In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 17 Dicembre 2009

- Nel mistero del Natale -

 

Soprano: M° Marianna Russo

Tenore: M° Raffaele Russo

Violoncello: Vladimir Kocaqi

Pianoforte: M° Maria Teresa Roncone

 

***

 

Iniziamo la nostra preghiera serale nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Conoscete l’alfabeto delle nostre serate “In punta di piedi”. Questa sera è “In punta di piedi nel mistero del Natale”: non si entra con gli scarponi da montagna, e tantomeno con gli stivali militari, ma in pantofole, meglio ancora, a piedi nudi, perché è un grande mistero, è il mistero che ha dato inizio alla nostra redenzione. Questa sera si realizza anche un piccolo miracolo (facciamo attenzione ai piccoli miracoli e non ai grandi), si realizza un mio desiderio: far cantare insieme Marianna e Raffaele, mettendo insieme due parti della mia vita, due regioni che hanno interessato la mia esistenza (Marianna viene dalla Penisola Sorrentina, Raffaele è di questa terra: sono, quindi, delle due terre del Vescovo). Ho sempre sognato di mettere insieme queste due voci e, questa sera, ci riusciamo.

 

Ave Maria (Caccini)

 

Si entra nel mistero del Natale attraverso la porta di Maria - “Janua Coeli” noi la invochiamo nelle Litanie Lauretane - che non è solo porta del cielo, ma anche porta di salvezza. È impossibile rientrare nel Natale - perché è come se dovessimo farlo ogni anno - tornando da lontano. Ci siamo persi durante il corso di quest’anno, ed ecco che il Natale viene come un richiamo di casa. Allora, rientriamo e diciamo: come mi presenterò?, cosa dirò? Sono malconcio, ho perso tante cose - qualcuno potrebbe dire anche la fede -  nel corso di quest’anno, ma c’è una porta e una strada, che è la strada maestra e il portale solenne del Natale: Maria. “Ave Maria” abbiamo ascoltato nella composizione di Caccini che si ferma a questo: non va avanti nella preghiera, nelle parole dell’angelo, in quelle di Elisabetta e, poi, nella parte corale del popolo (Santa Maria, Madre di Dio…), ma si ferma sulla soglia, è come un canto sulla soglia. Comincia così la storia della nostra salvezza e comincia così anche questo Natale. Allora, imbocchiamo con immediatezza, ma anche con semplicità, la porta della Madre: entra, entriamo in questo Natale, adagio adagio, e Maria ci accoglie. Una donna è la grotta del Presepe, perché Gesù, prima che in una grotta, in una stalla, è nato in un grembo. L’aspetto della grotta esprime il simbolo freudiano dell’inconscio collettivo che è il grembo cavo di una donna che ci ha accolti, perché nel mistero del Natale riviviamo anche il mistero della nostra nascita: io sono nato, tu sei nata, siamo nati anche noi, e siamo nati da una donna. Allora, in “Ave Maria” c’è anche il saluto per le nostre madri, vive o defunte, che ci riaccompagnano tenendoci per mano verso il Natale, così come hanno fatto quando eravamo bambini e avevamo bisogno di qualcuno che ci guidasse, che ci istruisse su cosa è il Natale, su cosa significa, cosa comporta. Maria ti prende per mano e ti porta: lasciati guidare. La seconda esecuzione è ancora nella tonalità mariana.

 

Nada te turbe (Frisina)

 

Abbiamo ascoltato Frisina che mette in musica Teresa d’Avila. Vi sarete chiesti: ma non dovevamo rimanere sul tema della madre? Ebbene sì. Cosa dicono le mamme ai bambini? “Non aver paura”. Questo è il messaggio di base, il messaggio cardine della maternità, cioè la madre dice al suo bambino - ma Dio sa quanto ne abbiamo bisogno anche da grandi -: “Puoi farcela, non temere”. È il messaggio, 1500 anni dopo la maternità di Maria, della maternità di una donna, Teresa d’Avila, che non ha avuto figli, ma ha avuto tante figlie e ne ha ancora oggi. Frisina, musicando questo brano, ha preso anche un sound spagnoleggiante; se avete notato, c’è un’anima spagnola, perché Teresa è infuocata come la Castiglia dove ha vissuto, dove ci sono le sue radici, perché ognuno di noi è anche il frutto della terra, come l’albero che, nelle radici, assorbe i minerali presenti nel terreno e, quindi, Teresa d’Avila, nella sua passionalità, è una donna spagnola che non trova pace, nel senso buono del termine, per la causa di Dio. Nulla ti turbi, nulla ti spaventi: chi ha Dio, nulla gli manca. Poi c’è questa ripetizione: solo Dio basta, solo Dio sazia. Tutto passa, Dio resta: è questo il senso di questo adagio che è entrato a far parte della letteratura mistica del mondo. Maria, che ti porta per mano, ti dice: “Non abbiamo più nulla da temere”. Tutti i messaggi biblici di chiamata hanno questo tema: non temere, non avere paura, non è più grande di te quest’opera. Questo messaggio diventa ancor più vero dal giorno dell’incarnazione, dal giorno del Natale, perché chi ha Dio, nulla gli manca, ma Dio adesso è qui, lo abbiamo con noi (Emmanuele è “Dio con noi”) e, quindi, parafrasando San Paolo (Lettera ai Romani, capitolo 8), se Dio è con noi, che cosa abbiamo da temere? Chi sarà contro di noi? Ecco perché questo testo, non propriamente natalizio, non prodotto per l’atmosfera natalizia, entra a pieno titolo nella letteratura di questi giorni, di questo tempo prezioso, scintillante, ma anche dolcissimo, dove una donna ci dice: “Non temere, non avere paura, perché chi ha Dio, nulla gli manca”. Questo Dio non è più il Dio lontano, ma è il Dio con noi e, allora, se è il Dio con noi, con Maria cantiamo il Magnificat.

 

Magnificat (Frisina)

 

È ancora Frisina a toccare le corde del nostro cuore, attraverso una delle tantissime realizzazioni musicali sul tema del Magnificat che è, forse, uno dei testi più cantati nella storia della musica sacra. Chi è la donna che dice “Magnificat”? Normalmente, noi, a Vespro – per quelli che hanno l’abitudine di celebrarlo – recitiamo o cantiamo il Magnificat, pensando ad una donna beata che ha ricevuto delle grazie speciali, che ha avuto in sorte d’essere la Madre di Dio, chiamata a dare la carne al Figlio di Dio che bussa alle porte della storia. Dunque, ci sembra quanto mai logico che debba dire “Magnificat”. Il Magnificat nasce nella casa di Elisabetta e nasce in un tempo di crisi di Maria, crisi dovuta a questa maternità inaspettata, ai commenti delle persone, ai pettegolezzi delle amiche, al pancione che tra un po’ sarà evidente e su cui si poseranno gli sguardi indiscreti (Da dove viene questa maternità?). Quindi, l’atmosfera del Magnificat è la casa di Elisabetta, ma in questa casa, dove c’è una maternità al tramonto, c’è una maternità all’alba della femminilità: quella di Maria (Elisabetta è al tramonto della femminilità) che è in una situazione a dir poco drammatica. Questo piccolo testo, per restare in tema con l’incontro che abbiamo fatto sul “Diario di un curato di campagna” di Bernanos, ci aiuta per un attimo ad entrare nel mistero di Grazia inconsapevole da parte della Vergine. I due brani sono inseriti in uno dei due dialoghi del curato di Torcy con il giovane curato protagonista del romanzo.

 

Lettura di un brano tratto dal romanzo “Diario di un curato di campagna” di G. Bernanos

 

Mi sembra di cogliere, in queste espressioni rubate al curato di Torcy, il senso della grandezza di Maria, ma anche ciò che, di questa grandezza, lei, nella sua esperienza concreta di donna, non ha potuto per nulla usufruire. Questo è importante, cari amici, che lo comprendiamo. Siamo reduci dalla celebrazione dell’Immacolata Concezione: un mistero grandissimo (spero che i termini vi siano chiari, ma non sto qui a ripeterveli). Immacolata Concezione significa che Maria non è stata toccata dal peccato originale, ma vi siete mai chiesti se, di tutto questo, questa donna è stata mai cosciente? La risposta è no. Questo ci mette un senso di stupore, inizialmente anche di angoscia, perché è come avere un patrimonio enorme di cui non si è coscienti, cioè Maria, mentre è stata attraversata dalla Grazia fin dal primo istante, non ha avuto nessuno sconto per quanto concerne il suo vissuto di bambina, di adolescente, di madre, in tutte le vicende che conosciamo accanto al Figlio: mai l’ha sfiorata l’idea d’essere “super”, d’essere al di sopra delle altre. Starete pensando che Elisabetta dice “Benedetta tu fra le donne”, ma sono quelle espressioni che utilizziamo anche noi, nei nostri convenevoli, quando facciamo un augurio, quando vogliamo osannare una persona, ma nessuno di noi, a prendersi sul serio, crede appieno alle lodi che vengono da una persona peraltro di parte (Mi vuole troppo bene e stravede per me). Quindi, anche quest’espressione di Elisabetta sarà morta sulla soglia della coscienza di Maria ponendola, invece, nel dramma della fede che Bernanos esprime anche come dramma di coloro che hanno preparato questa donna (dice: Sì, madre, ma anche figlia). Se siete stati a messa, oggi - ma non era un giorno d’obbligo - vi sarete imbattuti in questa genealogia di Gesù che è come un pugno nello stomaco ogni 17 dicembre, ma è un testo bellissimo, perché parla di tutti gli uomini che si sono dati da fare per generare un figlio, nel sogno meraviglioso di poter dare la carne al Salvatore; ci sono tutte le generazioni che si sono susseguite nel sognare questa donna. È bello quando Bernanos fa dire al curato di Torcy: Per secoli e secoli (l’umanità) ha protetto con le sue vecchie mani cariche di misfatti, mani pesanti, la meravigliosa bambina di cui ignorava persino il nome. È come se queste generazioni che si sono susseguite, si fossero trasmesse la speranza del Messia; è come se avessero vissuto impastando, con le mani sporche di peccato, di misfatti, di tradimenti, la carne bianchissima di Maria. Possono, delle mani sporche, impastare un’opera d’arte? Le mani degli artisti sono sempre sporche: le mani dei pittori, degli scultori, a volte anche le mani dei musicisti che compongono, che scrivono (adesso, magari, si scrive al computer anche la musica…) sono sporche perché c’è la foga, non si bada tanto a come si è vestiti, si è presi dal demone - come dicevano gli antichi, però in senso bello - della creazione artistica. Ecco, tutte queste generazioni si sono impegnate in un sogno - dice Bernanos - per una bambina, che è rimasta bambina, anche se Regina degli Angeli. Ora, questa bambina, la contempliamo nel mistero del Presepe.

 

Astro del ciel (Gruber)

 

Quando andiamo a fare una piccola filologia di questi canti, scopriamo sempre, con grande meraviglia, che sono nati nel nascondimento e poi sono diventati patrimonio mondiale. Abbiamo ascoltato Astro del ciel nella lingua in cui è nata. A Natale, nelle parrocchie, ma anche nelle comunità protestanti (in Austria, in Germania), c’era la consuetudine di produrre dei canti. È come se don Luigi dicesse a Maria Teresa: “Maria Teresa, componi un canto per questo Natale 2009”. Sono nati così: per una piccola comunità, con un organo a canne sfiatato, sgangherato… È  bello, quando si va a ritroso nel tempo, scoprire come un canto sia nato nell’anonimato: magari chi l’ha scritto non aveva minimamente la percezione di affidare un motivo, più che delle parole, che avrebbe fatto da motivo conduttore a Natali di generazioni e generazioni di persone, anche di culture diverse. Questa piccola precisazione, diciamo filologica, serve solo ad entrare nel mistero del Natale, perché il Natale è una piccolezza. Quando pensiamo di fare cose grandi, cose grandiose, siamo lontani dal Natale. Invece, tutto quello che è piccolo, tutto quello che dice infanzia, tutto quello che dice bonsai (ho utilizzato un termine non proprio simpatico, perché alcuni, addirittura, odiano i bonsai), tutto quello che dice luogo sperduto, comunità sparuta, gruppetto che ha freddo e che sente il bisogno di cantare o di produrre, è nella tonalità del Natale. Quindi, come vedete, il Natale cristiano nasce e continua a germinare, non nella fantasmagoria di luci, di colori, ma nella semplicità: è il senso dell’altra citazione che vi ho messo sul foglietto, è il senso anche di questo stralcio dallo stesso dialogo del curato di Torcy.

 

Lettura di un brano tratto dal romanzo “Diario di un curato di campagna” di G. Bernanos

 

Il collegamento “piccole cose-angeli” sembra in opposizione, perché noi immaginiamo l’angelo come l’essere luminoso che occupa tutta la scena, che attira l’attenzione. Invece, Bernanos ci invita, quasi in una sorta di animismo, a vedere gli angeli nelle piccole cose, nelle sfumature, nelle poche note messe insieme ad armonizzare un canto, nelle piccole parole che forse avremo il coraggio di dirci in questo Natale, nel piccolo bambino. Natale è legato agli angeli che - dice Sant’Alfonso nel meraviglioso testo che adesso sarà eseguito - restano impressionati, ammirati: si fermano i cieli e gli angeli guardano questa bambina (Maria era poco più che un’adolescente quando mise al mondo il Figlio di Dio) che, come ogni mamma, canta la ninna nanna. Non c’è nulla di più semplice di una ninna nanna. Chiunque fra voi sia stata madre di un piccolo, ne avrà inventate a centinaia – “Cantami quella di ieri sera!” Che cosa ho cantato ieri sera? - c’è un’inventiva, basta mettere insieme poche note e qualche parola, ed ecco che viene su una ninna nanna. Allora, la ninna nanna è quanto di più piccolo possa essere prodotto sul piano musicale. Ebbene - dice Sant’Alfonso, nella sua immaginazione poetico-mistica - la ninna nanna cantata da Maria fece fermare anche le costellazioni, anche le orbite degli astri.

 

Fermarono i cieli (S. Alfonso Maria de’ Liguori)

 

Il tema della ninna nanna andrebbe ulteriormente approfondito, scavato, aperto, dispiegato come un tema di vita. Ogni sera, quando abbiamo difficoltà ad addormentarci  - e credo che ciascuno di noi viva delle sere in cui il sonno non viene - invochiamo una voce: il Natale è in quella voce, il Natale è in quel “Dormi, dormi: fa’ la ninna nanna Gesù”, il Natale è un po’ assonnato. Io spero che qualcuno fra voi si addormenti in questa sala (potrebbe essere l’attestazione che non stiamo perdendo tempo), perché ad avere gli occhi bene aperti, non c’è Natale. Il Natale è nell’attimo che collega il sonno alla veglia, è quel dolce precipitare, quell’assopirsi dei sensi, quel sentire il mondo con i rumori ovattati. Sarà così anche la morte - speriamo -: addormentarci, sentendo che i rumori si assopiscono (“Sentivo mia madre… poi nulla… sul far della sera”, dice il poeta). Se non entriamo in questa dimensione un po’ onirica - nel senso bello del termine - non c’è Natale: tutto quello che avete preparato, o che vi accingete a preparare, non servirà, perché state svegli, troppo svegli. “Dormi, dormi: fa’ la ninna nanna Gesù”, ma questa ninna nanna deve farla anche l’umanità insonne. Oggi vanno di moda le notti bianche: è un caso che il termine “notte bianca”, da evento drammatico, sia diventato una moda? Me lo chiedo. Com’è andata? Ho fatto una notte in bianco!

Adesso, sembra che la notte bianca sia una sorta di proposta avvincente, allettante. Il problema, cari amici, è che la fede - e non pensate che sia un oppio: è tutt’altro - si pone sul limitare della veglia col sonno, sul limitare della ragione col sentimento, nella siepe che divide le idee chiare e distinte dalla poesia: qui è il Natale e, allora, o mi metto in pigiama, mi metto in pantofole, socchiudo gli occhi ed entro nel mistero del Natale (questo mio discorso non vi sembri poetico-suggestivo: è un discorso spirituale) o resterò sempre freddo, cercando la salvezza chissà da che parte e, invece, forse, la salvezza è addormentarsi, entrare in questo tempo sempre dolce della ninna nanna, che non è un tempo frenetico, ma è un tempo che inclina al sonno, che inclina alla pace. Lasciatevi cantare la ninna nanna: non è solo per Gesù, ma è per l’umanità che Egli è venuto a salvare e che ancora si dà da fare pensando di salvarsi da sola. Addormentati, dormi tranquillo, perché sei già salvo.

 

Ninna nanna (Brahms)

 

Siete ancora svegli? Purtroppo sì… Il sonno, anche nella letteratura, in particolare in quella del Novecento, purtroppo sembra legato ai drammi, agli incubi. Pensate anche all’irruzione terribile, freudiana, nel mondo dei sogni: “L’interpretazione dei sogni” apre, all’inizio del Novecento, una nuova era che è venuta a toglierci il sonno, perché si ha paura di addormentarsi, perché per i bambini arrivano i mostri, i fantasmi… Le fiere che ci rincorrono, che ci fanno svegliare sudati come dopo una battaglia, hanno tolto la dimensione dell’abbandonarsi, che è propria del sonno. Il sonno è un atto di fiducia: si addormentano gli ottimisti. I pessimisti non dormono, perché pensano che ci sia un nemico da qualche parte che venga a strozzarli. I film dell’orrore, da questo punto di vista, non ci hanno reso un ottimo servizio, non hanno aumentato la qualità del nostro sonno. Questi nostri incontri, che sono ovviamente di carattere spirituale poiché siamo un tutt’uno (spirito e corpo), devono avere anche un effetto di rilassamento, di training, per cui, stanotte, sicuramente dormirete - lo dico per quelli fra voi che soffrono d’insonnia – perché l’addormentarsi è un gesto di fiducia. Lo penso, in particolare, per quelli fra voi che sono sposati e dormono nel letto con la moglie, col marito; ogni sera voi firmate un’attestazione di fiducia: “Stanotte mio marito non mi strozzerà - non so se ci pensate qualche volta: voi sorridete, ma è così - mia moglie non mi metterà il cuscino sul volto, sapendo che io soffro d’asma, facendomi passare da questo sonno all’altro”. Ma quello che dico degli sposati, vale per tutte le persone: noi ci addormentiamo fidandoci di Dio, fidandoci che domani andrà meglio, fidandoci che il mondo si evolverà, anche senza il nostro apporto febbrile e febbricitante. Addormentarsi è un gesto di fiducia e, poiché la fiducia è propria dei bambini, i bambini dormono meglio perché dicono: “Mio padre e mia madre sono delle potenze e non mi abbandoneranno”. Quando voi avete portato ad addormentare i vostri figli piccoli, avete detto: “Non ti preoccupare: andrà bene”; quando si sono svegliati in preda ad un incubo, avete detto: “Non ti preoccupare: mamma sta qui”, a dire: non c’è problema. Ecco, allora vorrei che chiedessimo, in questo Natale, il dono di un abbandono fiducioso: è un esercizio che dobbiamo fare ogni sera, perché ogni sera – speriamo – ci addormentiamo, ogni sera esercitiamo la speranza, che è la speranza in Dio, che è la speranza nel mondo, che è la speranza nell’umanità, che è la speranza che quello che abbiamo seminato, come dice un’orazione della Compieta, possa produrre i suoi frutti. Hai fatto quello che potevi? Hai sparso il bene a larghe mani? Ecco, adesso puoi andare a dormire. Gesù utilizza, per questo concetto, un termine che ci ha sempre infastidito, ma che, stasera, torna in una maniera molto positiva: Quando avrete fatto tutte queste cose, dite “siamo servi inutili”. “Inutile” noi l’abbiamo sempre raccolto come uno schiaffo: non sei bravo, non servi a niente… Invece, dev’essere raccolto come la fiducia del servo che ha fatto il suo dovere e che, dunque, può addormentarsi, perché i servi dormono più dei padroni, perché gli operai dormono più degli imprenditori (non intendo nel numero di ore, ma nella qualità del sonno), cioè chi è servo dice: “Io non sono il capo dell’impresa, non sono l’amministratore delegato” e, quindi, si addormenta più facilmente. Allora, Gesù ci dice: Quando avrete fatto queste cose - cioè quando avrai fatto il tuo dovere - addormentati, lasciati andare, abbandonati, perché tu sei solo un servo. La traduzione più dolce di “inutile” è “sei solo un servo”. Hai servito? Bene, adesso hai il diritto di addormentarti.

Sempre nella spiritualità alfonsiana, abbiamo Quanno nascette ninno. Sant’Alfonso, gloria del meridione, gloria della Campania, ha avuto – ve l’ho già detto forse qualche anno fa – il piglio dell’artista nella composizione di queste nenie. Pensate che Fermarono i cieli, che abbiamo ascoltato poc’anzi, è di una dolcezza e di una bellezza che allarga il cuore: non solo ha il genio di tradurre in una maniera accessibile, poi ha il genio musicale (un grande musicista dice che senza Tu scendi dalle stelle non si fa Natale), ma anche il genio di parlare nella lingua del volgo. Quindi, se l’italiano, nel Settecento, lo parlava solo la classe colta, dovendo rivolgersi ai contadini, Alfonso ritiene di dover cantare in dialetto napoletano: questa non è solo una strategia, ma è il mistero della fede che si chiama incarnazione. Se c’è qualcosa che dovete rimproverare a noi-Chiesa è di non essere incarnati, cioè di essere disincarnati. L’incarnazione è Dio dentro la storia e, se Dio è dentro la storia, è il caso che noi ne stiamo fuori? Allora, anche la versione in vernacolo non è solo una strategia, ma è anche un annuncio di fede: Dio si è fatto uomo e io, Alfonso, Vescovo colto, grande moralista, musicista, avvocato di grido del foro di Napoli, canto in dialetto.

 

Quanno nascette ninno (S. Alfonso Maria de’ Liguori)

 

Abbiamo “visto” l’incarnazione di Alfonso nella Napoli del Settecento, nella bella e poetica traduzione e trasfigurazione del fieno: abbiamo ascoltato che comincia a “figliare”, cioè caccia dei germogli e, quindi, diventa più dolce. Sul tema dell’incarnazione vi ripeto un concetto forse già esplicitato qualche anno fa: il Natale è la cosa che ci è riuscita meglio. Innanzi tutto, sapete che il Natale, storicamente, nella sua celebrazione è tardivo. Certamente, nella Chiesa di Roma, nella Chiesa di Gerusalemme, ad un certo punto, si è sentito il bisogno di celebrare anche la nascita (ricordatevi che il centro della fede è la Pasqua), ma poi dobbiamo aspettare il Medioevo, dobbiamo aspettare San Francesco per l’invenzione del Presepe, per questa drammatizzazione (nel Presepe ci sono alcune cose riferite al Vangelo e molte altre che si sono aggiunte attraverso la fantasia) e per il passaggio di questo mistero, dell’annuncio del Natale attraverso i secoli. Oggi, quando molti, forse anche all’interno della Chiesa, dicono che con tutta questa organizzazione, sembra che il Natale ci sia sfuggito di mano, noi possiamo affermare inter nos - è chiaro che dobbiamo fare attenzione a dirlo in altri contesti - che il Natale è la cosa che ci è riuscita meglio. Cosa voglio dire? Pensate se a Pasqua noi riuscissimo - e prima o poi bisogna arrivarci: forse tra cent’anni, tra cinquecento anni… - a convogliare le attenzioni, l’attesa, l’atmosfera, i canti, i dolci… Ma perché il Vescovo fa riferimento a queste cose così pragmatiche? Perché la vita è fatta di questo: è fatta della casa dove può esserci o non esserci un ramoscello, un presepe, un albero di Natale, e poi è fatta di cose che si mangiano, è fatta di cose che si dicono, è fatta di ricordi, è fatta di musiche, è fatta di emozioni: l’universo emozionale del Natale è un vocabolario, è una Treccani infinita. Chi di noi non ha memoria dei Natali dell’infanzia? Noi, con soddisfazione, nonostante anche tutte le fughe, i furti (ma forse anche i furti del Natale sono utili, perché fanno Natale), siamo riusciti a orchestrare una macchina culturale dalle mille possibilità: da quella commerciale a quella mistica. Io non mi scandalizzo di quelli che approfittano del Natale: ne godo, purché dicano “Natale”. Voi dite: “Ma non credono più!”. E chi lo sa? Chi lo può dire?

Che c’entra tutto questo con l’incarnazione? C’entra, perché ho l’impressione che noi facciamo troppo i mistici e dimentichiamo che l’uomo è fatto di carne, di ossa, di abitudini, di sensazioni, di emozioni. L’albero di Natale con le luci genera un’emozione, i canti che noi stiamo ascoltando hanno valore nella misura in cui generano delle emozioni – e ne stanno generando, immagino! – sono richiami all’infanzia: noi stiamo rimescolando ricordi, ma anche attese, suscitati dalla musica. Allora, l’incarnazione significa anche scendere nell’umanità e dire: l’uomo ha bisogno di una festa, l’uomo ha bisogno di festeggiare una nascita, l’uomo ha bisogno di una speranza, l’uomo ha bisogno di un tempo diverso, l’uomo ha bisogno di luci, l’uomo ha bisogno di vibrare dentro. Allora dico: siamo stati proprio bravi - non lo dico a me, ma alla cristianità - noi siamo riusciti ad orchestrare e a convogliare tutte queste forze per dire “Natale”. È vero che alcuni vorrebbero cambiare il nome, ma alla fine non ci riusciranno, perché questa è la cosa che ci è riuscita meglio. E perché le altre cose non ci riescono?, perché non ci mettiamo amore? Perché il Papa ha chiamato gli artisti nella Cappella Sistina? Cantanti, scultori… C’era di tutto! La fede ha bisogno dell’arte, ne ha bisogno estremo! Già Paolo VI, rivolgendosi agli artisti, diceva: “È vero, ad un certo punto ci siamo divisi” e, quindi, l’arte è andata per i fatti suoi… Paolo VI aveva ritentato un aggancio. Il Papa Benedetto ha convogliato gli artisti nel luogo più pregno d’arte, che è la Cappella Sistina, per dire loro grazie. Allora, i pensatori vanno chiamati, gli artisti vanno chiamati, le signore che fanno i dolci vanno chiamate (quindi, anche Patrizia, come gli altri che provvedono abbondantemente ai dolci dell’Episcopio), perché fare un dolce di Natale è una liturgia. Se Gesù è sceso, se Dio è sceso, allora dobbiamo scendere anche noi dal nostro sgabello, dal nostro trono, dalla nostra supponenza e dire: ma l’uomo, oggi, dov’è?, cosa vuole?, come trasmettergli questo messaggio di fede? Ho bisogno dell’arte, come ho bisogno dell’arte culinaria, come ho bisogno del ricamo, come ho bisogno della moda, della poesia, e di tutti quelli che, facendo coro intorno a questo mistero, producono delle emozioni attraverso le loro opere che vanno al di là di loro e, impastandosi, generano un fatto culturale.

Il Natale è la cosa che ci è riuscita meglio, però non ci fermiamo e non dormiamo sugli allori: ci sono tante cose che ci riescono male, malissimo, dove siamo pedanti, dove non riusciamo a smuovere neanche una virgola. Allora, continuiamo a riposare su questo mistero, anche se, in questo momento, immagino d’aver acceso in voi desideri di produzione, in senso saggio e santo. Continuiamo a lasciarci cullare, perché siamo salvati, come dicono queste parole che inizialmente sembrano versi disperati:

 

E noi qui

appesantiti

disperati

moribondi

con la certezza

d’essere perduti…

Eppure salvati.

 

Ninna nanna (Mozart)

 

Cominciamo a volgere verso la “pista di atterraggio”. Cominciamo a scendere - dice lo speaker dalla cabina del pilota. Tornando alla ninna nanna e alla letteratura - perché c’è una letteratura della ninna nanna - dobbiamo dire che c’è sempre un messaggio di forza che la madre trasmette al figlio attraverso delle parole (Sei il migliore, tu sei il mio re, il mio principino…), cioè ci sono delle frasi che, a freddo, ci sembrano eccessive, ma che nel mistero del Natale assumono una loro valenza teologica. Innanzi tutto, c’è da dire che il senso di autostima, come dicono gli psicologi, che noi abbiamo o non abbiamo, dipende anche da questi messaggi ricevuti nell’infanzia, cioè noi, da nostra madre, da nostro padre, dalle persone che abbiamo incontrato, abbiamo ricevuto fondamentalmente dei messaggi di forza, e noi siamo grati ai nostri genitori e a coloro che ci hanno detto che eravamo dei re, dei principi… Poi, magari, nella vita abbiamo scoperto che non era così, e allora qual è la verità? Quella della ninna nanna che mi cantava mia madre o quella che sto sperimentando ora? Ciascuno di voi risponda nella sua mente: aveva ragione mia madre o ho ragione io? Cioè sono uno scalognato?, sono un disgraziato?, sono un buono a nulla? Il napoletano ha coniato un proverbio che tutti conoscete e che dice che anche l’insetto più brutto risulta bello agli occhi di sua madre: lo “scarafone” che è bello agli occhi di sua madre è veramente bello? È un grande interrogativo: la madre stravede per il figlio e, quindi, vede quello che non c’è?, o il figlio, ad un certo punto, dimentica la sua regalità e comincia a vivere raccogliendo i messaggi di disistima che gli vengono dagli altri o che egli stesso si crea? La mia risposta – l’avete già immaginata – è che hanno ragione le mamme, le quali, con l’occhio contemplativo dell’amore, riescono a intravedere delle potenzialità, delle possibilità nel figlio che il figlio non vede. Se Raffaele canta con tanta gioia, tirando fuori il petto, se Marianna riesce negli acuti che fanno tremare non solo l’aria, è anche dovuto ai messaggi di bene delle loro mamme. Voi direte: ma che c’entra questo col Natale? C’entra. C’entra nel cuore del Natale, perché il cuore del Natale è questo: Dio-uomo, uomo-Dio. Dio-uomo è l’aspetto discendente - e noi ci fermiamo qui, purtroppo - cioè Dio scende dall’alto e si fa uomo (ognuno di noi sa che il Natale è questo), ma dimentichiamo l’altro movimento del Natale, quello ascensionale, cioè uomo-Dio, perché l’uomo-Dio è quindi re, è quindi principe, è quindi bello... Questa è una dimensione molto importante del Natale, altrimenti rischiamo di fermarci al sentimentalismo. Allora, le emozioni sono utili nella misura in cui, nel figlio di Maria, che è il Dio fatto bambino, io sento che Dio è venuto a cercarmi, ma è venuto a cercarmi per portarmi con sé nella reggia, per essere divinizzato. Questo termine appartiene alla teologia più antica della Chiesa, quando la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente erano unite: la divinizzazione è il frutto del Natale. San Leone Magno, Papa, in una notte di Natale, a Roma, già nei primi secoli diceva: “Cristiano, riconosci la tua dignità”. A dire: se Dio si è fatto uomo per te, tu hai un futuro di divinità. Se questa cosa l’accogliete, anche minimamente, nella soglia tra la veglia e il sonno, voi rischiate di impazzire di gioia, e tutti i problemi che normalmente ci assillano, che ci fanno perdere la pace, si sgretolano rispetto a questo messaggio: tu sei importante, tu sei importante per Dio, tanto che Dio si è scomodato per te ed è venuto, perché tu possa tornare a casa, e la casa è la reggia, la casa è la divinità. In questo senso, ogni espressione del Natale, diventa liturgica, anche quella di questo canto che non è propriamente liturgico (credo che ci venga dalla tradizione anglosassone) dove anche il biancore del Natale statunitense, con gli alberi colmi di neve, esprimono un desiderio di candore che adesso può realizzarsi, perché Dio è qui, è con noi.

 

Bianco Natale (Berlin)

 

Negli ultimi anni, per me, l’emozione del Natale, da un punto di vista musicale, è legato a questo testo. Molti di voi lo sanno, avendo letto i due racconti editi lo scorso anno: Holy night, di cui non sono importanti le parole, contiene la suggestione che viene dalle note che fanno vibrare lo stomaco (è lì il mio punto di coagulo dell’emozione, poi ognuno di voi avrà il suo), facendomi intravedere questa novità che anch’io cerco, che è già accaduta, ma che aspetta d’essere pienamente realizzata. Come dicevo nei due racconti[1] dell’anno scorso, questo testo è nato per caso: un Pastore chiede di scrivere un testo per Natale a un venditore, uno che trasportava vini (quindi non doveva essere neanche un grande poeta) che gli scrive un testo più o meno poetico (tra l’altro, questo venditore di vini, questo impresario del commercio di vino era anche senza un braccio, quindi, anche segnato nel suo corpo dal dolore, dalla difficoltà). Ovviamente, c’era il problema di musicare il testo, ma le cose si intrecciarono provvidenzialmente: c’era un ponte che si stava costruendo in questo paese e c’era un ingegnere di Parigi che aveva una moglie soprano. Noi mai avremmo avuto Holy night - al di là dei versi di questo venditore di vini, a mio parere anche piuttosto pedanti - se non ci fosse stato il ponte caduto, l’impresa che arriva da Parigi e, nell’impresa, un ingegnere che aveva la moglie soprano e che è utilizzata da Adam, grande (almeno per l’epoca) musicista di balletti. Allora, avviene una congiunzione astrale e quello che doveva essere un canto natalizio per una parrocchia diventa, nella versione anglosassone (la versione originale è in francese), una sorta di number two (secondo me, dopo Astro del ciel, Holy night è al secondo posto nella hit parade). Dico questo non per filologia musicale, ma per farvi cogliere come questo canto sia nato nel piccolo, in una piccola contrada della Francia, in un piccolo Natale sconosciuto che, invece, assurge a storia dei canti natalizi, ad un Natale speciale. Mi chiedo: questo sarà un Natale speciale per noi? Non dipenderà dagli effetti, ma dipenderà se riusciamo ad andare nella parte più piccola di noi, scavando, come dicevo l’anno scorso, nel bambino che sonnecchia da qualche parte e che vuole celebrare questo Natale, che ha bisogno che qualcuno gli racconti questa fiaba: c’era una volta… Il Natale è la meravigliosa fiaba – vera! - che un bambino vuole ascoltare. Ma c’è in me, in te, questo bambino desideroso di ascoltare questa fiaba nel Natale 2009? Questo canto credo che darà il colpo finale per risuscitarlo.

 

Holy night (Adam)

 

Se è possibile dare una lettura, sul piano musicale, potremmo dire che Astro del ciel risente ancora del classicismo musicale dell’epoca. Invece, questo è un tema propriamente romantico, che apre alcuni orizzonti musicali che sappiamo appartenere al melodramma ottocentesco e ad altre opere di questa produzione. È il caso di concludere, augurandoci semplicemente che questo Natale sia Natale, e che lo sia nella parte più povera di noi: più siamo nella difficoltà, nel lutto, più siamo candidati al Natale. Spesso diciamo: “Non sarà Natale per me” e, invece, è proprio questa sorta di essere alla deriva - e alcuni di noi forse si sentono così - che ti candida, che ti rende possibile l’ingresso nel cuore del Natale. Ci auguriamo vicendevolmente, non solo un buon, ma un Santo Natale. Tutto quello che ho detto cercate di rimuginarlo, di ruminarlo, richiamandolo alla mente. Evitiamo, soprattutto gli ultimi giorni, se possibile, di disperderci eccessivamente. Invece, troviamo un momento contemplativo, magari a luci spente, accanto al Presepe, da soli o con poche persone, in un momento di silenzio o di preghiera per entrare nel mistero: è a portata di mano, nessuno di voi è lontano. D’altra parte, Dio è venuto per incontrare tutti e, in particolare, quelli fra noi che sono più in difficoltà: dunque, apriamogli le porte, apriamogli il cuore.

Ovviamente, diciamo grazie a questo quartetto - Maria Teresa, Vladimir, Marianna e Raffaele - che ci hanno aiutato a pregare e che, con le loro esecuzioni, hanno dato uno smalto ulteriore a questa produzione di emozioni: la cosa, come ho già detto, che ci è meglio riuscita.

Padre nostro…

 

Benedizione del Vescovo

 

In tema di ninna nanna, anziché dirci buon Natale, ci diciamo buona notte, santa notte.

 

Holy night (Adam)

 

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Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.



[1] Passi nella notte ovvero Miracoli a Natale, Franco di Mauro Editore