In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 28 Gennaio 2010

 

Violino: M° Guido Rossi

Pianoforte: M° Maria Teresa Roncone

 

~

Nel nome del Padre…

J. Massenet-Meditation Thais

 

Dal Vangelo di Marco (4, 1-9)

1 In quel tempo, Gesù si mise di nuovo a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli salì su una barca e là restò seduto, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva. 2 Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: 3 «Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare. 4 Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono. 5 Un'altra cadde fra i sassi, dove non c'era molta terra, e subito spuntò perché non c'era un terreno profondo; 6 ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. 7 Un'altra cadde tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto. 8 E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e ora il cento per uno». 9 E diceva: «Chi ha orecchi per intendere intenda!».

 

Questa sera ci fermiamo su una parabola molto conosciuta, anche già commentata, che mantiene il suo fascino e il suo aspetto provocatorio innanzi tutto nell’“Ascoltate”. In fondo, siamo qui per ascoltare; magari, durante l’esecuzione si trattiene anche il respiro, si cerca di non far cigolare la sedia, cioè si evitano - e questo non è una sorta di “galateo del concerto” – si sospendono tutti i rumori, fosse anche il respiro, soprattutto per certe arcate e certe note che arrivano con tanta difficoltà. Magari a noi sembra che per suonare il violino, o altri strumenti, basti mettere mano sulla tastiera, ma la cosa è molto più complicata, molto più complessa.

Vorrei rileggere con voi questa parabola, stasera (era il Vangelo di ieri, per questo mi ha dato spunto per il nostro appuntamento), su due piani. Il piano classico - ovviamente importante - è il rapporto tra l’uomo e la Parola, tra la Parola e la difficoltà del terreno con le sue quattro categorie, quattro tipologie e, in parallelo, vorrei fare una lettura sull’amore, cercando in questo testo anche una sorta di “sillabario dell’amore”, cioè come vivere, come coltivare una relazione, dal momento che qui si tratta di una relazione: la relazione dell’uomo con la Parola.

In questo primo momento, in questo primo quadro, ci fermiamo sulla scena che fa da fondale al racconto: ci sono tante persone (penso a quelli fra voi che, in questo momento, saranno costretti a restare in piedi, ma questo è buon segno) che stanno ad ascoltare Gesù ed Egli ha bisogno di una sorta di pulpito. Questo pulpito, come spesso accade nel Vangelo, è una barca: una vita, una persona, una sensibilità, una cultura, una missione. Io posso essere, in questo momento, la barca su cui Gesù sale per parlare con voi. La barca ottiene due effetti: il primo è creare distanza, che però è una distanza-vicinanza (la distanza permette alla voce di espandersi) e il secondo (l’altra motivazione, l’altro utilizzo) è la visibilità. Quindi, Gesù sale su una barca che potrebbe essere la tua vita, la tua famiglia, il tuo ministero di catechista, di educatore, per creare quella distanza che permette al suono di espandersi. Questa sala, per esempio, ha una buona acustica perché è ampia, cioè il suono - e chi viene a suonare qui lo sottolinea sempre - ha bisogno di uno spazio in cui espandersi: se ci troviamo a fare un concerto in una stanza di due metri quadri, capite che non ha lo stesso effetto che qui nel nostro salone. Quindi l’audio, l’impulso sonoro, l’onda sonora ha bisogno di un mare; questo mare è lo spazio e lo spazio permette a questa onda, su cui naviga la Parola di Dio, di espandersi per raggiungere anche le persone più lontane. Ma questa barca – ripeto - sortisce anche l’effetto di un pulpito. Ricordate i pulpiti nelle chiese, quando non esistevano i microfoni? Avevano, tra l’altro, l’una e l’altra mansione: il pulpito era in alto, perché si potesse vedere chi parlava, ma il pulpito era in alto anche per permettere alla Parola di piovere (sperando che non fossero sassi…). Dall’alto scende la Parola degli oratori dell’Ottocento, del Novecento, che avevano il loro periodare e anche la loro impostazione di voce. Quello che è importante - e mi fermo qui come assaggio di questo brano - è che la platea di Gesù, per questa parabola, è immensa. Noi siamo tanti, credo più di 120 in questo momento, ma non costituiamo quella platea fatta di centinaia e centinaia di persone che erano tutte raggiunte da Gesù, senza l’ausilio dell’amplificatore e senza tutto quanto oggi la tecnica mette a disposizione nel trasmettere la Parola a tutti. Allora, mi chiedo: perché la gente va da Lui? E mi verrebbe anche da chiedere: perché siete qui, stasera? C’è una sola risposta: sete, fame. Si va dove c’è una fontana, si va dove c’è pane, dove c’è un forno, dove si sente il profumo del pane o il suono, il canto dell’acqua. Questo lo dico perché alcuni di voi sono operatori pastorali e vi lamentate che non viene nessuno, che le vostre celebrazioni, i vostri incontri sono disertati. Ma mi chiedo: sarà veramente colpa delle persone? Dobbiamo, veramente, penalizzare questo popolo dalla dura cervice – come dicevano i profeti nell’Antico Testamento – o, piuttosto, dire: “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”? Ieri come oggi, la gente ha fame e ha sete: fame e sete di senso, di direzione, di una meta chiara da raggiungere, di un’idea che permetta di attraversare anche il dolore. Le folle stavano intorno a Gesù per questo motivo e anche noi, poveramente, questa sera, siamo non intorno al Vescovo, ma intorno al Maestro che ha proclamato questa parabola, questa Parola: ci raccogliamo per ascoltare. Ascoltate: comincia così Gesù.

F. Kreisler – tempo di Minuetto

 

 

Cerco di decifrare, decodificare i sentimenti e le emozioni del maestro Guido che ha eseguito questo brano. Adesso si è seduto ed io gli do dei sentimenti. Dice all’autore del pezzo che ha eseguito: “Che dici di questa mia esecuzione?”. Ogni concertista, all’atto in cui chiude un brano - un tempo densissimo da un punto di vista emotivo - chiede a sé (ed è come se chiedesse all’autore): “Ho eseguito bene quello che tu hai scritto?”. Questa domanda ha una valenza ancora più forte, perché il maestro suona su un violino che è appartenuto a questo autore che era anche un grande violinista. Allora, qui c’è il violino, c’è lo spartito e, quindi, c’è molto di questo autore: non c’è solo lo spartito, che si può eseguire con un qualsiasi strumento, ma anche il suo violino. Vi dico questo perché mi trovo nella stessa condizione, non che sia un concertista, ma nel senso che sono un povero annunciatore del Vangelo, e allora chiedo a Gesù - e don Marco, don Vitaliano (dico i preti presenti, ma vale anche per voi) si chiedono - dopo un’omelia, avendo utilizzato quello che Gesù ha scritto, ma anche la Sua grazia: Che dici? Sei contento di questa mia interpretazione, di questa mia esecuzione, di questa mia applicazione?

A volte, anche la presenza degli oggetti, delle parole, dei segni, delle note sul pentagramma, ci pone in piena comunione con un artista che ha scritto un minuetto, tanto più nel nostro caso, dal momento che qui non stiamo a contatto con un testo scritto, ma siamo a contatto con la persona che, mentre noi leggiamo questa parabola, si materializza letteralmente. Questo, spiritualmente, accade per ogni testo. Quindi, anche se leggo un romanzo, anche se leggo – non so se amate i classici -  Omero o Shakespeare, in quel momento io dialogo ed entro nel mondo interiore dell’autore. Questa cosa diventa fortissima, tanto da consumare chi vi si dedica per una vita, per la Parola di Gesù che suono con il suo strumento: la voce. Gesù non ha utilizzato altro strumento, non ha aperto facebook, non ha incontrato i suoi ascoltatori se non attraverso questo rapporto vitale, passionale, bello, rischioso e debole al tempo stesso, oggi, che è lo strumento della parola. Quindi, poveramente, mi metto nella stessa tensione - perché c’è una tensione di chi esegue uno spartito - di Maria Teresa e del maestro Guido.

Ascoltate. Il seminatore uscì a seminare. Il seminatore non si stanca di porre questo gesto - che abbiamo visto nella nostra infanzia e che adesso non si fa più perché la semina avviene con altre tecniche - di togliere dalla bisaccia il seme e di spargerlo a larghe mani. C’è un seminatore, c’è una terra, c’è un seme. C’è un uomo, c’è una donna, c’è un seme. In un bellissimo testo, molto denso - che avrete dimenticato - di Cocciante, si dice: Io sono il contadino e tu la terra mia. Questo verso può, pari pari, essere scritto in margine a questa parabola, dove il contadino è Gesù ed io sono la sua terra. Attenti! Non una terra qualsiasi: la terra mia. È importante questo, come a dire: non è una donna qualsiasi, ma è la mia donna!, non è un uomo qualsiasi, ma il mio uomo! È diverso quando io vado a seminare in una terra d’altri: invece, questa è la mia terra, non nel senso del possesso ma nel senso dell’affetto, cioè del legame. C’è un legame tra il seminatore e la sua terra, quel legame che alcuni poeti - penso in questo momento a Virgilio, come ad altri - hanno cantato, dove non si opera, semplicemente, un rapporto di investimento, ma c’è un amore, c’è un’attenzione, c’è un chiedersi: com’è oggi la mia terra? E quando noi ci presentiamo a messa la domenica, Gesù se lo chiede: com’è questa mia terra?, com’è questa comunità parrocchiale?, com’è questo gruppo?, com’è questa persona?, cioè come si pone?, come si prepara? È disponibile? È aperta? È chiusa? Lo vedremo nelle quattro tipologie di terreno, ma quello che è importante in questo momento è percepire che il gesto del seminare non è un gesto posto a caso, ma è un gesto d’amore pensato a lungo, perché nell’amore un gesto ha valore quando è preceduto da una lunga e particolareggiata regia. Vi ricordate quando avete fatto una dichiarazione d’amore, da adolescenti o da giovani?, o alla vostra attuale moglie, al vostro attuale marito? Immagino che non abbiate utilizzato la prima parola che vi veniva in mente - spero di no – ma avete detto: “Adesso le dico così…”. Oppure, avendo scoperto che la donna su cui avevamo messo gli occhi amava Baglioni, abbiamo tirato fuori una citazione (E tu)… Ci si prepara. La Parola e il gesto dell’amore sono preceduti da un noviziato, una processione dove si limano le parole, si limano i gesti - spero che ancora oggi lo facciate - e non “quello che viene”, non un gesto a casaccio, una parola non scelta, non accuratamente tolta da un vocabolario con milioni di parole. Penso, in questo momento - perché ho visto qualche volta questo gesto – a dei maestri vetrai delle vetrate istoriate, quando scorrono i loro vocabolari di colore e, tra cinquanta tonalità di giallo, scelgono il giallo che a loro parere va in quel punto perché l’opera d’arte, con la luce, possa risplendere in tutta la sua bellezza.

Seconda scena: Il seminatore uscì a seminare. Mi vengono in mente tante Eucarestie a cui ho partecipato, tante parole che il seminatore aveva scelto per me in una maniera personalizzata - non era la parola per tutti: era la parola per me, per te! - ma io in quel momento ero altrove, non c’ero, come a volte succede in una relazione d’amore. Allora, ecco l’importanza d’esserci e di cogliere l’attimo, il momento di grazia in cui quella parola è pronunziata per me e viene dall’eternità: ha attraversato, come la luce di una stella lontana, centinaia d’anni luce, ha attraversato distanze siderali e mi raggiunge qui, adesso, ma è stata pronunziata 2000 anni fa per me.

Questa è una parola d’amore: così sboccia una storia.   

E. Elgar – Salut d’Amour

 

 

“Saluto d’amore” era in tema con questa lettura della parabola del seminatore come una sorta di sillabario dell’amore.

Prima scena, prima categoria, prima tipologia di terreno - facciamo un po’ di lezione di agraria, stasera, di agraria spirituale, beninteso -: la prima parte di questo seme cadde lungo la strada, vennero gli uccelli del cielo e la divorarono. Molti di voi - spero tutti - sanno che questa parabola - come credo quella della zizzania - ha la sua esposizione, ma anche la sua esegesi da parte di Gesù; quindi, abbiamo una Parola già spiegata, una Parola con la sua versione, sia pure per pochi intimi, perché ieri il Vangelo diceva che poi, quando furono in casa, quando furono da soli, gli chiesero di spiegare la parabola del seminatore.

Come indicare questa prima tipologia di terreno? Impermeabile. Quindi, l’impermeabilità è la prima malattia dell’ascolto, di ogni ascolto, anche dell’ascolto della Parola. Che ne è di tutta la Parola che si sciorina nelle celebrazioni, nei corsi di catechesi, nell’In punta di piedi in Episcopio, nelle Preghiere Giovani? - per far riferimento a quel che viviamo - Che ne è? Quali sono i frutti? Com’è che non vediamo foreste amazzoniche rispetto, ovviamente, alla predicazione di decenni fa? Come mai non cogliamo quei frutti desiderati? La risposta che Gesù ci dà, attraverso questo testo articolato, è che la parola rimbalza rispetto ad un vissuto, trova una sorta di ostilità, forse anche dovuta all’abitudine. Facendo il parallelo nel sillabario dell’amore, direi: un amore per strada. Oggi, purtroppo, è la malattia. Ovviamente, la strada è importante, perché ci si incontra, ma la strada poi rimanda ad un altro luogo. Pensate a Giovanni 1: i due discepoli del Battista s’imbattono in Gesù per la prima volta e gli chiedono dove abita, perché l’amore non si fa per strada. Quando dico “l’amore per strada”, ovviamente non intendo darvi il titolo di un film – ce ne sono già tanti – a luci rosse o che possa suscitare pensieri non proprio limpidi, ma semplicemente – e, forse, più drammaticamente – intendo mettere a tema una sorta di disattenzione che noi abbiamo nei confronti delle persone e, quindi, anche di Gesù. Quante persone abbiamo incontrato oggi? Forse centinaia. Cosa ci hanno detto? Se io ti chiedessi cosa ti ha detto quell’amica, facciamo fatica a ricordare, anche dopo aver posato il ricevitore (ammesso che utilizziate ancora il telefono dei nonni), perché siamo così invasi da messaggi, da parole, da gente che parla, che noi facciamo finta di ascoltare e non ci rimane nulla: è un terreno sulla via, quindi un terreno del tutto chiuso all’ascolto, senza nessuna possibilità, c’è un essere contigui senza essere insieme. Questo mi sembra essere il dramma delle relazioni, oggi, anche coniugali: dormire nello stesso letto non significa che stiamo insieme, cioè che viviamo l’insieme; stare nella stessa casa non significa che stiamo insieme; avere dei figli non significa che stiamo insieme. È il dramma d’essere accanto, d’essere contigui senza essere insieme. L’essere insieme richiede una scelta. In metropolitana ci troviamo a contatto e pigiati da tante persone, ma nessuno di noi dice: sono stato insieme con… Ci siamo sfiorati, ma non è nata nessuna relazione. Questo è il dramma anche dell’amore, ma - ahimé - è il vero dramma della vita della Chiesa: una contiguità con la Parola. Immaginate anche la scena del seme caduto sulla strada: sono vicini? Vicinissimi! Si toccano! Si toccano senza toccarsi, come succede nelle nostre relazioni: ci tocchiamo senza toccarci, ci guardiamo senza vederci, parliamo senza ascoltarci. Magari i nostri figli hanno anche tante amicizie, cambiano ragazza ogni settimana, per ogni week-end, ma alla fine - adesso vi annullo per un attimo il problema morale e guardo il problema umano – guardo la realtà della maturità di queste relazioni e comprendo che c’è una solitudine immensa. Pensate anche al modo d’avere l’auricolare, al modo d’avere 500 brani riassunti in un centimetro quadrato… È questo sfiorarsi senza toccarsi che è il dramma dei nostri figli e, se non stiamo attenti, tra un decennio, nessuno incontrerà più nessuno, saremo tutti in una sorta di privacy, scegliendo il film che vogliamo, da soli, digitando gli acquisti senza andare al centro commerciale – e questo, magari, potrebbe essere un bene -  ma tutto senza relazione. Noi ci muoviamo verso questa tipologia di futuro. Non sto qui, ovviamente, a intimorirvi (non siete adolescenti che si lasciano impressionare dalle parole del Vescovo), ma è una messa in guardia che ci viene da Gesù, dal Vangelo, a dire: ma dove state andando, dal momento che questo seme, che sono io, non produrrà mai Gesù di Nazareth? Solo nella terra che è Maria questo seme diventerà carne. Chiediamo di togliere ogni ostacolo, ogni spirale, ogni utilizzo che impedisce alla Parola d’entrare, di penetrare, di essere assorbita. Noi assorbiamo la Parola, ma in realtà è la Parola che ci assorbe.

Una parte cadde lungo la strada.

L. van Beethoven – Romanza op. 40

 

 

Veniamo alla seconda di tipologia di questo trattato sull’ascolto. Tra l’altro, mentre ascoltavo con voi, pensavo al dramma della sordità (sto leggendo alcune lettere di Beethoven), di questo grande genio, il quale scrive di non partecipare e di non farsi vedere, perché non vuole che gli altri comprendano il suo dramma, e forse anche per non far godere i suoi avversari. Dice: Perché sono stato colpito proprio in questo senso che per me è il più importante? Tante opere sono state composte al buio. È come scrivere un poema al buio: così è per un musicista comporre nella sordità. Dice in un’altra lettera che, quando va ad ascoltare, deve mettersi in prima fila per sentire dell’orchestra solo gli strumenti più alti: immaginate che dramma! Lì è un dramma non dovuto ad una scelta, ma ad una disgrazia del grande autore. Invece, qui parliamo di drammi che noi stessi provochiamo.

La seconda tipologia è quella del terreno sassoso: parte cadde lungo un terreno sassoso. Germogliò immediatamente, perché non c’era profondità, ma appena venne il sole più forte, non avendo radici, si seccò. Il terreno sassoso è un terreno non preparato. In fondo, anche tante parole, cari amici, vanno perdute perché non sono debitamente preparate: sono buttate lì senza un prologo, senza un’introduzione, senza una preparazione. Forse ci sarebbe bisogno, anche per le parole di Gesù, di attraversare tante stanze per giungere poi ad ascoltare, per la prima volta, certe pagine di Vangelo: l’averle sentite così, senza nessun interesse e senza preparazione, ci pone spesso nella difficoltà di superficialità d’ascolto. Qui Gesù mette in evidenza anche un’apparente successo che è il sorgere, anche prima del tempo, dei germogli di questo seme. Vitaliano sa che, per le sue primizie a Presenzano, il Vescovo gli ha detto, mettendo un po’ il piede sul freno, di stare attento a risultati immediati anche sul piano pastorale, perché sono quelli che rischiano di non durare, come il seme della Parola. Ci sono dei frutti che debbono maturare dopo una lunga gestazione, dopo aver vissuto il silenzio della neve, dopo aver attraversato delle fasi, ma certi germogli immediati, nella vita pastorale, nella vita spirituale, come nell’amore, sono piuttosto nefandi, nonostante l’inesperto dica: “Ah! Già è sorto! Già vedo dei frutti! Già ho fatto dei progressi!”. Un momento! Verifichiamo sui tempi lunghi, perché lo spuntare immediato è dovuto anche all’assenza di profondità. Ci sono degli alberi che hanno radici tanto profonde quanto il fusto che fuoriesce dal terreno, cioè tanto le radici sono in fondo, quanto l’albero svetta, a dire che la resistenza di ciò che si vede è commisurata alle radici che non si vedono, che vanno sempre più in profondità quanto più ci si innalza. Questa è una legge legata alla vita vegetale, ma anche alla vita spirituale: abbiamo bisognosi di radici quanto più emergiamo. Pensate, voi siete quasi tutti adulti e quindi siamo in questa dimensione di alberi che hanno già dei frutti, che hanno dei figli, dei nipoti: quanta attenzione facciamo alle radici? E - poiché nel caso spirituale le radici non sono automatiche - quanto tempo dedichiamo a verificarne la vitalità? Gesù dice che è il sole che decreta la fine di questa “primavera di Praga”, di questa primavera che era promettente, ma che è finita nel gelo dei carri armati, nel fallimento. Nella lettura parallela che sto facendo con voi, è un amore disordinato. Voi vedete quanto il disordine sia una malattia nei nostri giovani… Significa che non si è avuta la pazienza di rimuovere tutte le pietre mettendole ai margini. Chi fra noi venga dal mondo contadino ha conosciuto questa fatica che sembrava inutile a noi ragazzi: prendere i sassi e metterli sul limitare del campo significa campo ordinato, significa che su questo terreno può passare l’aratro, si può seminare. Oggi, un giovane può, magari, mantenere anche due relazioni in contemporanea (e non solo i giovani). Anche qui non mi fermo all’aspetto morale, ma alla foto del disordine: com’è possibile che io intrattenga, contemporaneamente, una relazione con Giuditta e con Ester? Per dire due nomi ebraici… È possibile nella loro mente, perché è tutto disordinato e tutto superficiale; ma se uno andasse un tantino in profondità, si renderebbe conto che un amore non può essere condiviso, part-time (un orario per Ester e un altro per Giuditta, accompagno a casa Ester ed esco con Giuditta). L’assenza d’ordine porta anche alla dimensione di superficialità, che poi è la grande malattia, se ci fate caso, anche sul piano culturale: com’è la cultura dei nostri ragazzi? È una cultura di nozioni che si richiamano attraverso il motore di ricerca, ma se uno chiede: Ma questa cosa chi l’ha detta?, dove sta?, chi è questo autore?, dicono: Appartieni a un altro tempo!, questa non è più lo stile della cultura di oggi! Dico questo senza voler demonizzare il computer e tutti gli aiuti che ci offre, ma è come se nulla avesse radici, e quello che non ha radici non rimane. Cosa rimarrà di tutti questi amori? Rimarrà “c’eravamo tanto amati”; rimarranno le foto - come diceva Baglioni in una vecchia canzone – anzi, neanche più quelle, perché adesso non si stampano e, quindi, finiranno in un dischetto che nessuno mai più vedrà. Ecco, chiedo con voi questo impegno nell’ordine. Io lo sento ancora oggi, cogente, imperativo, per me: alla mia età, dopo tutti i cammini e gli sforzi fatti, avverto che, o la mia vita è ordinata e il mio sapere è ordinato, o io non resisto e, quindi, forse anche voi. Dunque, questo cammino non riguarda gli altri, perché quando leggiamo queste parole diciamo: quello è un disordinato, quello è un superficiale, quella signora va a tutte le riunioni, ma non prende nulla… Applichiamola a noi e chiediamo d’essere liberati da questa peste, perché è una vera peste quella che ci impedisce di stabilire relazioni radicate. Le relazioni che hanno radici profonde andranno lontano; quelle con radici di ieri avranno il corso del filo d’erba, dice il testo di Isaia 40.

Gluck – Kreisler – Melodia

 

 

Faccio un esempio di radici a partire da questo brano (neanche ci avevo pensato). Abbiamo letto due autori che, ovviamente, non hanno scritto insieme: c’è un testo più antico di Gluck, che è stato ripreso da Kreisler che ne ha fatto la versione per violino. Cosa avete sentito?, una gioia?, una effervescenza?, o un pianto? Un pianto, perché questo è il brano in cui Orfeo è davanti agli dei degli inferi e deve commuoverli, perché rivuole la sua Euridice. Allora, cerca di far comprendere il dramma che egli vive dell’assenza di questa donna, che è la donna della sua vita che gli è stata tolta in giovane età, perché gli dei degli inferi possano ridargliela. Quindi, posso ascoltare un brano, posso vedere che ci sono due autori (magari abbiamo anche pensato che fossero nome e cognome dello stesso autore e, invece, sono due autori diversi), due tempi dove c’è una trascrizione da parte di un grande musicista e violinista, il quale ne fa una versione per il suo strumento preferito, ma il tema è un pianto, è un lamento per commuovere, per far capire a questi dei freddi degli inferi quanto Orfeo stia soffrendo. Allora, questo è anche un modo – e chiudo la parentesi - di un ascolto che sia un po’ più radicato: bisogna vedere cosa ha aggiunto di virtuosismo Kreisler, cosa diceva l’Orfeo di Gluck, cosa diceva nel mito dei greci e, allora, vedete che attraversiamo vari tempi del sapere e dell’evoluzione del nuovo, per giungere a noi che ascoltiamo questo brano, stasera. Invece, adesso stiamo ascoltando un altro concerto: il concerto della parabola del seminatore.

La terza tipologia è quella più vicina a noi in assoluto, perché parla di un terreno dove crescono rovi e spine che, avendo una crescita più veloce del grano, che è timido, che ha bisogno di luce, ha bisogno di linfa, finiscono col sopravvalere sul piccolo stelo di grano che non spigherà mai: lo coprono, lo strozzano, gli tolgono l’aria. Nella spiegazione che ne dà, nell’esegesi che Gesù fa di se stesso, dice che sono le preoccupazioni della vita. Magari starete guardando l’orologio, starete pensando alla cena (ho preparato tutto?, ho dimenticato qualcosa?): è una preoccupazione, ovviamente, legittima. Non sto penalizzando dicendo che non bisogna preoccuparsi di quello che si mangerà stasera a casa, se arriverò in orario, se mio marito mi caccia fuori perché sono andata all’In punta di piedi in Episcopio, o la moglie (succede anche questo). Insomma, le preoccupazioni della vita: cosa mangeremo?, cosa indosseremo?, riusciremo ad arrivare a fine mese? E poi i figli, i nipoti, gli orari, corri di qua, corri di là… Una serie di preoccupazioni che ci prendono e ci strozzano: questo è il messaggio. Allora non bisogna vivere queste cose? È impossibile! Bisogna capire cosa è veramente importante, perché la cena di stasera è una cosa che ha il suo valore, ma non è certamente un assoluto: potremmo anche non cenare dopo aver gustato di questo menù - perché il programma di un concerto è un menù - e quindi tornare colmi, carichi, e dire: stasera digiuno, perché ci sono cose più importanti, ci sono cose che saziano l’anima. Ci sono cose che saziano a lunga gittata, ce ne sono altre che saziano per brevissimo tempo; ci sono le cose dello spirito e ci sono le cose del corpo; ci sono gli impegni quotidiani e gli appuntamenti necessari. Perché le persone non partecipano all’Eucarestia? Perché non si va a messa? Perché non ho tempo, perché i rovi e le spine sono cresciuti fino a togliermi anche l’idea, l’immagine che io debba occuparmi anche di me. Qualche volta, vi prego, in particolare voi donne, ribellatevi, chiudete la cucina e dite: “Oggi non si mangia!”, nel senso di procurarvi un tempo per voi. È possibile che non ci sia spazio per me? Tra l’altro, questo spazio dato a voi, tornerà mille volte a beneficio di coloro che quotidianamente servite.

Come trasporre questo concetto nell’amore? Direi: la bolletta dell’Enel, perché le bollette possono uccidere una relazione; certe spese, certe preoccupazioni possono strozzare un amore. Credo che non vi stia dicendo nulla di così lontano dalla realtà. Alla fine, anche in una relazione marito-moglie, uomo-donna, o anche d’amicizia, noi finiamo col dare eccessivo valore a cose secondarie, e non mettiamo una goccia d’acqua nel nostro amore che sta morendo. Al diavolo l’Enel, la Telecom o la linea con la quale siete collegati! Sì, sono cose importanti, bisogna pagarle, mi rendo conto, però questo, ad un certo punto, diventa l’elemento graffiante un bel volto, una bella relazione, una bella storia. Vedete, Gesù - ed è quello che sto cercando di dirvi stasera - diventa maestro d’umanità, cioè ci insegna a vivere, come vivere in una maniera equilibrata. Sì, le preoccupazioni della vita, ma il valore della vita, la vita in sé, l’amore in sé, la relazione va coltivata, sfamata, dissetata, altrimenti, a furia di correre da una parte all’altra, di accompagnare i figli, i nipoti alle palestre, a furia di andare come formiche da un negozio all’altro, noi (io e te, noi due) non abbiamo il tempo di guardarci negli occhi. Lo dico sorridendo, ma è un dramma. Allora, chiedo che ciò che è accessorio mi risulti chiaro rispetto a ciò a che è assoluto, una secondaria - per dirla con le coordinate del periodo - da quella che è la principale, un aggettivo da un sostantivo, una foto dall’originale. Queste distinzioni noi rischiamo di non farle più e un giorno ci accorgiamo di non avere più la fede: dov’è? È stata strozzata da tante preoccupazioni: dalla carriera, dal condominio, dalla vicina di casa, da tanti pettegolezzi… Oppure, dov’è quell’amore che sembrava così grande quando eravamo fidanzati? È stato strozzato dalle bollette. Signore, aiutaci a distinguere l’uno dall’altro.

F. Kreisler-Liebesleid

 

 

Sembra strano che sulla quarta categoria si abbia poco da dire, perché è quella ideale: il terreno buono. Parte cadde sul terreno buono – dice Gesù – e produsse ora il trenta, ora il sessanta, ora il cento per uno. Innanzi tutto, dobbiamo tendere a questo ideale. Questa terra è Maria, questa terra perfetta è lei. Fertile terra tutta aperta al sole - dice un inno monastico riferito a Maria - cioè in lei, come in nessun altro, abbiamo avuto la massima fioritura. I santi appartengono alla categoria del quarto terreno, ma una parte di noi, un angolino, un fazzoletto del nostro terreno dovrebbe essere così. Io spero che voi abbiate a individuarlo. È una vostra consolazione, stasera, a dire: sì, è vero, sono un terreno sassoso, sono un terreno impermeabile, sono un terreno disordinato, sono un terreno dove i rovi e le spine tolgono l’aria, ma c’è una Parola che, dieci anni fa, vent’anni fa, quindici anni fa, o nell’ultimo incontro di In punta di piedi ha messo radici, al punto da dire: “Questa cosa, finalmente, ha preso radici ed è un bell’albero!”. Per cui, dicendovi questo, vi do anche una terza lettura telegrafica, e cioè che questi quattro terreni non sono quattro categorie di persone, ma sono quattro aspetti di noi: a volte siamo la strada, a volte siamo il terreno sassoso, a volte siamo il terreno con le spine, qualche volta succede anche che siamo un terreno aperto. Pensate ad un Corso di Esercizi, ad un ritiro, ad un triduo pasquale, ad un momento in cui siamo stati molto recettivi: la Parola di Dio ha fatto miracoli e noi, ancora oggi, andiamo avanti all’ombra di quella Parola che vi consolerà, vi dirà che non è impossibile che la Parola porti frutto. Invece, l’altro aspetto che volevo dirvi è la fecondità propria dell’amore (è il secondo tracciato de “l’ascolto e il sillabario dell’amore”): un amore non fecondo dà motivo di dubitare che sia un amore, sempre!, anche da fidanzati (ma non è il caso vostro), anche da nonni (ed è il caso vostro), anche da genitori. Possiamo dire che il nostro amore abbia generato solo i  nostri figli? È poco, cioè adesso questo amore deve generare. Dite: Ma noi non possiamo avere altri figli. Non mi riferisco alla generazione nella carne fisica, no. Anche quando è finito il tempo, come per Abramo e Sara, tu puoi generare, nel senso che devi portare frutto. Questo amore dev’essere produttivo: cosa sta producendo?

Vi lascio due domande: cosa sta producendo la vostra fede adesso? Non in questo istante, ma in questa stagione: nella vostra parrocchia, nella vostra famiglia, dentro di voi, sta producendo? Se sì, allora siete sulla buona strada, perché è una fede vera e una fede vera produce: produce opere, produce cambiamenti, produce servizio, produce follie. Produce, come un amore vero: è fecondo. Allora, anche quelli che hanno fatto il cinquantesimo anniversario di Matrimonio, vanno istruiti sul fatto che devono generare. Dite: Ma io ho i capelli bianchi! Sì, ma tu vuoi bene a tua moglie? Spero ancora di sì. E allora devi generare, devi produrre, perché un amore che non produce si autoconsuma, si autodistrugge. Questa è una legge. Lo vediamo - chiudo con questa applicazione – sul piano artistico. I maestri hanno suonato e noi, alla fine, li ringrazieremo col nostro consueto applauso, ma se non avessero suonato, stasera sarebbe stata la stessa cosa? No. Certamente c’è stato un dispendio di energie emotive, psichiche, ma entrambi i concertisti torneranno a casa con la soddisfazione, non d’aver fatto un concerto, ma d’aver generato. Io lo vedo anche in me (faccio questa confessione): quando per tre, quattro o cinque giorni io non vi tedio con le mie riflessioni (voi o altri), io sto male, ma – attenti - non sto male perché mi sento inutile, no. È un fatto germinativo, è un fatto – permettetemi – di spermatozoi. Ovviamente, anche un Vescovo ama la sua diocesi, ama i suoi preti, ma se questo non produce - e il produrre per me, adesso, è il parlare, è l’istruire, l’educare - se per un po’ di tempo, a causa di impegni, io mi trovo a far silenzio – e non pensate che il vostro Vescovo non ami il silenzio: lo ama tantissimo – io sto male. Segno che quell’energia che dovrebbe generare, rischia di distruggermi. Questa è una legge, credo, una legge fisica, psichica: bisogna continuamente mettere la palla al centro, come si dice in termini calcistici, bisogna fare un’altra azione: questo è generare, questo è fecondità. Allora, cosa sta generando la Parola in me, in quest’ultimo tempo? E che cosa sta generando il nostro amore adesso, in questa stagione? Spero che troviate tanti figli e tanti germogli, segno di tanta fecondità.

J. Williams – Theme from “SCHINDLER’S LIST”

 

***

Benedizione del Vescovo

A.Simonetti – Madrigale

F. Kreisler – Miniature Viennese March

 

 

***

 

Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.