In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 19 febbraio 2010

Salone dell’Episcopio

- Pedagogia delle lacrime -

 

Chitarra: Gianluca Barberis

 

***

Nel nome del Padre…

 

H. Villa Lobos

Preludio n°1

 

Questa sera preghiamo con l’aiuto del Maestro Gianluca Barberis. Per le due preghiere “In punta di piedi” (quella di stasera e la prossima), abbiamo scelto due strumenti, per ascoltare i quali bisogna stare ancora di più “in punta di piedi”, come dice l’intestazione del nostro incontro, nel senso che ci sono strumenti che si impongono, come il pianoforte, e ci sono strumenti “d’anima”. Tutti gli strumenti sono “d’anima”, ma questa sera facciamo il tifo per la chitarra, che ha bisogno di una sospensione d’ogni altro rumore per essere ascoltata, per ascoltarne il canto, il pianto. Prima di addentrarmi nel tema che ho scelto - un po’ strano per noi - vorrei porre delle domande sulle lacrime. Perché porre delle domande? Perché, a volte, le domande aiutano l’ingresso nel tema. Per esempio, da quanto tempo non piango? Ed è proprio utile piangere? Piangere nell’infanzia, piangere nell’adolescenza, piangere nella maturità, nell’età anziana… Quanto le lacrime sono un incidente e quanto, invece, esprimono il meglio di noi? È proprio vero che una vita che non lacrima è una vita felice? Ecco, pongo degli interrogativi per avviare il tema. Ovviamente, la scelta di questo titolo, di questo tema (“Pedagogia delle lacrime”), è in margine alla Quaresima che abbiamo appena iniziato e che ha, al suo centro, il tema del pentimento che si esprime anche nelle lacrime: lacrime esterne e, ancor più e ancor meglio, lacrime del cuore, perché le lacrime non sono solo quelle che scorrono sul viso (Una lacrima sul viso cantava Bobby Solo quando eravamo ragazzi), ma sono anche quelle del cuore. Lacrima anche l’anima?

Ho scelto uno dei due brani dove chiaramente  - perché poi, “in codice” accade anche altrove - Gesù piange (l’altro brano è la morte di Lazzaro che fa esclamare ai presenti: “Vedi come lo amava!”): ho scelto il pianto di Gesù su Gerusalemme.

 

Luca 19, 41-44

41 Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: 42 «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. 43 Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; 44 abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

 

La “composizione di luogo” - direbbe Sant’Ignazio – di questo brano è il Monte degli Ulivi, cioè Gesù arriva a Gerusalemme e la guarda attraverso gli ulivi, ma anche attraverso questo poggio, questo belvedere - diremmo noi oggi - sulla città, che è il Monte degli Ulivi a ridosso di Gerusalemme. È una città apparentemente raccolta, ma che ha i suoi intrighi, il suo sangue, le sue violenze: violenze, sangue e intrighi che riguarderanno Gesù stesso. Quindi, questa è la città del suo approdo, è l’ultima città, è la città della morte. Gesù vi si appresta, ha fatto un lungo cammino (nel Vangelo di Luca, ben 10 capitoli nell’economia dell’intero Vangelo), vi si è preparato come per un concerto d’eccezione, come per un appuntamento con il dolore, con la morte, con il tradimento. Quindi, c’è tutto questo pathos che porta Gesù a guardare Gerusalemme tra gli ulivi - immaginate questa scena con l’argento degli ulivi che si agitano leggermente al vento - con il Tempio e le grandi costruzioni che fanno grande e santa quella città per gli Ebrei. Ma questa vista genera lacrime (Gesù pianse su di essa). Perché Gesù piange su Gerusalemme? Perché Egli stesso dice, lamentandosi, come una sorta di singhiozzo, che questa città non ha riconosciuto il suo momento, come d’altra parte accade nella nostra vita. A volte, si piange per un appuntamento mancato: era il mio giorno, era il momento decisivo della mia vita, era l’occasione per dire “Ti amo”, tutto era stato preparato per… ma non me ne sono accorto, non me ne sono reso conto: ero altrove. In fondo, il dramma non è solo della morte: è il dramma dell’incomprensione, cioè Gesù e Gerusalemme, che si sono cercati, adesso si incontrano e poi andranno in due direzioni opposte, senza mai più incontrarsi (Paolo dirà, nella Lettera ai Romani, che poi ci si incontrerà; alla fine, Paolo, nel suo ottimismo, dice che anche gli Ebrei avranno la loro salvezza, dal momento che attraverso di essi ci è venuta la salvezza e la persona di Gesù). Poi Gesù vaneggia - immaginate così questa scena – vaneggia guardando il futuro: il futuro è il 70 d.C. quando le insegne romane entreranno in Gerusalemme e demoliranno tutto (le mura, il Tempio…). Ecco, su queste lacrime di Gesù io vorrei intessere con voi, stasera, il discorso. Non sarà un discorso lacrimoso (magari qualcuno starà pensando: “Ecco, noi eravamo venuti qui per prendere un po’ di coraggio e il Vescovo ci ha preparato un piatto di lacrime!”), ma vuole essere un viaggio nell’umanità, come d’altra parte è il mio approccio consueto, oltre che nell’aspetto spirituale, per capire di più il fenomeno del piangere, dal momento che anche Gesù piange. Immaginate cosa sarebbe significato per noi, oggi, raccogliere una lacrima di questo pianto… Immaginate se stasera avessi potuto mostrarvi una lacrima di Gesù… Una reliquia meravigliosa… Persa, come tante cose. Si perderanno anche le stille di sangue, si perderà tutto, perché l’amore è pura perdita, ma questo pianto esalta i nostri, cioè se Gesù piange, allora piange anche Dio, allora piangere è divino, allora non è un segno di debolezza, come qualche volta i ragazzi e gli uomini (i maschi) pensano, ma è il canto migliore della nostra vita, anche perché non si piange solo di dolore, ma si piange di nostalgia, si piange anche di gioia, si piange in un momento di festa. Ecco, ci avviciniamo così: innanzi tutto, con delle domande, domande sulle lacrime.

A. Barrios

Ultimo tremolo

***

Tu non le puoi vedere;

io, sì.

Terse, rotonde, tiepide.

Lentamente

vanno al loro destino;

lentamente, per indugiare

più a lungo sulla tua carne.

Vanno verso il nulla; non sono

che questo, il loro scorrere.

E una traccia, verticale,

che si cancella subito.

Astri?

Tu

non le puoi baciare.

Le bacio io per te.

Sanno; hanno il sapore

dei succhi del mondo.

Che gusto nero e denso

di terra, di sole, di mare!

Restano un istante

nel bacio, indecise

fra la tua carne fredda

e le mie labbra; infine

io le prendo. E non so

se erano davvero per me.

Perché io non so nulla.

Sono stelle, o segni,

sono condanne o aurore?

Né guardando né coi baci

ho imparato che cos’erano.

Ciò che vogliono resta

indietro, tutto ignoto.

E così pure il loro nome.

(Se le chiamassi lacrime

nessuno capirebbe)

 

Sono molto affezionato a questo testo di Pedro Salinas che fa parte di un poema d’amore. Ci sono – credo - settanta o più poesie che portano solo la numerazione latina e che raccontano l’amore. Anche questa, che io adesso utilizzo in sede di preghiera, è una poesia d’amore, come d’altra parte il 99% dei testi che io ho scelto in questa sorta di “antologia delle lacrime”. La bellezza di questo testo, come dell’altro che segue, è nella fenomenologia della lacrima, cioè cos’è, com’è, come si manifesta e come non abbia nome. La parte più bella è: Se le chiamassi lacrime nessuno capirebbe. A dire: dopo che ho detto tutto questo, che cos’è?, che è successo?, cosa ho raccolto sulla tua guancia? Non lo so… Alla fine, Salinas ci invita a vedere, nella lacrima, un cosmo: un cosmo d’umanità, di sentimenti, di ricordi, di dolore, di attesa, ma anche un cosmo nel senso materiale del termine. Dice: ma cosa sono?, astri? (Tra l’altro, il suo maestro, Jiménez, dopo ci parlerà della concordanza tra una lacrima e una stella). Poi dice: Sanno, hanno il sapore dei succhi del mondo, cioè qui dentro c’è come l’essenza. Permettetemi questa provocazione: di una lacrima potremmo restare incinti, cioè se una lacrima è tutto questo (Sanno, hanno il sapore dei succhi del mondo), una lacrima potrebbe farci incinte o incinti. Quando Virgilio, nel verso che vi ho citato, dice “Sunt lacrimae rerum”, intende dire questo succo, questo spremere il meglio da una pianta, da un uomo, da una vita, da una storia, da un giorno, da una sofferenza, da una fede. Una lacrima è una spremuta di umanità - direi con un termine per niente poetico - cioè quando dono una lacrima, ho dato tutto. Allora, se questo è vero, questa pagina di Vangelo, così piccola e poco conosciuta, forse già contiene in sé la redenzione: Dio che piange - direbbe il poeta - su questo “atomo opaco del male” è un Dio che redime il mondo, cioè se Dio ha pianto sul mondo, state tranquilli, andrà bene, andremo bene, il mondo si salverà (e quando dico “mondo”, dico “uomini”). Che gusto nero e denso di terra, di sole, di mare! Poi c’è il dialogo della lacrima che indugia, perché la lacrima scende adagio, va al suo destino lentamente, per indugiare più a lungo sulla carne. Una lacrima non sprizza, ma indugia, perché mi appartiene o perché - come qui ci descrive il poeta - aspetta qualcuno che la raccolga come reliquia. Questo qualcuno che raccoglie, dice anche - ed è bello questo verso - E non so se erano davvero per me, cioè compie questo gesto perché non vuole che scorrano verso il nulla, perché le lacrime scorrono come il panta rei del filosofo antico, come i fiumi: vanno e passano in un attimo. Chi le raccoglie – e, ovviamente, è l’amante (“La voce a te dovuta” è un poema d’amore) - non sa se sta rubando qualcosa che non gli appartiene, che porta un altro indirizzo, se sta aprendo un pacco non suo. Perché io non so nulla: alla fine, il dilemma non è se questa lacrima è per me o per un altro e non so leggere, sono analfabeta sull’indirizzo che è scritto su questa lacrima, ma sono analfabeta di tutto, cioè io non so niente di me. Poi riparte: Segni o stelle? Condanne o aurore? Ciò che vogliono resta là indietro, tutto ignoto, cioè le lacrime – vi lascio questa espressione - sono un Sacramento. Cos’è un Sacramento?  È una realtà che si vede (il pane, il vino, l’acqua, l’olio, il crisma), però non è quello: quello è il segno, ma il Sacramento è dentro il segno, è dietro il segno, e tu, attraverso la porta del segno, arrivi al Mistero. Anche le lacrime restano tutte là indietro, tanto che, alla fine, non so neanche se si chiamino così: lacrime?

Tu non le puoi vedere…

I. Albeniz

Asturias

***

Come vedete, siamo in pieno tema, perché gli autori sono spagnoli e ci riportano anche le risonanze, i suoni, i colori della Spagna. Questa poesia, ancora di Salinas, viene subito dopo la prima.

 

Se tu sapessi che questo

enorme singhiozzo che stringi

fra le braccia, che questa lacrima che asciughi

baciandola,

vengono da te, sono te,

dolore tuo mutato in lacrime

mie, singhiozzi miei!

Allora

non chiederesti più

ai cieli, al passato,

alla fronte, alle carte,

perché soffro, che ho.

E tutta silenziosa,

con quel grande silenzio

della luce e del sapere,

mi baceresti ancora,

e desolatamente.

Con la desolazione

di chi non ha vicino

un altro essere, un dolore

altrui; di chi è solo

ormai con la sua pena.

E vuole consolare

in un chimerico altro,

il gran dolore ch’è suo.

 

Tanti anni fa ho commentato queste poesie, la notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo, nell’esperienza di Gesù nell’orto. Cosa dice in più, rispetto alla prima, che era un meraviglioso testo sulla descrizione delle lacrime? In questa seconda lirica sulle lacrime (adesso è a lei che è rivolta la poesia), Salinas è come se dicesse che tu hai visto piangere Gesù e ti sei avvicinato pensando di poterlo consolare (è bello se, qualche volta, anche noi nella preghiera diciamo: vivo quest’ora di adorazione per consolare Gesù abbandonato, Gesù solo nell’orto), ma vieni a scoprire che sta abbracciando il tuo dolore, cioè non piange per sé, ma piange per te. È in questo cambiamento tutto il fascino di questo testo. Quindi, è inutile che mi abbracci pensando di consolarmi, perché non hai capito niente: qui il dolore non è mio, il dolore è tuo. Questo che, a volte, è vero nel dialogo lui-lei, nel dialogo dell’amore, lo è ancora di più quando noi consideriamo le lacrime di Gesù, che è il testo che fa un po’ da riferimento alla nostra esperienza di stasera: Gesù perché piange? Forse perché è sconsolato?, perché è di cattivo umore?, perché è in procinto di morire? È una lettura piuttosto superficiale, immediata, secondaria… Gesù piange le lacrime che Gerusalemme non riesce a far uscire, Gesù piange sull’aridità degli occhi di Gerusalemme, cioè su un dolore che Gerusalemme vive e di cui non ha coscienza. Allora, questo dolore diventa il dolore del Redentore. In fondo, questo significa, nella teologia del Triduo Pasquale, che Cristo è morto per i nostri peccati. Noi, a volte, lo intendiamo solo sul piano morale, ma dobbiamo intenderlo anche sul piano dell’esperienza del male in sé, prima del giudizio: un’esperienza che dovrebbe farci piangere e, invece, noi passiamo piuttosto spensierati accanto all’esperienza del male (sto parlando del nostro male personale, sto parlando di cosa significa il Salmo 50, di quante lacrime ci siano nel Miserere). E tutta silenziosa – dice a lei – con quel gran silenzio della luce e del sapere… Forse che la luce fa chiasso, quando si poggia sul davanzale? - dice David Maria Turoldo in un suo testo. Forse che il sapere è roboante? Non è silenzioso? So una cosa: sta qui, nella mia mente, non fa chiasso, non si agita, non si dimena… E tutta silenziosa, con quel gran silenzio della luce del sapere, mi baceresti ancora, e desolatamente. Adesso è cambiata la prospettiva: non sto più a consolare Gesù che sta piangendo, ma mi sono reso conto che Egli è uno specchio del mio dolore, della mia depravazione e della mia disperazione. Con la desolazione di chi non ha vicino un altro essere, un dolore altrui; di chi è solo ormai con la sua pena, cioè tu stai abbracciando non un altro, ma stai abbracciando te stessa addolorata. E vuol consolare in un chimerico altro, il gran dolor che è suo. Ci sono delle sfumature: qualcuno di voi, magari, raccoglie solo l’aspetto immediato, che è quello di un dialogo d’amore, e già sarebbe tanto avere questa sensibilità che l’altro piange per me e non per sé, che l’altro piange su di me e non sulla sua sorte; altri “più su” coglieranno il dolore di Dio, che è il dolore dell’uomo diventato insensibile. Forse, in questa cultura nella quale siamo immersi - che è la cultura del superamento del dolore - rischiamo di diventare insensibili tutti, cioè nessuno più resiste ad un piccolo dolore e, quindi, chiediamo ai medici, continuamente: “Ho questo male: cosa devo prendere? Mi prescriva…”. E poi: che i bambini non soffrano!, che non piangano!, che non si disperino!, che non abbiano ad attendere più di qualche istante quello che chiedono! Alla fine, in questa cultura - la nostra - del rifiuto del dolore, finiremo con il diventare del tutto insensibili, perché se non c’è dolore, non c’è pianto. Insensibili rispetto a quello che io sono e a quello che non sono, a quello che io sono concretamente in negativo e a quello che non sono, a quello che dovrei essere e non sono ancora, e questa distanza non mi lacera più, non mi fa soffrire. Attenti a chiedere qualcosa in più a un giovane, oggi! Attenti se un prete, dall’altare, vi indica una meta un po’ più alta! Immediatamente lo accusate - Vescovo compreso (mi riferisco all’omelia dell’altra sera) - di essere il Savonarola di turno, redivivo, perché non si chieda più di tanto, mi raccomando! Ma così, al di là degli aspetti di fede, finiamo nella piattezza più assoluta e, allora, capiamo anche perché i nostri giovani uccidono con una spietatezza di cui non riusciamo a renderci conto, ma che null’altro è che la condensazione e la realizzazione della nostra pedagogia. Io ho scritto qui sul foglietto “Pedagogia delle lacrime” e, probabilmente, avreste dovuto già bocciarmi in cuor vostro, perché si può mai imparare qualcosa dalle lacrime? Ovviamente, la mia risposta è sì, ma la vostra è no: bisogna rifuggírle, bisogna suonare i timpani, bisogna ballare, bisogna farsi mordere dalla tarantola e ballare la tarantella. Oggi nessuno dice “Non ci resta che piangere”, ma “Non ci resta che ridere”, e anche quando ci veniva proposto dal grande attore, in fondo era per ridere.

Vi rendete conto che il discorso è fatto di balbettii, è fatto di chiazze di colore, è fatto di allusioni, perché come si fa a tessere un discorso sulle lacrime? Ma io sto facendo un tentativo innanzi tutto per me (si parla innanzi tutto per sé), ma anche per voi o per qualcuno fra voi, perché Gesù che piange diventi specchio di un dolore che io non ho e che voglio chiedere. Quando noi chiediamo il dolore dei peccati (anche questo, per alcuni, è un termine medioevale) vogliamo dire che è possibile vivere una dimensione negativa senza accorgersene, senza provarne alcun rimorso. I delitti efferati dei nostri giovani sono frutto degli analgesici o di una società analgesica, cioè senza dolore, senza lacrime: se si può uccidere una madre, una nonna, solo per una sciocchezza, o per prendere cento euro, allora gli analgesici ci hanno ucciso. Ovviamente, non credo che siamo arrivati a questo punto, ma a volte dipingiamo a tinte fosche l’orizzonte per dire: attenti, forse il dolore è vita, forse sono importanti anche le lacrime.

Se tu sapessi…

F. Tarrega

Recuerdos de la Alhambra

***

Il brano da sogno che abbiamo ascoltato, di Tarrega, ci ha portati molto in alto. Prima, Gianluca diceva: Tarrega è come lo Chopin della chitarra, cioè è l’autore romantico della chitarra, è il corrispettivo di Chopin per il pianoforte.

Questi due testi sono del maestro della generazione precedente a Salinas: Jiménez.

 

Notturno

(J.R.Jiménez)
La mia lacrima e la stella
si toccarono, e in quel momento,
divennero una sola lacrima,
una sola stella.

Rimasi cieco, rimase
cieco, d'amore, il cielo.


Fu tutto il mondo - e nulla più-
pena di stella, luce di lacrima.

 

C’è un gioco di parole, di immagini che si incontrano, che è come se diventassero sinonimi qui, nel vocabolario del poeta. Perché questo corrispettivo “lacrima-stella”? Perché una lacrima può toccare una stella e una stella può toccare una lacrima? O perché una lacrima può essere una stella e una stella può essere una lacrima? L’una e l’altra esprimono un che di prezioso che risplende. Risplendono anche le lacrime: ci sono dei volti, degli occhi lucidi, dei volti rigati di lacrime di una bellezza infinita… Spero che il mio parlare serva a questo: a evocare delle immagini in ciascuno di voi. Immaginate il volto di una persona amata che avete visto anche con gli occhi lucidi o, addirittura, mentre scorrevano queste stelle sul suo volto (volto-lacrima, stella-cielo). La mia lacrima e la stella si toccarono: è un pianto notturno, tant’è che il titolo è “Notturno”; è una lacrima serale o una lacrima notturna, forse per uno che non torna o per una che non si presenta o è andata via. In quel momento divennero una sola lacrima, una sola stella: questa coincidenza non è solo temporale, ma è anche di preziosità (preziosa la lacrima, preziosa la stella; luminosa la lacrima, luminosa la stella). Questa lacrima che scende depaupera l’occhio e la persona (rimasi cieco): anziché farmi vedere meglio (le lacrime irrorano l’occhio perché possa vedere meglio, si vede meglio tra le lacrime, lo sappiamo anche per esperienza), depaupera la persona perché è un dolore che si è condensato. Quindi, è come se questo poeta amante, all’atto in cui la lacrima scende, si accecasse. Ma poiché la lacrima è la stella, è diventato buio anche il cielo: cieco l’amante, cieco il cielo. Alla fine, dopo questa sofferenza, ci aspetteremmo una conclusione dolorosa, pesante, e invece abbiamo un verso meraviglioso: Fu tutto il mondo - e nulla più - pena di stella, luce di lacrima, cioè quello che mi ha inizialmente depauperato, rendendomi cieco, in realtà mi fa vedere di più, mi fa vedere oltre, mi fa vedere quello che non si vede. E la stella sembra esser caduta come il pianto di cui parla il Pascoli: questa stella è diventata pena. Allora, la stella che brilla raccoglie la pena di quest’uomo amante e la lacrima che scende raccoglie la luce della stella: sono identiche. Fuori di questa lacrima e di questa stella non esiste più nulla. È una suggestione, attenti, è solo una suggestione, ma è anche un grande poema, una grande visuale sul piangere.

L’altra, senza titolo, è sempre una poesia d’amore, anche se questa ha una più immediata applicazione spirituale:

 

Terso verrò da te come la pietra del ruscello

lavato nel torrente del mio pianto.

Aspettami tu, limpida

come una stella dopo la pioggia,

la pioggia delle tue lacrime.

 

Non vi sto spingendo a una semplice riflessione di “piacere d’udito”, ma a un’alfabetizzazione delle lacrime: stavolta, piangono lui e lei prima di incontrarsi. Lui va come una pietra resa liscia dallo scorrere del ruscello, che si è levigata attraverso un mare di lacrime; lei viene dalle sue lacrime, come una stella dopo la pioggia. Ovviamente, è un’illusione ottica: non riguarda la stella, ma il purificarsi dell’atmosfera che mi fa vedere la stella. Ma per i poeti questa spiegazione è quanto mai irrisoria, perché la scienza ci dice poco. I significati li diamo noi e, se noi diamo significati, allora ho bisogno di lavarmi di più nelle lacrime. Ecco, questo è il messaggio. Da quanto tempo non ti lavi? Non è un’indicazione di igiene, ma un’indicazione d’amore: da quanto tempo non sei pietra nel ruscello di lacrime e noi sei stella che brilla di più dopo la pioggia? Nel messale antico c’era un formulario della messa per chiedere il dono delle lacrime, anziché far dire una messa per… Nessuno di voi farebbe una richiesta del genere, ma esprime molto bene il senso della purificazione. Allora, mettete insieme queste due poesie (l’autore è lo stesso: non a caso tornano le lacrime e le stelle): la prima, per vedere quanto una stella possa soffrire e una lacrima possa essere luminosa, e la seconda, per chiedere questo dono. Forse se si piangesse di più, le cose andrebbero meglio. Mi viene in mente Peppe, che mi ha consegnato un testo che fa al caso nostro: è la Sesta Stazione di una Via Crucis poetica.

 

Dove grondava sangue e sudore,

dove le spine rompevano l’antica alleanza

apparve un fazzoletto, un lampo

di lino e di sostanza

e gli occhi pietosi sciolgono le montagne,

sciolgono le foreste di asfalto;

il cadere del verbo,

lo schiocco del loro silenzio,

il guardarsi nel fulmine sono

dentro il panno, in un panno di carità:

in un attimo solo i gesti di pietà

si congiungono in un appello supremo

contro il vuoto della bestemmia.

 

Ho voluto richiamarla soprattutto per: e gli occhi pietosi sciolgono le montagne. Bravo, Peppe: questo è un verso bellissimo! È possibile sciogliere una montagna? Quale elemento riuscirà a decalcificare un monte e - qui c’è un’immagine ancora più violenta - le foreste di asfalto? Le lacrime. Per questo le chiediamo.

F. Tarrega

Capriccio arabo

***

Questo tocco così dolce ci invita a parlare ancor più sottovoce. “Preghiera” di Antonia Pozzi è sullo stesso tema, anche se è l’unico testo veramente rivolto a Dio, ma, come sapete, noi volgiamo tutto a Lui, anche quello che è stato scritto per altri motivi.

 

Preghiera

(Antonia Pozzi)

Signore, tu lo senti
ch'io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch'io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch'io riviva.

Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch'io tenni nel cuore
tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l'acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota,
cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch'io riviva.

 

Qui abbiamo le lacrime per un’assenza: stavolta, non di un uomo, di una donna, di un amico, di una terra amata, ma di Dio. Si può piangere perché Dio non c’è? Forse ricorderete l’ultima scena del “Francesco d’Assisi” della Cavani, in cui Francesco si dispera perché Dio non gli parla (Perché non mi parli?), come qualche volta accade anche a voi, immagino: quando l’altro o l’altra non vi rivolge lo sguardo o la parola, vi disperate chiedendo perché. Qui abbiamo la descrizione poetica di uno stato di aridità spirituale, di una fede essiccata, di un deserto che, a volte, il credente è chiamato ad attraversare, espresso tanto più drammaticamente quanto più conosciamo la fede drammatica di questa poetessa, Antonia Pozzi, finita suicida (ma questo non toglie nulla alla sua grandezza e anche alla grandezza della fede). Quindi, è l’esperienza di chi, in passato, ha vissuto una comunione, un sentire, un acconsentire, un abbraccio, ha vissuto una vita spirituale intensa e adesso si ritrova del tutto svuotata: è questo il senso della poesia. Non ho voce più per ridire il Tuo canto segreto: ho cantato in altre poesie, in altri momenti, l’amore di Dio, la lode per le creature, per i tuoi cieli, per le tue nuvole consolatrici, ma adesso, per tutto il pianto che sto versando, dammi una stilla di Te. Non vuole un’esperienza, una rivelazione, non vuole una trasfigurazione: vuole una parola. A volte, noi chiediamo a Dio questa parola, chiediamo a Gesù: “Dimmi una parola, dammi un segno…”, che non è una cosa strana nella vita spirituale. Il tempo della comunione è descritto meravigliosamente: perché Tu sai, Signore, che in un tempo lontano anch’io tenni nel cuore tutto un lago, un gran lago, specchio di Te. Qui mi viene in mente, per assonanza, un’espressione di Turoldo che dice: “Davanti alla croce fai del mio cuore un lago di pianto”, ma questo testo ve l’ho risparmiato nella silloge che ho messo qui, anche se andrebbe richiamato. Antonia ha vissuto l’esperienza di un lago. Immaginate un lago, ovviamente tranquillo, che rispecchia il cielo, azzurro come il cielo, limpido: è l’esperienza della giovinezza, è l’esperienza dell’imprinting della fede. Ma tutta l’acqua mi fu bevuta e, quindi, quello che era un lago, adesso è un cratere, caverna vuota, cieca di te. È una donna che vive, come si dice in termini tecnici, la notte dello spirito, di cui sono maestri Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce e che ha vissuto anche Madre Teresa di Calcutta. A volte, ci sembra che le suore e i preti stiano continuamente in viaggio di nozze (Beati voi che state sempre nel tempio e sempre cantate le lodi di Dio!), ma l’esperienza è un po’ diversa, perché Dio, che chiama alcuni a svolgere un ruolo di vicinanza, non per questo si concede loro più a “buon mercato” di quanto non accada a voi. Ho voluto che leggessimo questo testo, perché ci sono le preghiere disperate degli atei. In questo momento, questa è la voce degli atei, ma non degli atei “altro da noi”, ma dell’ateo che è in me: non solo è la disperazione di chi è senza Dio, ma anche di chi, pur vivendo la vita liturgica, pur pregando, vive la percezione dell’assenza di Dio. Voi vi starete chiedendo: ma perché Dio fa così? E la risposta è: perché questa stella possa risplendere di più, perché questo ciottolo possa essere più levigato, perché la santità possa risplendere. Non ci sono sconti per nessuno, state tranquilli: né per voi, né per noi; anzi, forse per noi che investiamo tutto nell’assurdo di Dio, può esserci anche - e non voglio scoraggiare i seminaristi presenti stasera - un supplemento di aridità, un supplemento di prova rispetto al Dio che c’è, che è così presente da essere assente. Spero che quello che ho detto, vi aiuti a leggervi nell’anima, perché queste cose le vivete anche voi: tempi duri, tempi di attraversamenti.

Signore, tu lo senti…

M.Llobet

El testament d’Amelia

***

Il tempo è sempre nemico e, quindi, dobbiamo un po’ riassumere. Piccolo saggio delle “lacrime delle cose”: innanzi tutto, nel famosissimo verso di Virgilio - sunt lacrimae rerum - cioè soffrono solo gli uomini? O soffrono anche le cose? O c’è un dolore – come dice Pessoa – anche in una stella? La risposta dei poeti è stata univoca su questo tema; essi, più di altri, hanno percepito una sofferenza nelle cose. Qui ci sarebbe da fare riferimento a Romani 8 (che spero, per voi, significhi qualcosa), quando Paolo dice: La creazione stessa geme e soffre nelle doglie del parto. Sentiamo questo rumore del magma nel cuore della terra, nei vulcani, queste orbite velocissime degli astri come un grande parto, ma un grande parto presuppone un grande dolore. Allora, anche il vegetale, il rametto che io stacco ha la sua goccia di linfa: è una lacrima. Ancora più semplice è vedere le lacrime negli occhi lacrimosi degli animali. Chiunque di voi abbia a casa un gattino o un cagnolino, sa quando piange, sa quando soffre.

Fa eco, a questo verso di Virgilio, il Pascoli, in una poesia che vi ho risparmiato, dandovi solo la strofa che a noi interessava. La poesia è “Nebbia”:

 

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che danno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

 

È un’invocazione: che questa nebbia cancelli! In questi giorni, ne abbiamo avuta in abbondanza qui a Teano. La nebbia, sulle prime, sembra un po’ coprire e opprimerci, ma invece qui il poeta la invoca, come se non volesse vedere questo dolore.

Nascondi le cose lontane: le cose sono ebbre di pianto! Quando Quasimodo scrive alla madre del rumore del freddo sulle cortecce degli alberi gonfi di pioggia, intende questo: il dolore delle cose, il dolore cosmico. Questo non per drammatizzare, ma per dire che siamo in un quadro di pianto. Le cose sono ebbre di pianto, si sono ubriacate di pianto e, allora, se c’è il dolore cosmico, non è per amplificare il nostro dolore, ma per dire, secondo il testo di Romani 8, che andiamo verso un parto, che c’è qualcosa di nuovo che il Signore prepara: una primavera?

R. Falvo

Dicitincello vuje

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Non c’eravamo messi d’accordo, perché il programma musicale l’hanno stillato Gianluca e Maria Teresa, ma torna nel nostro discorso anche questo testo, ovviamente nella meravigliosa riduzione per chitarra: Dicitincello a 'sta cumpagna vosta… Ai giovani mancheranno questi elementi - mi dispiace per voi - ma ovviamente io parlo a quelli a cui questo testo dice qualcosa. È la lacrima che poi, alla fine, svela che è a te che voglio dire: “Ti voglio bene, te voglio bene assaje”. Innanzi tutto, c’è anche una sorta di pudore nel voler dire all’altra “mi sono innamorato di te” e, allora, si sceglie la compagna per scherzo, per pudore (e speriamo che ce ne sia ancora…):

Dicitincello a 'sta cumpagna vosta                                    
ch'aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia

ch''a penzo sempe,                                                   

ch'è tutt''a vita mia...                                               
I' nce 'o vvulesse dicere,                                             
ma nun ce 'o ssaccio ...           

Poi lei piange e perché piange? Perché, a sua volta, lei è innamorata di lui, ma adesso lui le sta parlando dell’amica di cui lei deve farsi tramite:

Na lácrema lucente v'è caduta...                                     
dicíteme nu poco: a che penzate?!                                    

Cu st'uocchie doce,                                                   
vuje sola mme guardate...                                             
Levámmoce 'sta maschera...                

Questa è la “sceneggiata” napoletana, però è bella, perché ci dice che la lacrima rivela. Se non ci fosse stata la lacrima, poteva diventare una tragedia greca, perché lei si sarebbe uccisa perché lui ama un’altra, e lui, vedendola uccisa, a sua volta, sarebbe morto. Quindi, è la lacrima che salva, è la lacrima che svela, è la lacrima che dice: “Ci tengo, mi stai a cuore”.

Quest’ultimo testo non è firmato, perché è di una persona presente e, allora, poiché l’ho messo qui senza chiedere il permesso, mi sono guardato bene dal mettere la paternità. È molto delicato sul pianto eventuale di una monaca di clausura, che adesso voi pensate come le capinere. Invece, la nostra autrice dice:

 

Una monaca ha gli occhi pieni di pianto

senza aver pianto.

Questa è la clausura,

ragazzo,

un grembo delle cose mai vissute.

Tutti i pensieri che pensi

tutti i baci che dai

tutto quello che vedi

va in deposito in quella banca dei sorrisi

e loro custodiscono ciò che non conoscono

ed è per questo che lo covano strette

senza curarsi delle spine.

 

Brava!, direi a questa autrice sconosciuta, per la percezione di cosa sia la clausura: un grembo - sono donne - che accoglie cose mai vissute. Quindi, una monaca piange di più senza aver pianto (ma probabilmente ci sono anche dei loro pianti personali) ed è bella la percezione che si possa depositare là, quello che io vivo e che rischio di perdere, se loro non accolgono. È bellissima l’immagine conclusiva: Covano strette senza curarsi delle spine. Covano ciò che io vivo: i miei baci, i miei sorrisi, quello che io vedo e che loro non vedono. Covare strette, perché fanno lega tra loro, si collegano, fanno comunità. Covano senza curarsi delle spine, perché quello che diamo da covare loro non è tutto oro, ma è anche dolore. Ma questa femminilità, aperta come un grembo universale, accoglie anche quello che per noi è doloroso.

Ho voluto inserire questo testo per dire che il Vescovo è attento alle produzioni poetiche del suo territorio. Quando non ci saranno più i poeti, ci suicideremo tutti, perché a stare ad ascoltare gli economisti e i sociologi, veramente non si salverà nessuno nel giro di poco tempo. I poeti, come le monache di clausura, covano la speranza. Dice un filosofo del Novecento: qual è il compito dei poeti in questa epoca di disorientamento? È quello di tenere desta la memoria della patria perduta, cioè restare incantati, attraverso le loro parole, per dire che è ancora possibile. Spero che questo itinerario che abbiamo fatto, tra musica e poesia, sulle lacrime, possa aiutarvi a dire: c’è ancora speranza. Vi affido la frase di un salmo: Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli, cioè non c’è una lacrima che andrà perduta (pensate alle lacrime dei vostri genitori, alle lacrime dei morenti, dei moribondi, che abbiamo raccolto): forse, ci salveremo per le nostre lacrime.

Prima dell’ultimo pezzo, spegniamo le luci e diciamo una decade di Rosario in penombra, mentre si illuminano le vetrate alle mie spalle.

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Ho voluto inaugurare con voi - sono state montate appena ieri - queste vetrate. Ovviamente, non le gustate in tutta la loro bellezza, perché hanno bisogno della luce del sole, ma ho voluto inaugurarle con voi che utilizzate questa sala per concerti, riflessioni e preghiera, anche per dire – e, sicuramente, la considerazione qualcuno di voi l’avrà fatta – che in questo tempo in cui nessuno compra niente, il Vescovo continua a comprare. Ecco, anche questo, se volete, è un messaggio. Anche la follia che mi appartiene da sempre - non l’ho contratta qui a Teano, state tranquilli! - di rendere un ambiente sempre più bello, può essere un segno per dire: c’è futuro, ci sono ancora delle persone che guardano con ottimismo la vita.

 

Benedizione del Vescovo

 

Ascoltiamo l’ultimo brano, uno Studio di Gianluca, e poi diremo il nostro grazie con l’applauso conclusivo. Forse molti di voi hanno riscoperto la chitarra stasera: non è solo quella dei “metallari”, ma è anche quella che piange, che racconta sottovoce, che bisbiglia e che evoca delle immagini dolcissime.

G. Barberis

Studio n°1

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Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.