ponchielli –
Divertimento per due clarinetti e pianoforte “Il Convegno”
***
Spero
vi siate lasciati coinvolgere da questo “Convegno”: è il titolo di questo brano
virtuosistico per due clarinetti.
Questi
clarinetti erano ciarlieri, avevano molte cose da dirsi, si intersecavano nel
discorso, si confrontavano, chiacchieravano con una verve che è primaverile, perché quello che stiamo dicendo - ma lo
stiamo dicendo anche con loro, non sono due discorsi giustapposti, anche se il
programma lo hanno scelto gli artisti - quello che stiamo dicendo sul tema
della primavera (“Fremiti di primavera”), sulla primavera della vita, si
verifica anche nella disponibilità al confronto, al convegno: il grado di
vitalità di una persona è direttamente proporzionale alla possibilità di
intessere dei discorsi che non siano dei monologhi, come sto facendo io (ma il
mio non è un monologo, perché vi guardo). Quindi quante e quali sono le
relazioni che tu intrattieni in questo momento? - e non mi fraintendete, mi
raccomando - Qual è la caratura delle amicizie che tu intrattieni? quante
persone conosci? non tanto per gloriarsi (Conosco
questo e quello…, c’è anche una conoscenza con
distintivo), ma di conoscenze coinvolgenti, di salotti…
Anche questo - altre volte l’ho detto - dovrebbe essere un salotto di vecchio
stampo dove si dibattono delle cose, dove ci si confronta su dei temi, dove si
prepara una rivoluzione (per essere in tema con i 150’anni dell’Unità), perché,
cari miei, dove non c’è rivoluzione non c’è vita. Invece rivoluzione è
evoluzione e questo avviene nei convegni, avviene nella rosa di confronti che a volte sono anche
degli scontri; invece se io mi rinchiudo - ecco l’inverno, la fase di latenza -
in un monologo o con poche persone perché solo questi mi capiscono, se io non
esco (la primavera è un invito ad uscire), se non intrattengo una serie
variegata di relazioni, la mia vita si impoverisce e la mia cultura si
appiattisce, perché anche se io ho qualcosa da dire e voi non mi permettete di
dirlo, io muoio. Se uno ha qualcosa da dire, lo deve dire, ed è un’esigenza, è
un’impellenza, è un fatto vitale, è il latte che non posso dare: che male per
le donne che non possono allattare e hanno il latte! Il latte bisogna darlo, è
un fatto vitale: se lo dai, stai bene; se te lo tieni, stai male. Questo, come
vedete, è l’aspetto della relazione sulla quale siamo perlopiù - parlo a voi,
ma non parlo di voi - mancanti, banali, prosaici, ingessati, ci limitiamo a
dirci l’essenziale, piccoli avvisi di servizio, nulla di più, nessuna
dichiarazione d’intenti, nessun piano per rendere, per esempio, la nostra terra
più bella, oltre il tempo di primavera. Sono entrato in questo chiacchiericcio
di clarinetti: ovviamente è un ordito virtuosistico, ma è stato un modo per
renderci chiaro che in due si va meglio, che in due si vede meglio e in tre, in
trecento, ci si organizza la vita. Voi state pensando che ce la complichiamo nella
massa: certo, nella massa, ma non nella comunità. La comunità, invece, anche
quando è numerosa, arricchisce la vita. Forse siamo poveri di dialogo, forse
c’è un ammanco di convegni. “Primavera” è anche questo: la voglia di uscire. Ci
siamo lasciati l’ultima volta con Traviata in Cattedrale; ricordate che anche
Violetta, nel momento più tragico, dice: “Annina, il vestito! Uscire!”, anche ora che sta per morire.
Quando
scenderete, troverete Teano deserta: tutti rintanati, tutti nel proprio igloo
(dico Teano, ma vale per tante realtà della nostra zona). Che questo debba
dirlo il Vescovo vi sembra un tantino eccessivo, dovrebbero dirlo gli altri, ma
intanto lo dice il Vescovo: usciamo, passeggiamo…
Nascono così le idee. Nascono così le rivoluzioni. Nascono così le evoluzioni.
J. Brahms –
Danza ungherese n.5 per pianoforte a 4 mani
***
Che
ne è della verginità, in questa folla? Non ho perso il filo, come qualcuno di
voi avrà pensato. Vi ho detto che avrei svolto il tema “Primavera come
verginità, verginità come primavera”. Apparentemente pensiamo - ma è una
distorsione mentale terribile che ci porta a fare tanti errori - che la
verginità costituisca una sorta di solitudine incantata in un castello
inaccessibile, perché se io vado in mezzo alla folla, se io mi confronto, se io
vado al “Convegno” dei clarinetti, se io mi avvicino troppo, mi sporco. Allora
è meglio che io mi tenga lontano. Il fatto che ci si debba tenere lontani dalla
folla, lontani dal mondo, è un peccato che ci siamo portati dietro nella storia
del Cristianesimo e che non ci ha reso un buon servigio, non ci ha portati alla
ribalta della vita, ma piuttosto ci ha intristiti. Paradossalmente la folla è
il luogo della verginità e non la solitudine, non l’isolamento, non la campana
di vetro sotto cui mettiamo un cristallo in modo tale che non si rompa e non
sia appannato neanche da un alito. Essere insieme, l’essere comunità più che
folla (la folla è ancora una dimensione anonima), ci porta nella condizione di
uno sguardo nuovo, perché la verginità - vorrei consegnarvi questa piccola
perla che non trovo da nessuna parte - è uno sguardo, è uno sguardo sul mondo.
La verginità è quando ci alziamo la mattina, apriamo la finestra e i merli
cantano. C’è una verginità del mattino e una verginità della primavera, perché
la primavera è il mattino di questo ciclo temporale delle stagioni, cioè uno
sguardo pulito. Quindi non faccio minimamente riferimento ad una dimensione
fisica della verginità, anche perché l’esperienza mi ha insegnato che ci sono
delle prostitute che possono essere, come Gesù stesso ha detto, poste agli
onori degli altari, e ci sono delle vergini dal cuore insozzato. Quindi la verginità non è un fatto
fisico, ma un modulo di vita, è un’ottica, è una prospettiva di lettura, che
chi fra voi sia un po’ più dentro alle cose della fede - come vedete, fino
adesso io ho fatto un discorso molto umano, come d’altra parte mi è congeniale
e sono solito fare - sa com’è possibile ricevere dalla liturgia, dai
Sacramenti, questo sguardo nuovo. Pensate, per esempio: “Io ti assolvo dai tuoi
peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. È una
verginità, cioè noi usciamo vergini da una esperienza, noi usciremo vergini
anche dall’esperienza di stasera, non perché io vi faccia un’assoluzione
generale, ma perché quello che stiamo facendo (la musica, la riflessione, il
silenzio, il dibattito, sia pure di sguardi), ci sta portando verso la
finestra, verso la luce, verso un modo di guardare questa vita, che mi pesa a
volte, in maniera nuova, perché anche la felicità è tutta in uno sguardo: non è
in una vita facile o difficile, ricca o povera, realizzata o perseguitata, ma
nel modo con cui guardo la mia vita. Per cui queste che, sulle prime, vi
saranno sembrate delle divagazioni sul tema, degli “arzigogoli” di pensiero, in
realtà ci riguardano direttamente, perché interpellano il modo con cui noi ci
rapportiamo alla vita. Forse sei infelice perché vuoi esserlo - questa è la
verità -, sono felici solo quelli che vogliono essere felici. Ma com’è
possibile che uno voglia essere infelice? Nessuno di voi, in una maniera
tematizzata, dice: “Voglio essere infelice”. Ma poi poniamo una serie di
condizioni, di restrizioni, di chiusure, che ci pongono nella condizione
dell’infelicità.
Sto
cercando di farvi vedere nelle sue varie sfaccettature, che la verginità non è
mai da soli. Forse si è vergini nel Matrimonio? Forse si è vergini in una
comunità? Forse si è vergini in una famiglia? Forse si è vergini nella Chiesa?
Forse si è vergini nella società? Mai
da soli, perché una verginità isolata è una vita che si accartoccia e che, come
dice Erri De Luca in un suo romanzo, è un vicolo cieco della storia.
Baermann – Adagio
op. 63 N. 46 per clarinetto e pianoforte
***
Questo
brano un po’ dolente ci ha raccontato che la vita è anche questo: è anche una
sorta di adagio, di lacrime, di pioggia di marzo, perché la primavera si
annuncia nell’incertezza tra il freddo e Zefiro che torna, come dice il poeta,
perché non viene tutta d’un tratto, ma convive insieme con il freddo…
Marzo: nu
poco chiove
e n’ato ppoco stracqua.
Torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua.
Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.
N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole.
Ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.
Poi,
come sapete, il poeta dice che marzo è Maria, è lei che cambia umore
continuamente, perché è adolescente, è altalenante, non sa cosa vuole, e allora
questo amante aspetta che esce ‘o sole
tremando (n’auciello
freddigliuso). È importante che ci fermiamo ad
aspettare e non ce ne andiamo, perché l’inverno ha anche i suoi colpi di coda,
perché l’infelicità ha anche i suoi ritorni; la malattia, le febbri hanno i
loro ritorni e ci sembra d’essere sconfitti. Vorrei chiedere, per me e per voi,
la grazia della testardaggine ad aspettare che il sole esca, che questa
alternanza tra riso e pianto, tra vento, tempesta e sole si plachi, e la buona
stagione possa esplodere in tutti i suoi colori. Alcuni se ne vanno intirizziti,
ma se l’auciello freddigliuso si
ritira, non esce più il sole.
E. Grieg –
Danza Norvegese per pianoforte a 4 mani
***
I
colori del brano che abbiamo ascoltato, molto da fiaba e che forse ci hanno
riportato anche immagini della nostra infanzia, possono fare da sfondo a questa
seconda composizione sempre di Ada Negri. Perché vi ho detto “sfortunata poetessa”?
Perché, come penso d’aver già spiegato qualche altra volta, non so se a voi o
ad altri, la sfortuna di Ada Negri è stato il Ventennio, perché questa
poetessa, l’unica donna ad essere fregiata dai riconoscimenti del Regime,
quando è caduto il Regime, è caduta anche lei (quando un autore viene utilizzato
o si lascia utilizzare - ma adesso non entriamo nella questione - dal potente
di turno, è finita, perché poi cade il potente e cade anche l’artista). In
questo momento gli artisti sono liberi, perché non ci sono potenti che li
foraggiano, come noi d’altra parte, stasera, tutti nella massima gratuità,
perché grazie a Dio non c’è nessuno che ci dà la copertura economica. Forse
l’arte vera è questa. Chiusa la parentesi su queste note, su questi colori
pastello, vi leggo “Il giglio” che non è direttamente primaverile, ma porta con
sé un profumo inebriante.
Il Giglio
Ancor vivente è il giglio ch’io fanciulla
portai, felice, in processione, un
giorno
di sagra. Dritto e casto era, ne’suoi
tre calici di limpido cristallo
sul gambo forte che alla man pesava.
Piccola mano e grandi occhi di bimba
stupefatta d’esistere; e dinanzi
ondeggiar di stendardi, e dietro i canti
delle povere donne in bruna schiera,
e ai lati della strada oro di messi.
Ancor vivente è il giglio che sì bianco
reggevo, specchio d’innocenza. Dove
si nasconde, lo so. Quando chiamarmi
vorrà il Signore, io che strappai le
rose
di tante siepi, che mi punsi a tanti
pruni e raccolsi tante spighe ai campi,
offrirgli non potrò se non quel giglio.
Immagino
che anche voi siate stati tormentati il giorno della Prima Comunione da quel
giglio terribile (io ho tolto il giglio dalla mano dei bambini, quando ho avuto
un minimo di autorità… Le mamme a protestare, a
strapparsi i capelli, perché il parroco aveva tolto il giglio della purezza!).
Ricordo l’imbarazzo di portare un giglio enorme, bisognava stare attenti che non
macchiasse l’abito bianco della Prima Comunione (un’altra preoccupazione); poi
c’era la candela… Mamma mia! Se uno queste cose le ha
sofferte, cerca di non farle soffrire agli altri, per cui azzerai i gigli
(magari da qualche parte ancora si usano). Quello che è importante, adesso (tra
l’altro la poetessa qui non ricorda quello della Prima Comunione, ma un giglio
portato in una processione di paese) è che da un lato c’è la piccolezza della
mano (piccola mano e grandi occhi di
bimba stupefatta d’esistere) e dall’altra c’è il giglio un po’ pomposo (il
giglio di Sant’Antonio è effettivamente un po’ eccessivo).
Dritto e casto era, ne’suoi
tre calici di limpido cristallo
sul gambo forte che alla man pesava.
Questa
donna, ormai avanti negli anni, si chiede: ma dov’è quel giglio? ho perso la
mia infanzia? ho perso lo spirito di guardare il mondo con trasparenza, con
verginità? Certo, è andata in cerca di altri fiori (io che strappai le rose tante siepi, che mi punsi a tanti pruni e
raccolsi tante spighe ai campi), poi ha avuto altre possibilità, Ada Negri,
ha fatto altre esperienze, ha colto altri fiori, ma sempre ferendosi, e si
presenterà davanti al Signore - lei dice - e non potrò offrirgli se non quel giglio. Cos’è questo giglio? È
l’infanzia che sta dentro di noi, che è la vera verginità. La verginità non è
la verginità dei bambini, ma è la verginità dei grandi che hanno ancora dentro
il bambino, la bambina che si innamora, che freme, che guarda i fiori, che ha gli
occhi grandi… Gli occhi grandi dei bambini sono un
capolavoro, grandi quanto il loro interesse, grandi quanto la loro voglia
d’apprendere, grandi quanto la loro voglia di vivere. Poi, andando avanti nella
loro vita, gli occhi diventano sempre più piccoli, tanto che abbiamo bisogno
degli occhiali per vederci meglio, ma gli occhioni
dei bambini sono quel giglio. Io mi presenterò davanti al Signore con la
primavera nel cuore, cioè con un bambino che, nonostante tutti i terremoti,
emergerà dai residui, dai calcinacci di costruzioni inutili della mia vita e
avrà in mano un bambolotto, avrà in mano un giocattolo, avrà in mano un oggetto
che gli psicologi chiamano “oggetto transazionale” perché viene investito di
energia affettiva, una volta che ci si è separati dalla madre (lì c’è Dolores
che potrebbe farci una conferenza sull’argomento), cioè quegli oggetti che i
bambini tengono e senza i quali non si addormentano: un peluche o un oggetto qualsiasi che dà
sicurezza, un giocattolo, una cosa da niente, senza la quale - si chiama
oggetto transazionale - non viene il sonno e non vengono i sogni.
F. Mendelssohn – Concerto N. 2 per due
clarinetti e pianoforte
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Ho
ascoltato questo duetto, anche nel brano precedente, chiedendomi cosa
Michelangelo sentisse, suonando col maestro col quale ha iniziato il suo
percorso musicale col clarinetto e, dall’altra, cosa il Maestro Smaldone, al di
là del brano, al di là dell’esecuzione, al di là della perfezione, mettesse di
suo in questo duetto, con quello che ha visto essere un bambino (Ricordo la volta in cui è venuto a fare la
prima lezione ed era incerto…). Perché ho
guardato? Perché ci sono due relazioni; innanzi tutto ci sono due generazioni
tra questi due leggii, ma poi ci sono anche due relazioni, perché c’è il
maestro e l’alunno, il padre e il figlio. Ovviamente il figlio, come avete
visto, ha fatto tanta strada, tanto da poter suonare col maestro con cui ha
iniziato il suo percorso. È interessante questa griglia umana: uno non suona
mai uno spartito, solo, ma suona insieme a un altro, che può essere
indifferente ma può essere un altro significativo. Vorrei concludere così la
nostra serata di “Fremiti di primavera”, e cioè che questa primavera-verginità
avviene nel dialogo tra due generazioni; non può essere la primavera dei giovani
isolata dalla primavera degli adulti; non può essere la primavera dei maestri
che nascondono i segreti del mestiere ai propri alunni. A volte succede anche
questo, in tutte le arti: non trasmetto questa cosa, altrimenti il mio alunno
mi supererà... A volte anche i miei figli preti vengono a raccontarmi la loro
predica: vi farà sorridere, ma è una cosa dolcissima per me. Da parte nostra,
dobbiamo dare molta fiducia ai figli, agli alunni, ai discepoli, dicendo: Tu
diventerai migliore di me. Spero che il maestro Smaldone abbia trasmesso questa
idea: Diventerai migliore di me, più
bravo! Dall’altra - ma questo dipende da noi adulti -, gli alunni, i figli,
i giovani, quindi la generazione emergente dirà: Per me è importante che tu ci
sia. C’è sempre, ovviamente, un conflitto generazionale, non lo possiamo
eliminare: fa parte della natura, fa parte di questo scontro di tensioni in un
campo magnetico, ma al di là dello scontro fisiologico, una generazione è
appoggiata all’altra (l’ho vissuta e la vivo in una maniera forte e anche
dolcissima nel rapporto, oggi poco tematizzato del discepolo e del maestro). Si
rimane vergini e si è vergini se, innanzi tutto, si ha dei discepoli, e
dall’altra se si ha un maestro, perché senza maestro non c’è verginità, né nei
figli, né nei genitori, cioè noi ci offriamo vicendevolmente questo dono che ci
dà la possibilità di guardare la primavera e di lasciarcene provocare, destando
una stagione dello spirito. Concludo dicendovi che questa congiunzione - che
non è una congiunzione astrale ma riguarda gli astri - tra la Pasqua e la
primavera non è un matrimonio casuale. La Pasqua trova nella primavera la sua
epifania esterna, naturale, e la primavera trova nella Pasqua la sua stagione
spirituale, perché da quella notte, gli ebrei partirono, ed era dopo il
plenilunio, ma facendo uno scavo di “archeologia” della Pasqua, ancor prima
dell’uscita, che ha poi solennemente sancito che la Pasqua si celebra dopo il
plenilunio, quindi a luna piena, i pastori si mettevano in cammino verso nuove
terre, nuove zone con il proprio gregge e prima di partire, sacrificavano un
agnello alla divinità - questo era quello che c’era prima-prima…
- perché accompagnasse il pastore e il gregge in questo cammino. Questo era
accompagnato probabilmente da una danza (loro ne hanno eseguite diverse: Danza
ungherese, ecc.) che era fatta di passi e in cui si saltava. Sapete che Pasqua
significa “passaggio”, ma anche “salto”; quindi, prima c’era la danza del salto
che facevano i pastori, dopo aver offerto l’agnello alla divinità, perché
proteggesse il gregge e il pastore in quella transumanza; poi è venuto il
popolo che nella notte del plenilunio di marzo si era liberato, e poi è venuto
Gesù, che ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli ed è esplosa la vita dopo
la morte. Vi ho fatto, in poche battute, una serie di scavi di varie
stratificazioni della Pasqua. Noi conosciamo quella di Gesù, ma quella di Gesù
era quella degli ebrei, e quella degli ebrei era del popolo liberato, e quella
del popolo liberato era prima dei pastori che partivano e partivano non perché
fosse settembre, ma perché era primavera, si dovevano muovere, andando a
cercare nuovi pascoli. Così vi auguro buona Pasqua, visto che questa è l’ultima
volta che ci vediamo qui in Episcopio: mettiti in cammino, salta anche un
ostacolo, un rancore, una difficoltà che non ti lascia vivere, che ti strozza.
Salta, va’ oltre. Il salto era anche quello dell’angelo sterminatore che
saltava le case degli ebrei che avevano il sigillo del sangue sull’architrave.
Salta ed entra in questa stagione che non è più solo una stagione naturale, ma
una stagione dello spirito.
Dunque,
buona primavera? Buona Pasqua. Ascoltiamo l’ultimo brano e poi esplodiamo
nell’applauso di ringraziamento. Veramente siamo grati per la vostra presenza
qui, questa sera, e per l’aiuto che ci avete offerto.
N. Rubinstein – Tarantella per
pianoforte a 4 mani
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Il testo, tratto
direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.