In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 20 maggio 2010

Salone dell’Episcopio

 

“Corsa di Pasqua

Pasqua di corsa”

 

 

Pianoforte: Raffaele Mormile

Fisarmonica: Nicola Mellino

~

 

È sempre un viaggio, quello che compiamo in questi nostri incontri, pur stando fermi: è un viaggio nell’arte, un viaggio nella fede, un viaggio anche nel rimettere in moto riflessioni che, altrimenti, rischiano di cadere; è come dare un colpo d’ala alla nostra vita che rischia di appesantirsi di tanti aspetti.

Questa sera abbiamo un duo di pianoforte e fisarmonica: un abbinamento un po’ strano, fuori del consueto, ma anche questo è un segno.

Nel nome del Padre…

 

Tango pour Claude

R. Galliano

 

 “Corsa di Pasqua. Pasqua di corsa” è il titolo del nostro viaggio di stasera. Questa immagine, che è alle mie spalle e che è riprodotta in bianco e nero sul foglietto, ci accompagnerà.

Lascio a questa prima riflessione lo spazio delle domande – mie, ovviamente – e la prima domanda è: a cinquanta giorni dalla Pasqua, che ne è della Pasqua? Domenica prossima celebreremo la Pentecoste, che è il compimento della Pasqua, la pienezza, e possiamo averla persa per strada.

La seconda domanda è: ma la Pasqua può essere alle nostre spalle? La Pasqua di quest’anno è passata e, forse, ce ne sarà un’altra l’anno prossimo: può essere, la Pasqua, alle spalle del credente?

La terza domanda è: che sforzo facciamo noi credenti per passare da una riflessione popolare della Pasqua ad una riflessione alta? Noi non abbiamo nulla di più prezioso – e, su questo, spero di sfondare una porta aperta con tutti voi che non siete alle “prime armi” – perché se noi cristiani abbiamo qualcosa da dire, nella storia, questa cosa è la Pasqua. Il resto, non dico che sia di contorno, ma certamente è secondario rispetto al messaggio pasquale.

Si evidenzia subito, però, che di Pasqua, al centro, ce n’è ben poca nelle nostre vite e nelle vite delle nostre comunità parrocchiali; non diciamo nella vita delle persone lontane, perché sarebbe chiedere troppo, ma già solo nelle nostre vite Pasqua è piuttosto ai margini. Allora, questo sforzo, che il Maestro Mellino sta compiendo, di sdoganare la fisarmonica da quell’atmosfera di festa di paese della musica folk, in fondo, se ci pensate, dev’essere anche lo sforzo del credente.

Mentre ascoltavo questo primo brano, mi sono venuti in mente dei ricordi e sono dei ricordi, più che musicali, letterari della fisarmonica. I miei ricordi letterari della fisarmonica sono legati ai miei 18 anni, quando mi immersi, come un innamorato, nei romanzi di Grazia Deledda. Ovviamente – sono un decadentista anch’io – non è una grande scrittrice, ma non c’era romanzo dove non ci fosse una descrizione di una fisarmonica che faceva piangere, che rendeva lucidi gli occhi delle persone, che era un richiamo, perché poi il senso struggente di nostalgia, lo strumento ce l’ha proprio come tonalità, gli appartiene. Come c’è lo sforzo di sdoganare, da un ambiente medio-popolare, la fisarmonica, portandola a strumento da concerto, così anche noi dovremmo riuscire a sdoganare la Pasqua da quegli aspetti, anche secondari, con cui viene vissuta, per portarla ad un piano di riflessione più alto e questo piano è il concerto. Ecco perché, benché voi pensiate che la Pasqua ormai sia passata, il Vescovo ve la ripropone, questa sera, in modo tale che la Solennità di Pentecoste ci trovi un tantino più svegli e più attenti, a dire: ma, forse, sto ancora a strimpellare la Pasqua, mentre è uno strumento da concerto, mentre è la cosa più alta, più bella, più luminosa, più entusiasmante che faccia parte dello scrigno della nostra fede.

Ecco, mi fermo qui, con queste domande (se uno comincia con le domande, allora riesce anche, eventualmente, a interessare): che ne è della mia Pasqua, della Pasqua di quest’anno?, dov’è?, è avanti?, indietro?, è una nostalgia? È un’attrazione, come questo quadro esprime plasticamente, immediatamente, anche alla persona più sprovveduta.

La mia Pasqua è al centro o è un elemento coreografico? Ed è una Pasqua popolare, nel senso deteriore del termine (c’è un aspetto popolare anche bello e “onorevole e degno”), o è una Pasqua alta?, è uno strumento per una festa di paese o uno strumento da concerto?

 

Il postino

L. Bacalov

 

Dal Vangelo di Giovanni (20, 1-9)

 

1 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava [Giovanni], e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!". 3Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Questo brano l’abbiamo ascoltato il mattino di Pasqua, nella celebrazione eucaristica, ed è certamente il brano più articolato intorno alla Pasqua. Tutti i vangeli pasquali sono allusivi, più che dei racconti, perché non c’è la scena che inutilmente i pittori hanno cercato di descrivere: se ci fate caso, non esiste una scena di Resurrezione che sia veramente bella nella storia dell’arte. Inutilmente hanno cercato di descrivere ciò che nessuno ha visto! Piuttosto si tratta di segni lasciati da qualche parte che bisogna decodificare, che il credente è chiamato a impastare, intorno cui deve fare dei ricami di fede, di riflessione, di preghiera, perché – vi dicevo – sono brani allusivi. Allora, questo mette anche una certa curiosità, perché questo Vangelo che abbiamo appena letto e che avete sul foglietto, dice di donne che vanno – e questa è una scena classica – perché il Vangelo della Pasqua è innanzi tutto femminile (ho dedicato uno di questi nostri incontri alla dimensione della donna nei vangeli della femminilità); solo in seconda battuta diventa un Vangelo maschile. Sono le donne che corrono da Simon Pietro portando, non l’annuncio della Pasqua, ma l’annuncio di un furto: Hanno portato via il Signore! Maria Maddalena corre. Pietro e Giovanni corrono.

Il primo aspetto su cui vorrei fermarvi con voi è la dimensione della corsa a cui noi normalmente diamo una connotazione negativa, perché ognuno di voi si lamenta: Andiamo sempre di corsa! Corriamo e non possiamo mai fermarci! (Spero che queste nostre esperienze in Episcopio costituiscano una sorta di pausa) Stavolta la corsa non ha una connotazione negativa, ma in questa frenesia di donna (Maria Maddalena), di uomo (Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro), c’è la Pasqua. Pasolini – mi sembra di avervelo già citato una volta – nel “Vangelo secondo Matteo”, descrive così la Pasqua (se ricordate questa pellicola in bianco e nero): i discepoli corrono all’impazzata e mandano all’aria mercanzie (perché attraversano il mercato), danno spintoni alle persone… È un modo molto aderente al Vangelo di descrivere quello che è accaduto e che nessuno ha visto: la Pasqua mette questa frenesia. Allora, una dimensione troppo lenta, una “non fretta” può essere, alla luce della corsa dei protagonisti del Vangelo della Pasqua, una attestazione di stanchezza nella fede.

Noi corriamo? Il primo verso del Cantico dei Cantici è: Alzati, corriamo!, perché l’amore corre. Vi ricordate quando eravate fidanzati? Vi ricordate quelle esperienze segnate di verginità – parlo di una verginità mentale e del cuore, ovviamente – dove la scoperta di un amore metteva il cuore a mille? Allora, ho fatto questo accostamento col Cantico perché “Alzati, corriamo!”, incipit del Cantico dei Cantici, è anche esperienza della Pasqua: c’è gente che corre. Voi ne vedete di gente che corre nelle nostre parrocchie, nella nostra Diocesi, nelle nostre famiglie cristiane? Tutti molto ben compassati, piuttosto stanchi, tendenti al depresso – direi così, per fare un quadro – mentre la corsa richiama un’altra età, richiama un’altra dimensione di vita, che è quella della giovinezza, non la giovinezza cronologica, ma quella che dovrebbe far parte della vita di un credente: un credente dovrebbe correre, perché ha tante cose da dire, tante cose da fare, perché “il tempo è breve”, e ha in mente, in cuore, di raggiungere il maggior numero di persone, perché quello che egli ha da dire è causa di gioia per tanti. Questo è il motivo della corsa, che è il motivo dell’amore che corre: inutilmente voi cercherete di mettere il freno ai vostri figli innamorati, come d’altra parte i vostri genitori hanno cercato inutilmente di mettere il “silenziatore”, la “sordina” quando eravate innamorati, perché l’amore corre. Allora, se l’amore corre e noi andiamo lenti, questo dice qualcosa sul nostro amore; se l’amore corre, precorre, la fede è in questa corsa. Se ci fate caso, purtroppo – e lo dice un Vescovo – la Chiesa rischia di rincorrere il mondo e di essere sempre un po’ più dietro. Il senso della Pasqua è l’esatto contrario, cioè dovremmo essere noi ad andare avanti e gli altri a cercare di rincorrerci (Fermatevi!, perché avete delle cose importanti da dire!). Vedete, questa cosa ci condanna tutti, cioè noi cerchiamo di rincorrere, siamo affannati, e si arriva sempre tardi, quando la gente è andata via (parlo di tempi). E quando una coppia – voi me lo insegnate – non è armonizzata sui tempi è una tragedia, perché quando arriva l’uno, l’altro già se n’è andato: c’è una divaricazione di tempi. Questo, purtroppo – e non da oggi – accade nel rapporto Chiesa-mondo. Dovremmo essere noi a correre e gli altri a venirci dietro e, invece, i vescovi sono  affannati, i preti sono affannati, voi siete affannati, a cercare di… Ci siamo anche noi! Siamo arrivati! È troppo tardi: sono già andati via, è finita la festa. Avevi da dire una cosa importante per la felicità di quelle persone e se ne sono andate. Vi sto parlando in una maniera un po’ provocatoria, e diciamo un po’ descrittiva più che, per ora, veramente sistematica sul piano del pensiero, ma voglio trasmettervi cos’è la Pasqua: i due che corrono (e anche l’anziano che fa fatica a tenere il passo di Giovanni, gli sta dietro) e noi nelle nostre lentezze secolari, per esempio del “no, si è fatto sempre così!”. Questa è una parola d’ordine nelle famiglie, nelle parrocchie, nella Chiesa – Si è sempre fatto così! – quasi che siamo condannati a ripetere un rituale obsoleto, perlopiù, mentre ci sono delle emergenze, ci sono delle cose nuove da dire, o delle cose antiche da dire in maniera nuova. È quello che sto facendo poveramente io, raccontandovi la Pasqua con parole nuove, non vecchie, perché se voi usate parole vecchie, i vostri figli non vi capiscono – non è che non vi ascoltano: non vi capiscono – perché sono parole “fuori corso”, come monete fuori corso. Possono far parte di una collezione, ma non servono a comprare, non servono come scambio, non servono a essere presenti sul mercato.

Allora, amare è correre, l’amore è una corsa: se non corro più, non amo più. La fede è correre, è precorrere, è dire le cose prima degli altri, è esprimere sentimenti dinanzi ai quali gli altri dicono: “Ecco, è proprio quello che volevo dire e non mi usciva la parola! Mi hai tirato dalla bocca quello che io sto vivendo”. Questa è la corsa che va avanti e che, quindi, prepara dei fondali, apre degli scenari, arreda in una maniera nuova. Quest’aria nuova è l’aria di Pasqua, che noi invochiamo dopo cinquanta giorni.

 

Libertango

A. Piazzolla

 

Immagino che vi venga voglia di ballare, ma è il pensiero che deve farlo.

L’autore svizzero dell’Ottocento, che ha firmato anche – ma questo non gli fa proprio onore – delle banconote dell’epoca, è famoso per questo quadro in particolare, “Pietro e Giovanni verso il sepolcro”, dove è chiarissimo che i due vanno controvento: lo vediamo dagli abiti, dai capelli, dalle nuvole. Questo quadro trasmette lo sforzo di correre nella dimensione opposta, avendo degli agenti che frenano, e questa è la nostra condizione. Che cosa frena? Cosa frena la Pasqua? Adesso che ve lo dico vi scandalizzerete, perché vi sembrerà una bestemmia, ma è così: frena la Pasqua il vento di morte che ci struttura, il pensiero di morte che è nel DNA dell’uomo. L’idea della morte è l’idea che siamo di passaggio, che la nostra vita è un attimo, anche quando noi non lo tematizziamo, anche se la nostra cultura ha posto la morte ai margini perché non bisogna parlarne, non bisogna farla vedere… Anche oggi noi viviamo nel vento della morte. Il vento della morte dice: “È inutile che ti affanni e che corri!”. Il vento della morte cerca di fermare questa corsa.

Come sapete, Freud ha tematizzato molto bene questa presenza di Thanatos nella vita dell’uomo: Eros e Thanatos sono le grandi forze. È strano che insieme ad Eros, la forza della vita, ci sia anche un vento di morte dentro di noi – e c’è, c’è! – ed è il grande motore frenante della Pasqua, è il vento contrario a Pietro e Giovanni che vanno verso il sepolcro e che, in qualche maniera, sono come calamitati da una forza contraria, a dire: Ma dove andate?, dove correte?, chi pensate di essere? Voi siete mortali!

Questa cosa, cari amici, è la nostra condanna. Non vi sto consegnando la patente di immortalità, questa sera – anche noi moriremo – però è la nostra condanna perché a partire da questa percezione fisica, che noi abbiamo prima d’ogni elaborazione mentale, della morte, noi facciamo il minimo indispensabile. Sembrerebbe doversi realizzare la scena contraria (Ho poco tempo e cerco di fare molto) che in alcuni è presente, ma perlopiù questa percezione della morte che ci struttura ci scoraggia nel tentare l’impossibile, ci scoraggia nel costruire una casa più bella, ci scoraggia nell’allestire una mostra, perché diciamo: “Beh, in fondo sono un povero uomo, sono una povera donna…”. Quindi, questa percezione della mortalità, anche se non tematizzata, viene a tagliare le ali agli aspetti migliori di noi. Molti di noi qui presenti potrebbero fare cose molto più grandi, azioni molto più rischiose, mettersi per strade impopolari ma produttive per l’umanità e non lo fanno per questa sorta di morte ante mortem, perché è come se noi ci fossimo rassegnati (Che fa! Tanto finiremo…). È una morte anticipata. Ci sono tante persone che sono già morte perché non amano più – l’inferno è non amare più, ci ha ricordato Bernanos nella realizzazione del “Diario di un curato di campagna” – e si limitano al minimo indispensabile. A volte, questo è presente nelle case degli anziani, cioè si appesantiscono nell’arredamento, mettono le cose in una maniera disordinata, non si propongono per comprare un mobile nuovo: un anziano non lo penserà mai, perché ha mentalizzato che tanto non serve (Poi i miei figli lo butteranno…). Ecco, è un’idea di morte che frena una cosa bella. Questa riflessione è vera anche sul piano umano e, magari, se tra voi – non esiste – ci fosse un non-credente, dovrebbe dire: “Questo cretino che sta parlando sta dicendo una cosa saggia, anche se io non ho fede”.

Ancor più, questo vento di morte frena la corsa della Pasqua, perché la Pasqua è all’opposto della morte, di questa rassegnazione che abbiamo sulla mortalità, per cui diciamo: È inutile che m’impegno, tanto… È inutile che mi candido alla nomination degli Stati Uniti – per dire la cosa più folle che qualcuno di noi potrebbe fare – È inutile che io cambi l’arredamento… È inutile che io componga una canzone… È inutile che io scriva una lettera… E, quindi, pian piano, è come se ci ritraessimo – scusate questa immagine un po’ macabra, ma rende l’idea – stendendoci nella bara prima d’essere morti. Ci troveranno già belli, sistemati e composti: bisognerà mettere solo il coperchio! È tutto già pronto…

Ma non è questa la vita! Io, in un attimo – dico io, per dire tu, eh? – posso rivoluzionare tutto quello che ho fatto finora. Ci sono ancora cose da dire, ci sono ancora cose da raccontare, cose da scoprire, cose da vivere. Attenti, non è poesia quella che vi sto snocciolando, ma è la traduzione di questa corsa: corsa che fanno in due, Pietro e Giovanni, che rappresentano anche due età diverse. È normale che corra Giovanni – perché va in palestra, perché è giovane, perché è il discepolo che Gesù amava – ma non è normale che corra anche Simon Pietro, che è un po’ affannato, ma gli sta dietro. È possibile correre anche da anziani, è possibile correre e progettare anche nella maturità. Vi prego, non ci chiudiamo nelle bare prima del tempo.

Allora, che cosa frena la Pasqua? La Pasqua è frenata da una percezione di mortalità che ci schiaccia e che è una bestemmia concreta: noi quando viviamo così, bestemmiamo, perché, nonostante quello che voi pensate e che forse ci hanno anche un po’ inculcato, cioè che la vita di fede sembra una vita a metà, una vita diminuita – in diminuita, si dice in termini musicali – in realtà è la vita! Non è vero che la fede ti toglie: la fede ti dà, la fede è un eccitante! Non è il bromuro, non ti toglie le energie: te le esalta, te le dinamizza!

Guardando questo quadro e ascoltando questa musica che, come vedete, ci smuove anche, perché la musica ha anche la missione di fare “mulinello” nella mente, nel cuore, si agitano dei sentimenti. Abbiamo ascoltato due tango, ma ben vengano anche questi sound, questi ritmi, a far ricircolare il sangue che va nella mente e genera pensieri, va nel cuore e genera connessioni, perché la fede vera è questa.

Quando Carlo Marx diceva che la fede è l’oppio dei popoli, lui diceva la verità, perché era il tipo di fede, in una delle tante tradizioni della Riforma, di cui lui aveva fatto esperienza. Però, se dobbiamo dirla per intero, questa espressione non ci appartiene, cioè non appartiene alla fede cristiana nel suo aspetto invece dinamitardo, rivoluzionario, sovversivo, di rimpasto, di novità che si chiama Pasqua.

 

ERA DE MAGGIO

Di Giacomo – Costa

 

Dice il testo che i due correvano insieme – e il nostro pittore ha messo anche in evidenza questo fotogramma della corsa – ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro. Qui corriamo tutti, ma arrivano prima quelli che amano di più. Detto così, potrebbe sembrare una frase fatta – quelli che amano giungono per primi – in realtà, ha una sua profondità, una sua “falda acquifera” molto bella, limpida. L’amore arriva per primo, e mi riferisco anche all’aspetto simbolico del sapere, poco sottolineato, perché in qualche maniera siamo tutti ancora sotto l’egida dell’Illuminismo, ma chiaro anche nell’arte: l’arte – anche quella musicale – non è una spiegazione, un sillogismo (la principale, la secondaria e poi la sintesi), ma è un linguaggio simbolico, fatto di suoni, fatto di panorami, di immagini. Adesso abbiamo ascoltato  “Era de maggio” e ognuno di noi ha pensato a qualche maggio della sua vita. Io – confesso – ho pensato al mese di maggio di quand’ero bambino, quando si tornava a casa che era buio e c’erano le lucciole che rendevano il paesaggio fiabesco (adesso le lucciole bisogna andarle a cercare in qualche museo). Quindi, è un linguaggio evocativo, un linguaggio simbolico e il simbolo salta tutti i passaggi e arriva alla conclusione.

Poi arriverà anche Pietro: arriva anche la scienza, arriva anche la filosofia, arriva anche il ragionamento sistematico, ma ci sono delle intuizioni che l’amore rende fruibili in un attimo. Tra l’altro, il Vangelo di Giovanni, al capitolo 21, ci ripresenta Giovanni sulla barca, insieme a Simone; vivono una pesca miracolosa sotto le indicazioni di uno sconosciuto sulla spiaggia – l’abbiamo letto una di queste domeniche – e solo Giovanni dice: “È il Signore!”. Non lo ha visto: lo ha intravisto, lo ha visto il cuore. Il cuore vede, prevede, stravede, cioè ha una visione che fa giungere a certe conclusioni senza tutta la fatica – direbbe Hegel – del concetto. La “fatica del concetto” è un’espressione hegeliana, per dire questa macchinosità del pensiero che ha bisogno delle sue leggi, dei suoi riferimenti. Allora, se il discepolo che Gesù amava, che è anche il discepolo amante, giunge primo al sepolcro, non è perché è il più giovane, così come noi lo immaginiamo e anche come il nostro autore ha rappresentato, ma perché è l’amore: l’amore taglia sempre il traguardo.

L’esame di coscienza lo facciamo ascoltando il prossimo brano che è nuovamente di Piazzolla: Oblivion. Ma il mio arrivare tardi dice qualcosa sul mio cuore e sull’amore?

 

OBLIVION

A. Piazzolla

 

La Pasqua non è una corsa disordinata. Lo pensavo guardando lo sforzo “modellato” di mettere insieme il fiato con il suono. Una volta ve l’ho spiegato col violino, con l’arcata: c’è la nota e poi bisogna dosare l’arco, in modo tale d’arrivare, perché ad un certo punto finisce l’archetto e, quindi, la nota la tieni e dev’essere misurato il tempo della nota con la lunghezza dell’archetto. Questo richiede un’arte, perché c’è il suono, c’è il colore del suono – sto cercando di decodificare, ma molti di voi sono espertissimi – perché il suono non è solo uditivo: il suono ha anche una sua cromaticità e la cromaticità riguarda il concertista, altrimenti il suono sembra sempre lo stesso. Ma poi le esecuzioni dello stesso brano hanno colori diversi: lo stesso suono, ma cromaticità diverse. Questo dipende  da quel valore aggiunto della persona, che sta con l’archetto o con la fisarmonica, armonizzando il suono con il colore e con il fiato. Se fosse un tenore o un soprano, è lo stesso sforzo di tenere la nota, di dargli colore utilizzando il respiro; adesso c’è il respiro della fisarmonica. Non voglio assolutamente invadere il campo d’altri, ma questo concorso di forze dà il colore dell’opera d’arte, per cui anche questa corsa, che è la corsa della mia vita nella fede, questa voglia di annunciare la Pasqua, oltre e contro il vento della morte, ha bisogno di una sua armonia dove devo trovarmi a chiudere con il fiato al momento giusto. Non so se riesco a esprimermi in una maniera chiara… Non basta lo spartito.

“Gesù è risorto!”. Questa parola, sulla bocca di alcune persone, suona falsa come certe note fatte in una maniera pedante. È vero che è risorto, ma ci devi giungere con quel dosaggio di respiro, di luminosità degli occhi, di amore – perché l’amore arriva – di cromaticità, di respiro, per cui questo stesso annuncio, sulla bocca di uno sa di “poesia imparata a memoria” in una maniera pedante, e sulla bocca di un altro sa di annuncio pasquale. Dico questo per dire che poi non basta correre – che pure richiede un allenamento – ma c’è bisogno poi di armonizzare respiro e movimenti, d’armonizzare tutto un mondo che non emerge, ma che è sottinteso. Adesso io vi sto parlando poveramente, ovviamente, e molti di voi sono anche bravi oratori, bravi docenti, però sapete quanto di quello che diciamo è la punta di un iceberg che nasconde tutto quello che noi non diciamo. E quello che noi non diciamo, cioè quello che rimane sommerso, le parole non dette, sono nella parola detta come un valore aggiunto, come una luminosità ulteriore, per cui noi diciamo: “Questa parola mi sembra nuova!”. Così dev’essere la corsa della Pasqua.

Ho preso spunto da questo sforzo di mettere insieme la nota di Oblivion del grande Piazzolla e poi il colore: che colore gli diamo? Sembra che una fisarmonica valga l’altra – no! – e che un suonatore valga l’altro – no! – perché il colore ce lo dai tu. Allora, in Raffaele, in Nicola, questa sera, emergono delle cose che loro non diranno: sto parlando io, loro tacciono, loro suonano. Cosa emerge? La loro vita, le loro mogli (qui c’è Sara, la moglie di Raffaele), i loro figli, i loro sogni, i loro sforzi d’essere uomini oggi: cose che non si dicono, ma che emergono. E se dietro una parola c’è il vuoto, tu lo senti perché fa DENG come una moneta falsa. Le parole che fanno DENG o i suoni che fanno DENG non muovono, non commuovono e voi sareste usciti da questa sala indifferenti, appesantiti addirittura e, invece, può darsi che qualcuno ne esca rivoluzionario, ne esca desideroso di vivere.

Vi racconto questa cosa. Nel ’99 ho avuto un momento tragico della mia vita, fisico: ero a Milano, avevo subìto un intervento e facevo fisioterapia per riprendere vitalità al braccio. Ricordo che una sera andai a cinema da solo – cosa che non faccio mai – a vedere “La vita è bella”. Quando sono uscito (io non conoscevo nessuno, ma avrei voluto abbracciare qualcuno, parlare con qualcuno), ero nei dintorni del Duomo e c’erano quelli che facevano i ritratti: mi sono seduto e, benché avessi il braccio impedito, mi sono fatto fare un ritratto, perché per me quella sera era la vita, cioè quel film mi aveva dato una grinta…! Io spero che qualcuno di voi scenda e, trovando un pittore, dica: “Scusi, mi fa un ritratto?”. Sembra una follia… Quello col gessetto che cercava di farmi il ritratto, avrà detto: “Ma chissà questo chi è…!?”. Io ero uno, quella sera, reduce da un intervento chirurgico, che dopo aver visto quel film, voleva cantare la vita e quindi mi sono detto: “Mi faccio fare un ritratto!”, che è la cosa apparentemente più stupida, ma che dice voglia di vivere. Allora, quando dietro un suono c’è una vita, quando dietro una parola c’è un’enciclopedia, quando quello che diciamo è solo una piccola parte di quello che noi sentiamo, allora quella parola – Gesù è risorto! Pasqua – ha una risonanza. È come se io vi stessi dicendo che forse la Pasqua non ha un suo contenuto oggettivo? Ce l’ha, ma chi l’annuncia deve avere questo fiato grosso nel mantice della fisarmonica, altrimenti esce un suono striminzito che non conosce nessuno. Chiediamo al Signore, questa sera, d’averlo, questo mondo sommerso, enorme. Potremmo scrivere enciclopedie e, invece, balbettiamo poche parole, ma chi ci sente o chi ascolta la nostra musica sente anche mia moglie, sente anche i miei figli, sente anche i miei sogni, sente il mio mondo ed è tutto questo mondo (i tramonti della penisola sorrentina – sono entrambi di quella zona – e Capri, che Nicola vede, probabilmente, da Massa Lubrense, e il mare…) insieme a tante altre cose che non conosciamo, cioè tutti i libri che hanno letto… Poi…Pasqua!

 

LU CARDILLO

Canto popolare ‘800

 

Cominciamo, pian piano, l’operazione d’atterraggio. L’espressione più importante di questa pagina di Vangelo è evidenziata in grassetto: E vide e credette.

Cos’ha visto? Niente. Ha visto delle fasce piegate con cura, ha visto un sudario, hanno visto un sepolcro vuoto. Di qui a dire “Gesù è risorto” passa il mare. Allora “e vide e credette” è un messaggio, anche questo, in codice, che ci viene dall’antichità, dove c’è un modo per vedere che è il modo di credere. Voglio dirvi che non si crede perché si vede, ma si vede perché si crede.

E vide e credette. Ha visto dei simboli, ha visto dei segni, ha visto dei sacramenti, ha sentito un motivo, ma di qui, da quello che si vede, si intravede quello che non è accessibile e si crede, perché il credere è un modo di vedere. Questo è un tema molto caro all’evangelista Giovanni e cioè che la fede sia una visione, non nei termini classici (visione, cioè vedo qualcosa). La fede è una visione della vita, cioè se io credo, vedo quello che si vede e vedo anche quello che non si vede e, dunque, ho un panorama molto più alto, a tal punto che mi rendo conto che l’accesso alla realtà è la fede. Questo è bellissimo se io riesco a trasmettervelo stasera e voi a rubarlo come concetto e cioè che la fede non sia assenza di visione, ma sia la visione della vita che ci fa dire, anche davanti ad una bara, anche davanti ad una morte, anche davanti alla previsione della nostra morte, che non tutto è finito, che non finisce qui. Questo è il senso dell’andare controcorrente, contro il vento della cultura della morte. Allora, chiediamo stasera di ricevere questo supplemento di vita che ci fa accedere ad una realtà piena, perché chi crede non è un menomato psichico, come spesso si ritiene – Quello non capisce e allora crede! – ma è uno che sa come si sperimenta la realtà, come ci si approccia alla vita, come si va incontro al mondo e cosa c’è dietro lo “scenario”: la fede è l’unico modo per vedere. Quindi, non si crede perché si vede, ma si vede perché si crede. Io vi auguro questa visione.

La fede ce l’avete già, ma probabilmente è una fisarmonica che utilizziamo per fare un po’ di bisboccia e non invece lo strumento da concerto. Se comprendi che per vedere bisogna credere, questa fede, da uno strumento folk o di feste popolari, diventa l’anima di una nuova visione della vita. Che è bella.

 

LA VITA è BELLA

N. Piovani

 

Siamo giunti all’ultimo atto: un cammino faticoso, come vedete, anche il nostro, controcorrente, contro la corrente della volgarità, che non è quella inerente alla sessualità, ma è la volgarità del vuoto, della nullità, del fare le cose e dire le parole tanto per farle e tanto per dirle.

L’ultimo brano è di questo film che vi ho già citato e che rimarrà nella storia del cinema; credo che ci abbia dato una grande lezione, che è una lezione pasquale. Perché “La vita è bella” è una lezione pasquale? Perché si può cantare la vita anche in un campo di concentramento e se alcuni di noi o tutti noi qui presenti, abbiamo di che lamentarci della nostra vita, perché siamo stati particolarmente sfortunati, perché la vita ci è stata avversa, perché le cose non sono andate secondo i sogni della giovinezza, non ci troviamo in un campo di concentramento. Mettiamo il caso che uno di voi viva in un campo di concentramento. Quel luogo – che poi è il luogo della nostra vita, perché comunque siamo in un campo di concentramento, con il filo spinato che sono gli anni che ci sono stati assegnati (oltre non andremo) – quel luogo, che è la mia vita, può diventare un canto o un lamento. Lo stesso luogo, la stessa vita, le stesse disgrazie, gli stessi infortuni, possono costituire oggetto, materia per un canto, per una poesia, o materia di un lamento (Sono stato sfortunato! Non mi è andato niente nel verso giusto!) e quindi sto continuamente a lamentarmi. Scegliete adesso, concludendo, cosa volete fare da grandi. Utilizzo questa cosa un po’ birichina, visto che siamo già tutti grandi (fatta eccezione per qualcuno): cosa vogliamo fare da grandi? Io, da grande, voglio essere felice. Spero che ci sia anche un altro, due o tre fra voi, che da grandi vogliano essere felici, dal momento che so per esperienza che ci impegniamo enormemente per l’infelicità. Io, da grande, vorrei essere felice e allora la Pasqua è questo canto laddove soffia il vento di morte; è dire: è possibile fare diversamente quando tutti vanno nella direzione opposta; è piantare fiori, è piantare alberi; è comprare un’opera d’arte, è ascoltare un concerto (e non è solo un ascolto). È partecipare a questo impasto che abbiamo fatto stasera, mettendo insieme degli artisti (quelli che hanno eseguito e quelli che hanno scritto le musiche), delle vite (le loro), delle vite (le nostre), un’immagine dell’Ottocento di un autore svizzero, un brano di Vangelo di 2000 anni fa, e da tutto questo impasto noi abbiamo creato un novum. Lo so che qualcuno di voi dirà: “Ecco, il solito esaltato!”. Liberi di pensarlo, tanto voi potete restare nella vostra infelicità. Io, da grande, voglio essere felice. Questo novum è quel plus, quel magis che è spuntato fuori – non si sa bene da dove – mentre impastavamo parole, suoni, colori, riferimenti, dolori (non che i dolori non facciano parte di questo mondo sommerso, che rende le parole belle, che rende i suoni meravigliosi).

Allora, quello che noi abbiamo vissuto è la Pasqua, perché abbiamo messo insieme delle cose che, guardate singolarmente come ingredienti, non dicevano nulla, ma messe insieme hanno creato una miscela esplosiva. Per cui stasera farete difficoltà ad addormentarvi. Dio mio! Dovrò prendermi un sonnifero dopo questo concerto? Sì, se quello che abbiamo impastato vi ha messo in circolo tanta adrenalina che farete fatica ad addormentarvi. Stavolta, però, non sarà “Non riesco ad addormentarmi: che tragedia!”, ma sarà quella botta di vita – diciamo noi, in napoletano – che si chiama Pasqua, mentre tu vorresti addormentarti subito e ti vieti un altro spazio di vita cosciente che è il tempo prima di addormentarti. Lo so che ho parlato un po’ da folle, ma fa parte del gioco.

Ascoltiamo l’ultimo brano e, con l’applauso conclusivo, diremo grazie a Raffaele e Nicola, che sono stati agenti non secondari di questa miscela esplosiva della Pasqua.

 

Benedizione del Vescovo

 

BLUSETTE

Toots Thielemans

 

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Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.