In punta di
piedi in Episcopio
Meditazioni
di
S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello
Teano, 20 maggio 2010
Salone dell’Episcopio
“Corsa di
Pasqua
Pasqua di
corsa”
Pianoforte: M° Raffaele Mormile
Fisarmonica: M° Nicola Mellino
~
È sempre un viaggio, quello che compiamo in questi nostri incontri, pur stando fermi: è un viaggio nell’arte, un viaggio nella fede, un viaggio anche nel rimettere in moto riflessioni che, altrimenti, rischiano di cadere; è come dare un colpo d’ala alla nostra vita che rischia di appesantirsi di tanti aspetti.
Questa sera abbiamo un duo di pianoforte e fisarmonica: un abbinamento un po’ strano, fuori del consueto, ma anche questo è un segno.
Nel nome del Padre…
Tango pour Claude
R. Galliano
“Corsa di Pasqua. Pasqua di corsa” è il titolo del nostro viaggio di stasera. Questa immagine, che è alle mie spalle e che è riprodotta in bianco e nero sul foglietto, ci accompagnerà.
Lascio a questa prima riflessione
lo spazio delle domande – mie, ovviamente – e la prima domanda è: a cinquanta
giorni dalla Pasqua, che ne è della Pasqua? Domenica prossima celebreremo
La seconda domanda è: ma
La terza domanda è: che sforzo
facciamo noi credenti per passare da una riflessione popolare della Pasqua ad
una riflessione alta? Noi non abbiamo nulla di più prezioso – e, su questo,
spero di sfondare una porta aperta con tutti voi che non siete alle “prime
armi” – perché se noi cristiani abbiamo qualcosa da dire, nella storia, questa
cosa è
Si evidenzia subito, però, che di Pasqua, al centro, ce n’è ben poca nelle nostre vite e nelle vite delle nostre comunità parrocchiali; non diciamo nella vita delle persone lontane, perché sarebbe chiedere troppo, ma già solo nelle nostre vite Pasqua è piuttosto ai margini. Allora, questo sforzo, che il Maestro Mellino sta compiendo, di sdoganare la fisarmonica da quell’atmosfera di festa di paese della musica folk, in fondo, se ci pensate, dev’essere anche lo sforzo del credente.
Mentre ascoltavo questo primo
brano, mi sono venuti in mente dei ricordi e sono dei ricordi, più che
musicali, letterari della fisarmonica. I miei ricordi letterari della
fisarmonica sono legati ai miei 18 anni, quando mi immersi, come un innamorato,
nei romanzi di Grazia Deledda. Ovviamente – sono un decadentista anch’io – non
è una grande scrittrice, ma non c’era romanzo dove non ci fosse
una descrizione di una fisarmonica che faceva piangere, che rendeva lucidi gli
occhi delle persone, che era un richiamo, perché poi il senso struggente di
nostalgia, lo strumento ce l’ha proprio come tonalità, gli appartiene. Come c’è
lo sforzo di sdoganare, da un ambiente medio-popolare,
la fisarmonica, portandola a strumento da concerto, così anche noi dovremmo
riuscire a sdoganare
Ecco, mi fermo qui, con queste domande (se uno comincia con le domande, allora riesce anche, eventualmente, a interessare): che ne è della mia Pasqua, della Pasqua di quest’anno?, dov’è?, è avanti?, indietro?, è una nostalgia? È un’attrazione, come questo quadro esprime plasticamente, immediatamente, anche alla persona più sprovveduta.
La mia Pasqua è al centro o è un elemento coreografico? Ed è una Pasqua popolare, nel senso deteriore del termine (c’è un aspetto popolare anche bello e “onorevole e degno”), o è una Pasqua alta?, è uno strumento per una festa di paese o uno strumento da concerto?
Il postino
L. Bacalov
Dal Vangelo di Giovanni (20, 1-9)
1 Il primo giorno della
settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di
mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal
sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro
e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava [Giovanni], e disse loro:
"Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno
posto!". 3Pietro allora uscì insieme
all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4Correvano
insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse
per primo al sepolcro. 5Si chinò, vide i teli
posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche
Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là,
7e il sudario - che era stato sul suo capo - non
posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8Allora
entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Infatti
non avevano ancora compreso
Questo brano l’abbiamo ascoltato il mattino di Pasqua, nella celebrazione eucaristica, ed è certamente il brano più articolato intorno alla Pasqua. Tutti i vangeli pasquali sono allusivi, più che dei racconti, perché non c’è la scena che inutilmente i pittori hanno cercato di descrivere: se ci fate caso, non esiste una scena di Resurrezione che sia veramente bella nella storia dell’arte. Inutilmente hanno cercato di descrivere ciò che nessuno ha visto! Piuttosto si tratta di segni lasciati da qualche parte che bisogna decodificare, che il credente è chiamato a impastare, intorno cui deve fare dei ricami di fede, di riflessione, di preghiera, perché – vi dicevo – sono brani allusivi. Allora, questo mette anche una certa curiosità, perché questo Vangelo che abbiamo appena letto e che avete sul foglietto, dice di donne che vanno – e questa è una scena classica – perché il Vangelo della Pasqua è innanzi tutto femminile (ho dedicato uno di questi nostri incontri alla dimensione della donna nei vangeli della femminilità); solo in seconda battuta diventa un Vangelo maschile. Sono le donne che corrono da Simon Pietro portando, non l’annuncio della Pasqua, ma l’annuncio di un furto: Hanno portato via il Signore! Maria Maddalena corre. Pietro e Giovanni corrono.
Il primo aspetto su cui vorrei
fermarvi con voi è la dimensione della corsa a cui noi
normalmente diamo una connotazione negativa, perché ognuno di voi si lamenta: Andiamo sempre di corsa! Corriamo e non
possiamo mai fermarci! (Spero che queste nostre
esperienze in Episcopio costituiscano una sorta di pausa) Stavolta la corsa non
ha una connotazione negativa, ma in questa frenesia di donna (Maria Maddalena),
di uomo (Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro), c’è
Noi corriamo? Il primo verso del
Cantico dei Cantici è: Alzati, corriamo!, perché l’amore
corre. Vi ricordate quando eravate fidanzati? Vi
ricordate quelle esperienze segnate di verginità – parlo di una verginità
mentale e del cuore, ovviamente – dove la scoperta di un amore metteva il cuore
a mille? Allora, ho fatto questo accostamento col Cantico perché “Alzati,
corriamo!”, incipit del Cantico dei Cantici, è anche esperienza della Pasqua:
c’è gente che corre. Voi ne vedete di gente che corre nelle nostre parrocchie,
nella nostra Diocesi, nelle nostre famiglie cristiane? Tutti molto ben
compassati, piuttosto stanchi, tendenti al depresso – direi così, per fare un quadro – mentre la corsa richiama un’altra età, richiama
un’altra dimensione di vita, che è quella della giovinezza, non la giovinezza
cronologica, ma quella che dovrebbe far parte della vita di un credente: un
credente dovrebbe correre, perché ha tante cose da dire, tante cose da fare,
perché “il tempo è breve”, e ha in mente, in cuore, di raggiungere il maggior
numero di persone, perché quello che egli ha da dire è causa di gioia per
tanti. Questo è il motivo della corsa, che è il motivo dell’amore che corre:
inutilmente voi cercherete di mettere il freno ai vostri figli innamorati, come
d’altra parte i vostri genitori hanno cercato inutilmente di mettere il
“silenziatore”, la “sordina” quando eravate
innamorati, perché l’amore corre. Allora, se l’amore corre e noi andiamo lenti,
questo dice qualcosa sul nostro amore; se l’amore corre, precorre, la fede è in
questa corsa. Se ci fate caso, purtroppo – e lo dice un Vescovo –
Allora, amare è correre, l’amore è una corsa: se non corro più, non amo più. La fede è correre, è precorrere, è dire le cose prima degli altri, è esprimere sentimenti dinanzi ai quali gli altri dicono: “Ecco, è proprio quello che volevo dire e non mi usciva la parola! Mi hai tirato dalla bocca quello che io sto vivendo”. Questa è la corsa che va avanti e che, quindi, prepara dei fondali, apre degli scenari, arreda in una maniera nuova. Quest’aria nuova è l’aria di Pasqua, che noi invochiamo dopo cinquanta giorni.
Libertango
A. Piazzolla
Immagino che vi venga voglia di ballare, ma è il pensiero che deve farlo.
L’autore svizzero dell’Ottocento,
che ha firmato anche – ma questo non gli fa proprio onore – delle banconote
dell’epoca, è famoso per questo quadro in particolare, “Pietro e Giovanni verso
il sepolcro”, dove è chiarissimo che i due vanno controvento: lo vediamo dagli
abiti, dai capelli, dalle nuvole. Questo quadro trasmette lo sforzo di correre
nella dimensione opposta, avendo degli agenti che frenano, e questa è la nostra
condizione. Che cosa frena? Cosa frena
Come sapete, Freud ha tematizzato molto bene questa presenza di Thanatos nella vita dell’uomo: Eros e Thanatos sono le grandi forze. È strano che insieme ad Eros, la forza della vita, ci sia anche un vento di morte dentro di noi – e c’è, c’è! – ed è il grande motore frenante della Pasqua, è il vento contrario a Pietro e Giovanni che vanno verso il sepolcro e che, in qualche maniera, sono come calamitati da una forza contraria, a dire: Ma dove andate?, dove correte?, chi pensate di essere? Voi siete mortali!
Questa cosa, cari amici, è la nostra condanna. Non vi sto consegnando la patente di immortalità, questa sera – anche noi moriremo – però è la nostra condanna perché a partire da questa percezione fisica, che noi abbiamo prima d’ogni elaborazione mentale, della morte, noi facciamo il minimo indispensabile. Sembrerebbe doversi realizzare la scena contraria (Ho poco tempo e cerco di fare molto) che in alcuni è presente, ma perlopiù questa percezione della morte che ci struttura ci scoraggia nel tentare l’impossibile, ci scoraggia nel costruire una casa più bella, ci scoraggia nell’allestire una mostra, perché diciamo: “Beh, in fondo sono un povero uomo, sono una povera donna…”. Quindi, questa percezione della mortalità, anche se non tematizzata, viene a tagliare le ali agli aspetti migliori di noi. Molti di noi qui presenti potrebbero fare cose molto più grandi, azioni molto più rischiose, mettersi per strade impopolari ma produttive per l’umanità e non lo fanno per questa sorta di morte ante mortem, perché è come se noi ci fossimo rassegnati (Che fa! Tanto finiremo…). È una morte anticipata. Ci sono tante persone che sono già morte perché non amano più – l’inferno è non amare più, ci ha ricordato Bernanos nella realizzazione del “Diario di un curato di campagna” – e si limitano al minimo indispensabile. A volte, questo è presente nelle case degli anziani, cioè si appesantiscono nell’arredamento, mettono le cose in una maniera disordinata, non si propongono per comprare un mobile nuovo: un anziano non lo penserà mai, perché ha mentalizzato che tanto non serve (Poi i miei figli lo butteranno…). Ecco, è un’idea di morte che frena una cosa bella. Questa riflessione è vera anche sul piano umano e, magari, se tra voi – non esiste – ci fosse un non-credente, dovrebbe dire: “Questo cretino che sta parlando sta dicendo una cosa saggia, anche se io non ho fede”.
Ancor più, questo vento di morte
frena la corsa della Pasqua, perché
Ma non è questa la vita! Io, in
un attimo – dico io, per dire tu, eh? – posso rivoluzionare tutto quello che ho
fatto finora. Ci sono ancora cose da dire, ci sono ancora cose da raccontare,
cose da scoprire, cose da vivere. Attenti, non è poesia quella che vi sto
snocciolando, ma è la traduzione di questa corsa: corsa che fanno in due, Pietro e Giovanni, che rappresentano anche due età
diverse. È normale che corra Giovanni – perché va in palestra, perché è
giovane, perché è il discepolo che Gesù amava – ma non è
normale che corra anche Simon Pietro, che è un po’ affannato, ma gli sta
dietro. È possibile correre anche da anziani, è possibile correre e progettare
anche nella maturità. Vi prego, non ci chiudiamo nelle bare prima del tempo.
Allora, che cosa frena
Guardando questo quadro e ascoltando questa musica che, come vedete, ci smuove anche, perché la musica ha anche la missione di fare “mulinello” nella mente, nel cuore, si agitano dei sentimenti. Abbiamo ascoltato due tango, ma ben vengano anche questi sound, questi ritmi, a far ricircolare il sangue che va nella mente e genera pensieri, va nel cuore e genera connessioni, perché la fede vera è questa.
Quando Carlo Marx diceva che la fede è l’oppio dei popoli, lui diceva la verità, perché era il tipo di fede, in una delle tante tradizioni della Riforma, di cui lui aveva fatto esperienza. Però, se dobbiamo dirla per intero, questa espressione non ci appartiene, cioè non appartiene alla fede cristiana nel suo aspetto invece dinamitardo, rivoluzionario, sovversivo, di rimpasto, di novità che si chiama Pasqua.
ERA DE MAGGIO
Di Giacomo – Costa
Dice il testo che i due correvano insieme – e il nostro pittore ha messo anche in evidenza questo fotogramma della corsa – ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro. Qui corriamo tutti, ma arrivano prima quelli che amano di più. Detto così, potrebbe sembrare una frase fatta – quelli che amano giungono per primi – in realtà, ha una sua profondità, una sua “falda acquifera” molto bella, limpida. L’amore arriva per primo, e mi riferisco anche all’aspetto simbolico del sapere, poco sottolineato, perché in qualche maniera siamo tutti ancora sotto l’egida dell’Illuminismo, ma chiaro anche nell’arte: l’arte – anche quella musicale – non è una spiegazione, un sillogismo (la principale, la secondaria e poi la sintesi), ma è un linguaggio simbolico, fatto di suoni, fatto di panorami, di immagini. Adesso abbiamo ascoltato “Era de maggio” e ognuno di noi ha pensato a qualche maggio della sua vita. Io – confesso – ho pensato al mese di maggio di quand’ero bambino, quando si tornava a casa che era buio e c’erano le lucciole che rendevano il paesaggio fiabesco (adesso le lucciole bisogna andarle a cercare in qualche museo). Quindi, è un linguaggio evocativo, un linguaggio simbolico e il simbolo salta tutti i passaggi e arriva alla conclusione.
Poi arriverà anche Pietro: arriva anche la scienza, arriva anche la filosofia, arriva anche il ragionamento sistematico, ma ci sono delle intuizioni che l’amore rende fruibili in un attimo. Tra l’altro, il Vangelo di Giovanni, al capitolo 21, ci ripresenta Giovanni sulla barca, insieme a Simone; vivono una pesca miracolosa sotto le indicazioni di uno sconosciuto sulla spiaggia – l’abbiamo letto una di queste domeniche – e solo Giovanni dice: “È il Signore!”. Non lo ha visto: lo ha intravisto, lo ha visto il cuore. Il cuore vede, prevede, stravede, cioè ha una visione che fa giungere a certe conclusioni senza tutta la fatica – direbbe Hegel – del concetto. La “fatica del concetto” è un’espressione hegeliana, per dire questa macchinosità del pensiero che ha bisogno delle sue leggi, dei suoi riferimenti. Allora, se il discepolo che Gesù amava, che è anche il discepolo amante, giunge primo al sepolcro, non è perché è il più giovane, così come noi lo immaginiamo e anche come il nostro autore ha rappresentato, ma perché è l’amore: l’amore taglia sempre il traguardo.
L’esame di coscienza lo facciamo ascoltando il prossimo brano che è nuovamente di Piazzolla: Oblivion. Ma il mio arrivare tardi dice qualcosa sul mio cuore e sull’amore?
OBLIVION
A. Piazzolla
“Gesù è risorto!”. Questa parola, sulla bocca di alcune persone, suona falsa come certe note fatte in una maniera pedante. È vero che è risorto, ma ci devi giungere con quel dosaggio di respiro, di luminosità degli occhi, di amore – perché l’amore arriva – di cromaticità, di respiro, per cui questo stesso annuncio, sulla bocca di uno sa di “poesia imparata a memoria” in una maniera pedante, e sulla bocca di un altro sa di annuncio pasquale. Dico questo per dire che poi non basta correre – che pure richiede un allenamento – ma c’è bisogno poi di armonizzare respiro e movimenti, d’armonizzare tutto un mondo che non emerge, ma che è sottinteso. Adesso io vi sto parlando poveramente, ovviamente, e molti di voi sono anche bravi oratori, bravi docenti, però sapete quanto di quello che diciamo è la punta di un iceberg che nasconde tutto quello che noi non diciamo. E quello che noi non diciamo, cioè quello che rimane sommerso, le parole non dette, sono nella parola detta come un valore aggiunto, come una luminosità ulteriore, per cui noi diciamo: “Questa parola mi sembra nuova!”. Così dev’essere la corsa della Pasqua.
Ho preso spunto da questo sforzo di mettere insieme la nota di Oblivion del grande Piazzolla e poi il colore: che colore gli diamo? Sembra che una fisarmonica valga l’altra – no! – e che un suonatore valga l’altro – no! – perché il colore ce lo dai tu. Allora, in Raffaele, in Nicola, questa sera, emergono delle cose che loro non diranno: sto parlando io, loro tacciono, loro suonano. Cosa emerge? La loro vita, le loro mogli (qui c’è Sara, la moglie di Raffaele), i loro figli, i loro sogni, i loro sforzi d’essere uomini oggi: cose che non si dicono, ma che emergono. E se dietro una parola c’è il vuoto, tu lo senti perché fa DENG come una moneta falsa. Le parole che fanno DENG o i suoni che fanno DENG non muovono, non commuovono e voi sareste usciti da questa sala indifferenti, appesantiti addirittura e, invece, può darsi che qualcuno ne esca rivoluzionario, ne esca desideroso di vivere.
Vi racconto questa cosa. Nel ’99
ho avuto un momento tragico della mia vita, fisico: ero a Milano, avevo subìto un intervento e facevo fisioterapia per riprendere
vitalità al braccio. Ricordo che una sera andai a cinema da
solo – cosa che non faccio mai – a vedere “La vita è bella”. Quando sono
uscito (io non conoscevo nessuno, ma avrei voluto abbracciare qualcuno, parlare
con qualcuno), ero nei dintorni del Duomo e c’erano quelli che facevano i
ritratti: mi sono seduto e, benché avessi il braccio impedito, mi sono fatto
fare un ritratto, perché per me quella sera era la vita, cioè quel film mi aveva
dato una grinta…! Io spero che qualcuno di voi scenda e, trovando un pittore,
dica: “Scusi, mi fa un ritratto?”. Sembra una follia… Quello col gessetto che
cercava di farmi il ritratto, avrà detto: “Ma chissà questo chi è…!?”. Io ero uno, quella sera, reduce
da un intervento chirurgico, che dopo aver visto quel film, voleva cantare la
vita e quindi mi sono detto: “Mi faccio fare un ritratto!”, che è la cosa
apparentemente più stupida, ma che dice voglia di vivere. Allora, quando dietro
un suono c’è una vita, quando dietro una parola c’è un’enciclopedia, quando
quello che diciamo è solo una piccola parte di quello che noi sentiamo, allora
quella parola – Gesù è risorto! Pasqua – ha una risonanza. È come se io vi
stessi dicendo che forse
LU CARDILLO
Canto popolare ‘800
Cominciamo, pian piano, l’operazione d’atterraggio. L’espressione più importante di questa pagina di Vangelo è evidenziata in grassetto: E vide e credette.
Cos’ha visto? Niente. Ha visto delle fasce piegate con cura, ha visto un sudario, hanno visto un sepolcro vuoto. Di qui a dire “Gesù è risorto” passa il mare. Allora “e vide e credette” è un messaggio, anche questo, in codice, che ci viene dall’antichità, dove c’è un modo per vedere che è il modo di credere. Voglio dirvi che non si crede perché si vede, ma si vede perché si crede.
E vide e credette. Ha visto dei simboli, ha visto dei segni, ha visto dei sacramenti, ha sentito un motivo, ma di qui, da quello che si vede, si intravede quello che non è accessibile e si crede, perché il credere è un modo di vedere. Questo è un tema molto caro all’evangelista Giovanni e cioè che la fede sia una visione, non nei termini classici (visione, cioè vedo qualcosa). La fede è una visione della vita, cioè se io credo, vedo quello che si vede e vedo anche quello che non si vede e, dunque, ho un panorama molto più alto, a tal punto che mi rendo conto che l’accesso alla realtà è la fede. Questo è bellissimo se io riesco a trasmettervelo stasera e voi a rubarlo come concetto e cioè che la fede non sia assenza di visione, ma sia la visione della vita che ci fa dire, anche davanti ad una bara, anche davanti ad una morte, anche davanti alla previsione della nostra morte, che non tutto è finito, che non finisce qui. Questo è il senso dell’andare controcorrente, contro il vento della cultura della morte. Allora, chiediamo stasera di ricevere questo supplemento di vita che ci fa accedere ad una realtà piena, perché chi crede non è un menomato psichico, come spesso si ritiene – Quello non capisce e allora crede! – ma è uno che sa come si sperimenta la realtà, come ci si approccia alla vita, come si va incontro al mondo e cosa c’è dietro lo “scenario”: la fede è l’unico modo per vedere. Quindi, non si crede perché si vede, ma si vede perché si crede. Io vi auguro questa visione.
La fede ce l’avete già, ma probabilmente è una fisarmonica che utilizziamo per fare un po’ di bisboccia e non invece lo strumento da concerto. Se comprendi che per vedere bisogna credere, questa fede, da uno strumento folk o di feste popolari, diventa l’anima di una nuova visione della vita. Che è bella.
N. Piovani
Siamo giunti all’ultimo atto: un cammino faticoso, come vedete, anche il nostro, controcorrente, contro la corrente della volgarità, che non è quella inerente alla sessualità, ma è la volgarità del vuoto, della nullità, del fare le cose e dire le parole tanto per farle e tanto per dirle.
L’ultimo brano è di questo film
che vi ho già citato e che rimarrà nella storia del cinema; credo che ci abbia
dato una grande lezione, che è una lezione pasquale. Perché “La vita è bella” è
una lezione pasquale? Perché si può cantare la vita anche in un campo di
concentramento e se alcuni di noi o tutti noi qui presenti, abbiamo di che
lamentarci della nostra vita, perché siamo stati particolarmente sfortunati,
perché la vita ci è stata avversa, perché le cose non sono andate secondo i
sogni della giovinezza, non ci troviamo in un campo di concentramento. Mettiamo
il caso che uno di voi viva in un campo di concentramento. Quel luogo – che poi
è il luogo della nostra vita, perché comunque siamo in un campo di
concentramento, con il filo spinato che sono gli anni che ci sono stati
assegnati (oltre non andremo) – quel luogo, che è la mia vita, può diventare un
canto o un lamento. Lo stesso luogo, la stessa vita, le stesse disgrazie, gli
stessi infortuni, possono costituire oggetto, materia
per un canto, per una poesia, o materia di un lamento (Sono stato sfortunato! Non mi è andato niente nel verso giusto!) e
quindi sto continuamente a lamentarmi. Scegliete adesso, concludendo, cosa
volete fare da grandi. Utilizzo questa cosa un po’ birichina, visto che siamo già tutti grandi
(fatta eccezione per qualcuno): cosa vogliamo fare da grandi? Io, da grande,
voglio essere felice. Spero che ci sia anche un altro, due o tre fra voi, che
da grandi vogliano essere felici, dal momento che so per esperienza che ci
impegniamo enormemente per l’infelicità. Io, da grande, vorrei essere felice e
allora
Allora, quello che noi abbiamo
vissuto è
Ascoltiamo l’ultimo brano e, con l’applauso conclusivo, diremo grazie a Raffaele e Nicola, che sono stati agenti non secondari di questa miscela esplosiva della Pasqua.
Benedizione del Vescovo
BLUSETTE
Toots Thielemans
***
Il testo, tratto dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.