In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 11 marzo 2010

Salone dell’Episcopio

 

- Donne sotto la Croce -

 

“Balaustrata di brezza

per appoggiare stasera

la mia malinconia”

(G. Ungaretti)

 

Arpista: Elena Pozzuto

~

 

Ringraziamo il Signore di questo incontro e della possibilità che abbiamo, stasera, di riflettere sulla donna. Ho pensato ad una celebrazione cristiana, dopo la festa della donna, e l’arpa è già uno strumento  femminile. Ringraziamo Elena già ora, prima di iniziare.

Nel nome del Padre…

 

J. Pachelbel

Canon in D

 

Questo testo musicale che conosciamo, il canone di Pachelbel, che appartiene ad un tempo, ad una modalità musicale, ad una stagione che è quella barocca, mi dà l’incipit per la nostra riflessione sulla donna. Il pezzo che avete ascoltato è fatto di poche battute, forse quattro, poi arricchite, ripetute, armonizzate con variazioni, “ghirigori”… D’altra parte, il termine “canone” indica appunto un qualcosa che si ripete (anche il canone della Preghiera Eucaristica è un testo che si ripete). Questa ripetizione è su poche note: comincio così la nostra riflessione cristiana sulla donna, perché credo che ce ne sia bisogno, dal momento che ci sono tante letture che vengono dall’altra sponda, tutte valide, tutte degne di rispetto, ma abbiamo anche noi qualcosa da dire sulla donna (il “noi” non è un plurale maiestatis, ma riguarda la Chiesa che siamo noi). Il collegamento con il canone è che c’è un tema musicale di fondo che è scritto nella natura e nella cultura – attenti: sono due cose diverse – dove poi ciascuno si inserisce con la propria creatività. A volte, nei conservatori si affida un tema musicale agli alunni e si chiede loro di svolgere il tema, cioè con quattro note, con cinque note, con una battuta iniziale si deve lavorare su un tema. È un primo messaggio per dire che ciascuno di voi si pone nel mistero della donna - perché è un mistero - con la propria creatività, con la propria peculiarità, ma questo richiede che rientriamo nel tema, come poi noi maschi dobbiamo rientrare nel tema maschile, apportandovi le nostre modifiche o le nostre personali attribuzioni, la nostra sensibilità. Ecco, la femminilità è come un canone. Prima di entrare nel tema “Donne sotto la croce”, mi va di darvi questo primo accordo.

Ho fatto riferimento a due filoni importanti: già solo questa differenza tra natura e cultura potrebbe tenerci insieme per due ore e più, cioè c’è un tema naturale - e questo è sotto gli occhi di tutti, anche se non sempre riconosciuto - ma poi c’è un tema culturale, nel senso che la cultura non è solo l’elaborazione della natura, non è solo una lettura della natura, ma quello che andiamo scoprendo in questi ultimi anni, ci fa apparire la cultura, addirittura, in una dimensione più incisiva della natura stessa. È difficile per noi di una certa età, perché siamo cresciuti con l’idea che la natura costituisca un binario dal quale non si può deragliare, altrimenti si deraglia nella vita, e invece da diversi decenni a questa parte - ma d’altra parte anche l’uomo della strada fa questa semplice riflessione – ci si è accorti che la cultura ha un potere così grande da intervenire a mutare anche la natura. So che se io vi interpellassi, se potessimo fare un dibattito - ma non è questa la sede - troverei molti oppositori rispetto a questa tesi, sul piano antropologico e forse anche sul piano teologico. Quello che invece ora ci preme, è capire che ci sono le note della natura (pochissime) e poi c’è l’elaborazione della cultura, e a volte la cultura è così pervasiva, batte con tanta precisione sullo stesso punto, per molto tempo, come la goccia sulla pietra, tanto da trasformarla, da scolpirla, da traforarla.

Siete donne: è un dono, è un dono di natura, ma ovviamente è anche un dono di cultura. Quando dico “dono” intendo anche far riferimento a quello che dono non è. Non c’è bisogno di aprire parentesi su questo piano perché è sotto gli occhi di tutti, ma per tanto tempo il ruolo, l’importanza, la luce, la lampada nella notte del mondo, che è la donna, è stata messa sotto il moggio. Adesso mi interessa “cultura” nel senso positivo; non tanto cultura negativa sulla donna, ma cultura come pensiero e poi come pensiero che si fa atteggiamento, soprattutto che si fa educazione delle figlie donne. Credo – e qui chiudo questo primo momento – che quello che l’evoluzione femminista ha apportato alla donna (adesso guardiamola senza coloriture, senza giudizi) è indubbiamente un cambio non solo culturale.

Sto suonando bene queste poche note della natura e la possibilità variegata della cultura nel mio essere donna giovane?, adulta?, anziana? Adesso pare che l’anzianità sia un evento disdicevole e invece abbiamo la gioia di sentirci anche anziani. Sto suonando bene questo canone della natura che diventa fioritura, che diventa gorgheggio, che diventa variazione sul tema della cultura?

 

G.F. Haendel

Passacaille

 

Il tema “Donne sotto la croce” potrebbe anche essere il titolo di una conferenza di liberazione della donna, ma non è questo il senso che mi ha portato a scandire così questo titolo, ma piuttosto voler ripercorrere, insieme con voi, alcuni quadri dove compaiono le donne nella Via Crucis. Per la verità, le donne nella Via Crucis sono molto più presenti delle stazioni loro riferite. Possiamo dire che la Via della Croce, così come ce l’ha consegnata il Medioevo nella pia pratica della Via Crucis, ha come fondale le donne. Se ci fate caso, nella conclusione, chi rimane accanto al condannato moribondo sono le donne: c’è un solo uomo, Giovanni, che rappresenta il sesso maschile, ma perlopiù le donne hanno dimestichezza, hanno accesso, immediatezza con il dolore più di quanto noi uomini, in una maniera molto pedante, riusciamo a fare. La prima scena a cui dedicheremo qualche quadro, più di qualche riflessione è nella quarta stazione in cui Gesù incontra Sua madre: qui c’è la prima tonalità della donna. Magari, qualcuna di voi, più femminista, storcerà il naso: “Ecco, di nuovo il binomio donna-madre!”. Ma vorrei percorrere questa strada più da un punto di vista fenomenologico, perché la prima esperienza della donna (intendo la prima esperienza che noi uomini e donne abbiamo fatto della donna) è la donna-madre. La donna-madre compare nella quarta stazione della Via Crucis: Gesù incontra Sua madre. Il Metastasio dice: Sento l’amaro pianto della dolente Madre che gira tra le squadre in cerca del suo Ben. È un’immagine - il Medioevo da questo punto di vista è caldo di emozioni e di lacrime – che ha commosso generazioni intere. Non c’è nessun dato biblico che ci dica, ci racconti questa scena, ma immaginiamo che la madre di Gesù, avendo avuto notizia che il figlio sta precipitando nelle maglie della condanna e, quindi, della morte in croce, si sia mossa andandogli incontro. Che questa scena sia così come ce la presenta la Via Crucis o sia avvenuta diversamente, a noi non interessa e non toglie nulla, invece, alla tonalità della riflessione: si trovano, si incrociano un uomo e sua madre; l’uomo è adulto, ma per la madre è un bambino che si è fatto male. Voglio trasmettervi questa immagine a commento della quarta stazione: anche quando il figlio è adulto o addirittura anziano, la madre conserva in sé quell’atteggiamento di protezione che ha avuto nei primissimi anni, nelle primissime esperienze di vita che il figlio ha fatto. Per le mamme, i figli sono sempre piccoli, sono sempre bambini, ed è anche bello da parte nostra ritrovare, negli occhi della madre (una madre viva o defunta, non è importante) o negli occhi di Maria, Madre di tutti, uno sguardo di protezione. Che effetto ha fatto a Gesù questo incontro? Mi ha sempre colpito il fatto che sia stato un incontro doloroso più che di conforto – e ne facciamo esperienza anche noi nel nostro piccolo - perché un dolore noto a un altro che ci ama accresce il dolore. Se io sto soffrendo, e una persona che so che mi vuol bene viene a conoscenza del mio dolore, inizialmente questa presenza mi conforta perché sento accanto una persona amica, una persona che mi vuol bene. Ma pensateci un po’ più a fondo: ci sono dei momenti in cui noi vorremmo che nostra madre non ci fosse. Adesso dico “madre” per dire una persona che tiene a noi, che svolge nei nostri confronti un atteggiamento materno, di protezione. Non so se questa è una versione maschile (ovviamente il Vescovo è un maschio e parla con il suo essere uomo), non so se sia una percezione al maschile, ma ho sempre pensato che questo incontro non sia stato un motivo di conforto, ma un’amplificazione di dolore. Il mio dolore non è cambiato, perché questo conforto non mi toglie il soffrire, ma adesso viene accresciuto anche da questo specchio che è il cuore, sono gli occhi della madre o di questa persona-madre, e quindi mi ritorna amplificato ed è un circolo di amplificazione continua. Quindi ritorna alla madre raddoppiato e viene al figlio quadruplicato: andiamo di accelerazione in accelerazione. È bello che la tradizione cristiana medioevale ci abbia educato - perché la Via Crucis è una scuola, è un’educazione a cui dovremmo abituare i giovani - ci abbia abituati a questo sentimento materno, a questo incrocio di sguardi. Ovviamente, c’è il servizio d’ordine e, benché Maria sia la madre del condannato, il figlio e la madre non hanno avuto modo di dirsi nulla, se non guardarsi, ma questo sguardo apre un abisso di dolore nell’uno e nell’altra, nel figlio che soffre, nella madre che guarda, nel figlio che soffre di più perché la madre guarda il suo dolore. Il mistero della maternità donna-madre mi sembra che sia - e non vi sembri una riflessione dolorifica – l’amplificazione di dolore. Fondamentalmente è così, non fosse altro che nell’espressione del parto, ma anche in quel partorire continuamente il figlio (questo vale anche per altre maternità) che ci torna malconcio dalla vita, che la vita rigetta, che la vita pone ai margini, che la vita condanna. Magari può essere una condanna anche che mio figlio sposato sia tornato a casa: anche questa è una condanna, cioè è stato condannato da sua moglie o si è autocondannato, perché c’è sempre una corresponsabilità nei matrimoni che vanno in frantumi. È come se il mistero della donna-madre fosse profondamente doloroso, anche quando siamo a celebrare una festa, perché la festa finisce, anche quando siamo alla discussione di laurea del figlio o della figlia, perché è un attimo, anche quando siamo nel momento di gloria del Matrimonio o di una meta agognata e conseguita da parte del figlio. “Gesù incontra sua madre” è il primo contatto con la donna. La donna è, per tutti, uomini e donne, la prima interlocutrice: l’uomo viene dopo, il padre viene dopo e sarà sempre un intruso, in qualche maniera. È la donna l’interlocutrice, donna-madre e madre-donna, sia che abbia generato un figlio fisicamente, sia che lo abbia generato e rigenerato in altri modi.

 

G.F.Haendel

Concerto in Si bemolle (Larghetto-All. moderato)

 

Come sempre, ho l’impressione di fare un discorso a due voci, cioè il Vescovo parla e poi il concertista parla. Questo discorso sulla femminilità mi è stato suggerito anche dall’arpa per la verità, non solo dalla concomitanza della festa della donna. Mi fermo ancora sulla quarta stazione di Gesù e Sua madre con una sovrapposizione di questa scena con quella dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù nel Tempio che è una scena dell’infanzia. Gesù ha 12 anni, conoscete l’episodio, ma quello che è importante è la domanda, cioè quel che dice Maria all’atto in cui vede il figlio, lo ritrova dopo averlo cercato insieme con Giuseppe per tre giorni: “Figlio, perché ci hai fatto questo?”. C’è, ovviamente, un’inclinazione al rimprovero, dolce e doloroso al tempo stesso. Alcune traduzioni dicono: “Figlio, perché ci hai fatto così?”, cioè non capiamo, che è successo?, perché?

Credo che le madri chiedano continuamente ai figli “Perché?”, a partire dal “Perché mi hai abbandonata? - mi riferisco all’esperienza del parto - Perché? Perché te ne sei andato?”. In fondo, credo che tutte le donne-madri e tutte le madri-donne dicano al figlio: “Perché?”. La depressione dopo il parto nasce, come dice Erri De Luca ne “In nome della madre”, da… “mi lascerai come un guscio vuoto”, da questo essere svuotati dal e del figlio, che avete sperimentato. Sì, è bello vederlo, chiamarlo, averlo in braccio, vedere che si attacca al seno: esperienze bellissime, ma queste esperienze richiedono una fuga del figlio da me. Se ci fate caso, questa esperienza del “perché te ne sei andato?” si ripete tante volte nella vita (Perché ti sei perduto?, perché mi rispondi in questa maniera?, perché non mi chiami?, perché non mi parli?). E anche Maria chiede al figlio: “Perché ci hai fatto questo?”. A dire: eravamo una bella famiglia. Non so se avete mai fatto queste considerazioni molto umane che vi sembreranno anche molto terra-terra, ma la spiritualità – ricordatevelo – si fonda sull’umanità, altrimenti è evanescente.

Eravamo una bella famiglia noi tre, io, tu e Giuseppe, eravamo uniti, abbiamo dei ricordi bellissimi della tua infanzia, della tua crescita, di certi momenti che abbiamo celebrato e poi questo incantesimo si è rotto: te ne sei andato.

Tutti i figli se ne vanno, in qualche maniera, e poi se ne vanno nella morte. È come se la donna-madre continuamente chiedesse al figlio: Perché? Perché ci hai fatto questo? Perché è accaduto questo? Perché non siamo stati fissati in quell’idillio dell’infanzia, della famiglia unita?, quando i figli sono bambini, quando ci sono i piccoli problemi, ma si guarda al futuro con speranza? Non vi sembri troppo umana questa riflessione di Maria che, senza parole, dice al figlio: “Perché?”. Ovviamente, dicendo questo, vorrei che ascoltassimo anche la parola - perché? - sulla bocca delle nostre madri: Perché?, perché non sei quel bambino buono che faceva le preghiere a mani giunte in ginocchio davanti al letto?, perché?, perché sei cambiato?

Mi rendo conto che qualcuno di voi potrebbe leggere anche un che di patologico in quello che sto dicendo, perché sembra che questo aspetto diadico, cioè della diade madre-figlio, non si debba rompere e, invece, si deve rompere per la vita, come si rompono le acque, come si apre e si lacera il grembo.

Io so di toccare, stasera, qualche corda dolorosa in voi, ma questo incontro è anche una terapia di gruppo. Il “perché?” detto da mia madre a me, da tua madre a te, è: Perché non hai mantenuto quell’innocenza? E qui non parlo dell’innocenza infantile che perlopiù, come sapete, è uno stereotipo più che una realtà (esiste l’innocenza degli adulti, non quella dei bambini), ma mia madre, tua madre, nostra madre, Maria chiede a Gesù: Perché è accaduto tutto questo? – e qui vengono tutte le laudi medievali di Jacopone e compagni (Figlio, amoroso giglio… figlio, a chi m’appiglio?) con queste finali che richiamano e che servono alla memoria - Chi ti ha sfigurato così?

In piccolo, questo succedeva quando noi tornavamo un po’ sporchi dai giochi dell’infanzia e poi più drammaticamente è accaduto nella vita. Allora, la donna sotto la croce è anche la madre che chiede al figlio: “Perché?”. E finché noi ascoltiamo questa voce, possiamo ancora cambiare, non per ritornare indietro - sarebbe una regressione - ma per seguire una voce che ci invita al bene: “Hai fatto le preghiere? Hai messo la maglia?”. Sono tutte quelle raccomandazione che adesso ci fanno sorridere e che le mamme, puntualmente, di millennio in millennio, fanno ai figli: “Mi raccomando, comportati bene, fai il bravo!”.

Per cui il “perché?” è: Perché non hai fatto il bravo? Perché ti sei perduto? Figlio, perché ci hai fatto questo?

 

J.L.Dussek

Sonata (Allegro-Andantino-Rondò)

 

Approdiamo al secondo quadro che guardiamo questa sera: la sesta stazione della Via Crucis che riguarda la Veronica. Come sapete, c’è stato anche il rischio che la povera Veronica scomparisse del tutto dalla Via Crucis non avendo nessun fondamento biblico, ma devo confessare un’affezione particolare per questo quadro, perché vi ho sempre letto la femminilità nella sua dimensione più leggera, più dolce.

Vorrei, su questo quadro, iniziare un discorso sulla donna-amica, perché come sempre cerco delle vie umane di lettura del quadro. La Veronica ha compassione di Gesù, esce dalla folla, va ad asciugargli il volto… Magari non sarà stato vero nel dato storico, ma a noi non  interessa: questo quadro sarà più vero di tutti gli altri perché è stato pregato dal Medioevo in poi, quindi a noi basta così.

La donna-amica: perché amica? In questo quadro la Veronica (Veronica non è il nome proprio, ma un nome fittizio dato al gesto, una parola-simbolo: “vera icona”) si riporta a casa, dice la tradizione, un’immagine, il primo dagherrotipo, prima che fosse inventato, di Gesù. C’è una fine simbologia in questo quadro, perché la donna-amica si fa accanto e si porta a casa l’altro. “Si porta a casa” nel senso che “porta nel cuore” (non è un possesso) l’immagine dell’altro e la sua vita, il suo volto, sia pure dolorante, sia pure sfregiato. Allora, la donna-amica è la donna interlocutrice della vita, è il tu dell’uomo: questo vale nel Matrimonio, ma vale anche in tante altre relazioni belle, dove ci si accosta sfiorandosi. In fondo, c’è un velo di mezzo, un fazzoletto, un lino, un piccolo telo che è una sorta di tessitura della relazione. Il velo è la relazione e la relazione non può essere possessiva neanche nel Matrimonio. Lo sapete bene voi che siete sposate e sposati: all’atto in cui avete voluto stringere, avete rischiato di perdere l’altra persona. Per cui la donna-amica non vale solo per i fidanzati, per i giovani: vale per tutti, anche per voi che siete sposati, perché se la moglie non è anche la donna-amica, capite bene che il discorso si impoverisce a tal punto che non abbiamo nulla da dirci e restiamo sotto lo stesso tetto in un silenzio tombale. Invece, c’è la possibilità di sfiorarsi (questo sfiorarsi d’ombre - come dice Barsacchi – nello specchio di uno sguardo). Siamo solo ombre, l’uomo e la donna sono ombre: adesso ci siamo e domani, come sempre, il solito manifesto… È morto il Vescovo di Teano-Calvi… Siamo ombre, però in questa nostra fragilità estrema, basta che una piccolissima vena del cervello vada in corto e per me è finita. Questa fragilità, però, ci pone nella possibilità di guardarci, di parlarci, di incontrarci, di sfiorarci attraverso la tessitura del velo di Veronica che, se fatto con la discrezione e la sensibilità proprie della donna - ma speriamo non solo - dona all’altro o anche all’altra, l’immagine, il ricordo. Noi non crediamo che sia esistita, ma piuttosto mi interessa, e spero interessi anche voi, la tramatura del lino che è il movimento che conoscete del telaio, questo andirivieni dall’uno all’altro capo, da me a te e che rende possibile l’incontro della donna-amica che per noi adesso è la Veronica. Ci sono nella tua vita delle donne così? Ovviamente, non mi riferisco solo agli uomini presenti. Qui la donna-amica è anche la donna amica della donna, cioè è la donna che passa, che guarda, che sfiora, che ti pone un gesto di compassione (rivolgere la parola è un grande gesto di compassione, rivolgere uno sguardo è un grande gesto di compassione) e se ne va portandosi un ricordo, un’immagine, una reliquia di me, di te. Mentre ascoltiamo l’arpa che ci sta raccontando tante cose, pensiamo anche a questa bellissima modalità di incontrarsi, sfiorandosi.

 

F.J.Naderman

Sonata (Preludio-All.Maestoso-Allegretto)

 

Quello che sto tentando di dire è proprio controcorrente. Ovviamente, non mi riferisco a voi, ma ai vostri figli, a quello che vedete che essi fanno, al modo con cui vivono, perlopiù, fatte le debite eccezioni, alle loro esperienze affettive e quindi alle loro delusioni, perché una donna conquistata è una donna perduta, invece una donna-amica che scompare è quella che conserva il ricordo. Paradossalmente, ciò che noi riteniamo essere la solidità, costituisce il presupposto del fallimento e ciò che invece a noi sembra superficiale (se voi dite a un giovane “sfiorarsi”, dirà: “Ma è una cosa superficiale!”), ha futuro perché nessuno di quelli che hanno incontrato Gesù lungo il cammino, non solo della croce, ma della sua esistenza, ha portato questo ricordo che è “vera icona” come la Veronica che lo ha semplicemente sfiorato. Vedete, o noi impariamo a suonare l’arpa – magari potessimo! - e mi riferisco alla vita, mi riferisco all’amore, dove si sfiorano le corde della vita, le corde dell’amore, o noi siamo destinati all’infelicità. Noi stiamo generando generazioni di infelici che, a furia di annettere, di conquistare, non sanno più cosa sia l’amore. L’amore, invece, nella sua forma più alta, anche nella dimensione matrimoniale, non è possedersi - e spero che conveniate, voi sposati - ma è sfiorarsi, è dirsi una parola sottovoce; non è gridare, come normalmente si fa, perché gridando si vuole gettare una trappola sull’altro per afferrarlo. Invece, una parola sottovoce è sfiorarsi rispettando il mistero dell’altro, sentendo che la mia presenza è episodica e, nella misura in cui è episodica, sarà perenne, ma nella presunzione d’essere perenne diventerà episodica. Un giro di parole per dire che quello che diventa possesso, passa; ciò che invece parte con l’umiltà - perché in fondo questo sfiorarsi presuppone l’umiltà di non poter rispondere alle esigenze dell’altro - lo sfiorarsi che nasce dall’umiltà è per sempre. Io spero che voi stiate vivendo il Matrimonio così. Allora, le vostre coppie, proprio perché nascono da questa coscienza episodica, avranno futuro, ma quelle che nascono dal desiderio di annessione, hanno vita breve perché l’altro vuole di più di quello che io sono. In altri termini, la Veronica cosa avrebbe potuto fare di più? Salvare Gesù, convincere Pilato, fermare le truppe, ma sa che non può farlo. Ecco perché è un gesto che nasce dall’umiltà, cioè io, a questo condannato, posso solo passargli, un attimo, il fazzoletto sul volto per asciugargli sudore e sangue, ma è proprio la percezione di non essere all’altezza, di non essere risolutivo dell’altro, che pone questa donna nella sapienza della relazione. Un Matrimonio finisce all’atto in cui io ritengo che tu debba rispondere a tutte le mie domande, a tutte le mie esigenze, o che io possa rispondere a quella fame di infinito che c’è in te, di femminilità o di mascolinità che c’è in te. Non vi scandalizzate, ma nessun uomo e nessuna donna può rispondere a questa esigenza: possiamo solo passare un velo sulla fronte matida di sudore dell’uomo o della donna, dell’amico o dell’amica, sfiorandolo e tornando a casa dicendo: “Ho fatto niente”. Non ho risolto il dramma del suo esistere, ma paradossalmente questo è l’unico modo d’essere accanto alle persone nell’amore. Il resto è presunzione ed è distruzione. Vedete come questo quadro così dolce, così leggero, così sottovoce, così discreto, così umile, sia un poema d’amore, così come noi possiamo scriverlo, perché fuori di questo poema non c’è amore, c’è violenza. La seduzione, se ci pensate, ha alla base la stessa violenza della distruzione. Si può distruggere una persona in due modi, ricordatevelo: uccidendola o seducendola. Nell’uno e nell’altro caso io l’ho annullata, l’ho uccisa. E, allora, se la seduzione, in tutte le sue forme, è l’annullamento dell’altro, esiste una sola redenzione nella relazione che è l’essere amico, perché l’amico, l’amica non si propone come la quinta essenza della bellezza, ma dice: Facciamo quattro chiacchiere, passo un attimo nella tua vita, passo da te, passo a prendermi un caffè - per utilizzare un’espressione molto popolare. Voi dite: Ma io ho bisogno di centomila euro e tu vuoi darmi un caffè? Ma forse questo caffè vale più dei centomila euro di cui tu hai bisogno, perché è quello che io posso fare per te: ti posso offrire questo, questo piccolo spazio. E questo piccolo spazio è il piccolo lino che la Veronica, nella tradizione che adesso diventa simbolica, fortemente simbolica e allusiva, utilizza per asciugare il volto di Gesù.

Cari miei, o siamo attestati su questo, o siamo sulla strada sbagliata, non solo per gli altri, perché faremo tanto male, ma per noi, perché saremo ogni sera insoddisfatti, perché non troveremo nessuna donna, nessun uomo. Qui esiste una sola donna e si chiama Veronica.

 

A. Hasselmans

La Source

 

Faccio solo uno “spot pubblicitario” così passiamo al brano successivo perché il tempo è già passato. Mi sono chiesto: molti dei mariti qui presenti, starebbero a girare il foglio alla propria moglie che fa il concerto? È una domanda che vi sareste posti anche voi: mio marito verrebbe al concerto a girarmi il foglio dello spartito? Perché, vedete, qui abbiamo anche una coppia che fa concerto. Tra l’altro, mi è sembrato di capire - non me l’ha detto lei, ma Don Pasquale - che Elena è stata a Piano di Sorrento per due volte, un giovane l’ha accompagnata e… Dammi una mano a portare l’arpa!

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse e così adesso abbiamo due sposi. A volte, quell’intesa nel guardarsi per girare il foglio è un poema, per cui vorrei che oltre al suono dolcissimo - adesso abbiamo ascoltato una sorta di onde marine in questa suggestione musicale - guardassimo anche questa coppia. Ovviamente, a un concerto non si suonano solo degli spartiti e non si eseguono dei brani, ma ci si racconta, e qui abbiamo anche il racconto di una donna con uno strumento femminile (è difficile immaginare un uomo che suoni l’arpa) e poi un marito che la guarda per vedere il momento in cui bisogna girare pagina. Mi sembra un poema anche questo.

 

C. Debussy

Arabesque I

 

Dedichiamo questi ultimi momenti alla scena che vedete nell’immagine riassuntiva sul frontespizio: è Gesù che rimprovera le donne di Gerusalemme. È una stazione anche un po’ controversa: alcuni dicono che rimprovera, altri che consola… Insomma è chiaro immediatamente questo aspetto di rimprovero: “Figlie non più su queste / piaghe che porto impresse / sui figli e su voi stesse / vi invito a lacrimar - è sempre Metastasio - serbate il vostro pianto, sconsolate donne / quando l’empia Sionne vedete rovinar” (è la traduzione del brano, perché questa stazione ha un fondamento nel Vangelo). Gesù vede queste donne che piangono e le invita a piangere su altro. Cosa significa adesso questo sulla  femminilità? Un pericolo. Metto in evidenza un pericolo della femminilità - e non solo - che è un’emotività fine a se stessa, un’emotività che si riproduce senza fine, senza approdare a nulla. In fondo, perché Gesù tratta un po’ male - sembrerebbe così - queste donne? Perché sono afflitte alla vista del condannato e quindi tutte le viscere materne sono chiamate in causa: Questo potrebbe essere figlio mio… Ogni figlio è figlio di una mamma, ci ricorda la nostra tradizione napoletana… Gesù dice di andare un po’ più a fondo, perché forse queste lacrime vanno indirizzate altrove. Come vedete, è un invito a non fermarsi all’aspetto epidermico, all’emozione fine a se stessa, ma a diventare più introspettivi (Sui figli e su voi stesse vi invito a lacrimar, dice il Metastasio), scendendo nel dramma che è mio. Poi Gesù prefigura anche la distruzione di Gerusalemme che avverrà nel 70 d.C. (quando l’empia Sionne vedrete rovinar), ma più che la profezia della caduta delle mura, e quindi della distruzione di una città, c’è il mettere il dito sul dramma: voi precipiterete come persone – e ovviamente non è rivolto solo alle donne - se questo aspetto dell’emotività vi prende a tal punto da non farvi considerare la vostra identità e anche il dramma che è dentro di voi e il dramma che riguarda i vostri figli. Dell’emotività io sono un ammiratore e, d’altra parte, la utilizzo, come molti di voi leggono tra le righe, perché senza emotività non si trasmette nulla. Anche la musica, fondamentalmente, è emotività: viene a creare dei paesaggi, a richiamare dei ricordi, genera delle emozioni, ma ci troviamo oggi, come sapete, in un contesto dove l’emotività, a volte, si amplifica a dismisura, generando se stessa senza che l’emozione sia anche veicolo di un pensiero. In fondo, anche l’emozione di stasera (vi ho richiamato la madre: un’onda di emozioni…) vi ha preso, ci ha presi, ma l’emozione dev’essere il motore: c’è bisogno di una direzione e questa direzione la dà il pensiero. Il pensiero senza emozione è freddo e non smuoverà nulla, ma l’emozione senza pensiero sarà il dilagare, il tracimare di un lago che genera solo distruzione. Ecco, questi sono i due eccessi che noi tutti, uomini e donne, dobbiamo evitare. L’equilibrio richiede che l’emozione spinga - guai se non ci fosse – e quindi se non c’è, dev’essere creata. Le mamme, le donne, in questo sono maestre. L’emozione dev’essere creata, ma a sostegno, a movimento, a motore di un’idea, di un pensiero, di un progetto, altrimenti i nostri giovani passano da un’emozione all’altra, ma non costruiranno mai nulla e con loro anche noi. Voglio leggere, in una maniera un po’ legata al nostro tempo, la scena di Gesù che si volta e sembra un po’ scortese nei confronti di queste donne che gli vanno dietro e fanno il loro piagnucolio, che pare faccia parte della scena: Fermi! Un attimo! Ma su cosa stiamo piangendo? Qual è il motivo di queste lacrime? Dove porta questa emozione? Quale idea la anima?

Ecco, questo incontro tra il pensiero e l’emozione, in fondo è la vera sintesi uomo-donna, non perché le donne non pensino e gli uomini non siano emotivi - è chiaro che la distinzione non è così netta - ma mi sembra che il Matrimonio che comunque dobbiamo realizzare nella vita è tra l’anima maschile e l’anima femminile in noi, in tutti. L’anima femminile è la facilità alle lacrime, qui nella scena, che è facilità all’emozione, la gioia importante di emozionarsi. L’anima maschile è avere le idee chiare e distinte, è il “Cogito, ergo sum”. Capite che l’uno e l’altro mondo separati sono una tragedia, siamo una tragedia. Il matrimonio, l’incontro, l’intersezione di queste due forze, genera l’uomo maturo, la donna vera. Chiediamo al Signore, nella nostra preghiera di stasera, di saper piangere, ma per un motivo. A volte, se uno chiede a dei giovani presi da un’emozione: “Scusa, ma perché stai piangendo?” - mi è capitato qualche volta di fare questa domanda – “Piango perché piange quell’altro”. Un attimo! C’è qualcosa che non va, perché bisogna piangere per qualcosa, non per il gusto di piangere, non perché lo fanno tutti. Penso a certi film, a certe visioni… Andando un po’ indietro, “Titanic” a fatto piangere generazioni di persone che andavano a vederlo perché avevano bisogno di piangere, ma non mi sembra un’emozione intelligente. Bisogna piangere, bisogna piangere per qualcosa, per qualcuno. Gesù ci invita in questa scena a piangere anche per noi. Entra in te: dentro di te c’è già motivo abbastanza.

 

M. Tournier

Au Matin

 

Tutta la musica è descrittiva, ma ci sono alcuni brani che, particolarmente, si pongono sulla linea di voler descrivere un paesaggio, di voler delineare i suoni di un momento, di una sensazione. L’ultima scena è quella centrale dello Stabat, anche se appena accennata. Lo Stabat di Jacopone (la sequenza “Stabat mater dolorosa”) prende l’incipit dall’espressione dell’evangelista Giovanni: “Stavano presso la croce di Gesù…”. Chiudo con questa immagine: la donna deve stare - ma questo valga anche per gli uomini - cioè dev’essere presente. Non è importante parlare, non è importante agire: ci sono momenti in cui non possiamo dir nulla e non possiamo far nulla, ma dobbiamo starci. L’ho già espresso di passaggio questo concetto: le donne sono esperte del dolore, gli uomini ne hanno paura in tutti i sensi. Tutti abbiamo paura fisicamente del dolore, ma noi uomini - dobbiamo confessarlo - siamo sempre in prima elementare; le donne invece si laureano, a differenza di noi. Lo vedete quando si tratta di una scena legata ad una persona in fin di vita, a momenti drammatici che si vivono nelle nostre famiglie: gli uomini scappano. Ce l’abbiamo proprio nel nostro DNA: noi col dolore non ci sappiamo fare. Le donne dicono: “Io riesco a sopportare…! Mio marito neanche un mal di testa sopporta!”. È la possibilità di stare nella difficoltà senza far nulla. Io vorrei chiedere a voi donne di continuare a insegnarci quest’arte, di insegnarla ai vostri figli, ma anche a noi uomini. Vengono momenti nella vita in cui dobbiamo semplicemente essere presenti, senza commenti, senza elaborazioni concettuali, senza citazioni, senza possibilità di intervenire minimamente, ma non possiamo dimetterci. Maria è rimasta, stava. E tu devi stare accanto al figlio, in certi problemi, in certi momenti, in certi luoghi dove non vorresti stare, perché magari sei perdente, ma devi stare, semplicemente devi rimanere. Mi sembra che questa sia una grande lezione che ci viene da “Donne sotto la croce”. Il testo non dice neanche che Maria si lamentava. Ascoltando il penultimo brano, chiediamo al Signore la grazia di poter stare. Questo lo dico alle donne “maestre”. Ma anche noi impariamo più a stare, senza scappare, senza dimetterci, senza nasconderci, perché a volte i figli, da noi, chiedono questo: che tu ci sia, che tu prete ci sia in quella situazione, che tu sia presente. Ci sto, non posso aiutarti ma ci sto, sono con te, sono accanto a te, silenziosamente.

 

J. Ibert

Scherzetto

 

Prima dell’ultimo pezzo e della benedizione finale, qualche avviso sui prossimi appuntamenti.

Siamo stati due ore: ve ne siete accorti? No. È questa la bellezza dell’arte: sospende il tempo, non guardiamo gli orologi. Per esempio, non ci viene di andare in bagno, perché l’arte sospende anche questo: è un prodigio.

Primo appuntamento: sabato 20 marzo, vengono a farmi una serenata. Ho pensato: visto che vengono a fare una serenata al Vescovo, voglio condividerla. Se qualcuno di voi vuol venire, questa serenata si farà in Cattedrale alle 19:30. Mi riferisco al Coro del Miserere della mia ex-parrocchia. Dovete sapere che nella Penisola Sorrentina, in questo periodo, ci sono movimenti di masse, di centinaia e centinaia di persone in preparazione delle processioni della Settimana Santa e uno di questi poli è il Coro del Miserere che, attenti, non ha nessuna valenza chissà quanto artistica, però è un coro di 300 uomini. Pastoralmente è una cosa non indifferente. Tre anni fa vennero, poi li ho fermati a debita distanza l’anno scorso e due anni fa, adesso non ho potuto dire di no.

Se volete rubarvi questa serenata, il 20 marzo trovatevi in Cattedrale alle 19:30.

Il giorno dopo, alle 19:30, c’è la prima nazionale a Teano, prodotta da noi – “noi” non come attori - della versione teatrale del “Diario di un curato di campagna di Bernanos” che porta il titolo di “Confessione di un curato”. Se volete partecipare - mi riferisco in particolare a quelli che hanno fatto le due sere prima di Natale - c’è bisogno di procurarsi un biglietto con un costo minimo di dieci euro, per la verità, quindi una cosa accessibilissima. Ovviamente, mi sembra che possa essere un fiore all’occhiello. Per me lo è, perché è nato qui, dentro l’Episcopio (anche le prove sono state fatte qui) e perché è una cosa che ho gettonato io, spingendo l’attore a sposare questa causa. Quindi, è bello anche questo appuntamento.

L’ultimo, il più importante: Mercoledì Santo alle ore 19:00, in Cattedrale, c’è la Messa Crismale che da un paio d’anni è piuttosto sentita nella nostra Diocesi. Dobbiamo essere presenti, dal momento che siamo adulti vicini al sentire delle parrocchie o della Diocesi.

Poiché abbiamo fatto questo ciclo mariano, concludiamo con un’Ave Maria. Ci riferiamo alla Madonna perché ci aiuti a riscoprire questa modalità d’essere al femminile. Ave, o Maria…

 

Benedizione del Vescovo

 

Dico il mio grazie a Elena, ma anche al marito di cui ho ammirato la sintonia.

 

M. Grandjany

Automne  

 

***

 

Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.