In punta di piedi in Episcopio

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Teano, 18 novembre 2009

- Sinfonia d’Autunno -

Celebrare la vita

quando sta per finire

brindando alla morte

con un applauso di colori.

 

Violino: Gianfranco Di Lella

 

Pianoforte: Maria Teresa Roncone

 

***

 

Nel nome del Padre…

 

G. Faurè (1845-1924): Siciliana

***

 

“Sinfonia d’Autunno” è il titolo e il tema di questa nostra preghiera stasera. “Preghiera” è un termine un po’ strano per questo tipo d’esperienza che, invece, deve ricevere decisamente questo titolo. È un momento contemplativo per fermarci e - come ho detto la prima volta che abbiamo fatto l’esperienza “In punta di piedi” - per riappropriarci della casa del Vescovo che non è solo sua, ma è nostra: è la casa della Chiesa che è in Teano-Calvi. Quindi, in qualche maniera, ognuno di voi ha una piccola azione sulla proprietà di questa casa, ed è bene, ogni tanto, vantarne il diritto, altrimenti correte il rischio di perderlo. Come sapete, i diritti non celebrati e non attestati possono perdersi.

Perché questo tema? Perché ho l’impressione che noi ci lasciamo vivere. Ci passano addosso le stagioni, i tempi, gli anni, i decenni, ma non abbiamo tempo per dire: sono giovane, sono adulto, sono anziano, sono uomo, sono donna, sono un professionista, sono un bambino, sono un prete, sono un Vescovo, sono una pianista, sono un violinista… Questo vale anche per i tempi che convenzionalmente noi indichiamo come stagioni: le quattro stagioni. È una convenzione, ma ha la sua validità perché divide il tempo. Quindi questo è il tempo d’autunno: lo stai celebrando? Stasera noi vogliamo tentare di celebrare l’autunno, così come facevamo da bambini quando portavamo a scuola le foglie del castagno o le castagne: c’era una pedagogia anche in quella metodologia delle nostre maestre elementari d’un tempo (ovviamente, parlo in senso datato, magari oggi ci saranno i display e mille altre sollecitazioni). Siamo stati abituati a percepire il tempo attraverso quelle lezioni manuali, fattuali (condotte dalle nostre maestre elementari a cui bisognerebbe fare un monumento per tutto quello che ci hanno trasmesso), che erano segnate anche dalle rondini, dalle castagne, dalle foglie che cadono. Quindi, noi che da bambini portavamo le foglie morte a scuola, eravamo educati a celebrare il tempo senza che, ovviamente, la nozione filosofica del tempo ci fosse chiara (così siamo stati educati a celebrare le stagioni). Ecco, questo lo abbiamo perso. E, allora, cos’è l’autunno? – ci vogliamo chiedere stasera, non cercando una definizione, ma piuttosto cogliendo delle suggestioni – Cosa dici dell’autunno? Come lo senti? Come ti senti in autunno? Per noi che siamo meteoropatici (credo un po’ tutti, almeno il sottoscritto lo è) ogni stagione si accompagna con un modo d’essere. Io sono diverso in autunno rispetto alla primavera che è la mia stagione DOC. Ognuno di noi ha una stagione DOC, cioè una stagione dove ci si sente meglio, propositivi, creativi, ma confesso un fascino, da una ventina d’anni a questa parte, rispetto all’autunno, che vorrei trasmettervi (ovviamente, sfondo porte aperte). Questo vale anche per i pochi giovani presenti, i quali si sono intrufolati nell’“In punta di piedi” per adulti, così come voi vi intrufolate nella loro Preghiera.

Ci aiuta anche questa immagine che commenterò alla fine, ma che parla già da sé: è un’immagine autunnale, è un invito a sedersi. Comincio così: siediti. Questa panchina, più della sedia che ciascuno di noi occupa, è il posto ideale da cui ascoltare e sentire anche fisicamente la musica che questa sera ci sarà proposta, donata, e da cui avvertire, ascoltare le riflessioni. È, innanzi tutto, una panchina dove fermarsi. Magari non è proprio una panchina all’ultima moda, non è in stile liberty, però, pur nel suo essere datato, è ben inserita nella cornice autunnale: è una panchina dove sedermi. Vi sembrerà strano, banale, che siamo qui per sederci. Adesso voi direte: “Siamo già seduti”. No, non ancora: devi sederti qui, su questa panchina. “Ma è sporca!”. Non è sporca: è vissuta. Questa è una panchina vissuta, come l’autunno è un mondo vissuto così come non lo sono la primavera, l’estate e la giovinezza. Voglio dire che “Sinfonia d’Autunno” è anche sinfonia dell’autunno della nostra vita. Spero di non offendere nessuno, ma mi sembra che sia la stagione di tanti di noi: diciamo che è la mia. Questa stagione è segnata da una consapevolezza di vivere che non ha l’infanzia, che non ha la giovinezza, che non ha l’età adulta, cioè noi, in autunno, ci accorgiamo di vivere. Allora, se c’è questa consapevolezza, probabilmente è la stagione per eccellenza, dal momento che le altre sono bellissime nei colori, nei sogni, ma poi quello che non è consapevole, si perde: è nostro solo ciò che è sottolineato, evidenziato dalla categoria della consapevolezza. Panchina vissuta. Vita vissuta. Questo è l’autunno. Il mio è un malinconico autunno? - come diceva una canzone della nostra infanzia. Forse su questa malinconia ci diremo qualcosa nel prosieguo del cammino. Intanto, prego, accomodati: qui c’è la tua panchina.

A. Seybold: Il canto del sogno

***

Canzone d’Autunno

I lunghi singulti

dei violini

d’autunno

mi lacerano il cuore

d’un languore

monotono.

 

Pieno d’affanno

e stanco, quando

l’ora batte,

io mi rammento

remoti giorni

e piango.

 

E mi abbandono

al triste vento

che mi trasporta

di qua e di là,

simile ad una

foglia morta.

(P. Verlaine)

 

Ho trovato che questo testo si sposava bene con il brano che abbiamo appena ascoltato, anche se movimentato. Ci chiediamo: che sono i “lunghi singulti dei violini d’autunno”? Voi li sentite? Ovviamente, parliamo dell’autunno “stagione” e dell’autunno “stagione della vita”. Perché “singulti”? Perché c’è un che di singhiozzo (non faccio il commento, farei un’offesa alla vostra cultura, ma semplicemente mi accosto al testo secondo l’approccio spirituale). Come sono i violini d’autunno? Sono colorati. Magari, quando vi ho posto la domanda, immediatamente vi sono venuti in mente dei violini ambrati, color arancio, verde, giallo-oro: sono i colori della stagione autunnale che sono davanti a noi puntualmente, ma noi non li vediamo perché abbiamo altro da fare, non siamo poeti, abbiamo da sbrigare delle cose urgenti e, quindi, il miracolo dei violini d’autunno sta per passare e noi non ce ne accorgiamo. Questi versi di Verlaine sono dolenti, come spesso accade nei versi di questo poeta, perché sono singulti che lacerano il cuore d’un languore monotono e il poeta sente che questa “Canzone d’Autunno” è la sua vita: pieno d’affanno e stanco, quando l’ora batte, io mi rammento remoti giorni e piango. Che cosa ricorda? Ricorda la primavera, l’estate, il rincorrersi nell’amore, ricorda i sogni, ma adesso sembra che tutto si stia affievolendo e, allora, c’è questo abbandono ai violini d’autunno che è il lasciarsi andare. Attenti: a me non sembra una sorta di rassegnazione a lasciarsi andare alla sorte, una sorta di pessimismo cosmico, ma è un lasciarsi andare positivo, cioè questa foglia si lascia andare come una foglia morta, ma è portata, ondeggia, danza sotto il suono dei violini, dei singulti dei violini d’autunno. Allora mi chiedo: forse anch’io debbo lasciarmi portare? La stagione dell’autunno, nella vita, è lasciarsi portare e lo dice anche Gesù a Pietro (capitolo 21 del Vangelo di Giovanni): Quando eri giovane andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, altri ti cingeranno e ti porteranno dove tu non vuoi. A dire che da giovani siamo partiti, da adulti abbiamo portato per mano, adesso siamo condotti: siamo condotti da altri, ma – mi piace - siamo condotti dal vento. La foglia portata dal vento - e nella sensibilità biblica il vento è lo Spirito - è un uomo che finalmente ha smesso di fare programmi, progetti  da sé, di autogestirsi, di dire: “Adesso andrò, adesso costruirò, adesso mi darò da fare, ora metterò il mio bagaglio d’esperienze o il mio bagaglio economico…”. Non vi lasciate prendere dall’aspetto triste di questi versi; raccogliamone, invece, la provocazione: la foglia che si lascia andare non è una morte. Il poeta dice che è una foglia morta, ma è veramente morta?, ma è veramente l’ultima spiaggia della foglia?, o per lei c’è un futuro?

Lo saprete nella prossima puntata…

A.Vivaldi: Autunno

***

 

Avrei potuto immediatamente leggervi Quasimodo, ma poi mi sono lasciato prendere da queste due anime dell’Autunno di Vivaldi che costituiscono anche, da sole, una risposta alla mia domanda che poi troveremo espressa meglio nei versi di Quasimodo. Voi sapete che questa è una musica descrittiva, cioè l’autore, ne “Le quattro stagioni”, ha voluto non solo fare musica, ma trasmettere delle immagini quando non esisteva la possibilità di descrivere, se non attraverso la pittura. Quindi, quando non c’erano le foto, i documentari o le immagini (come la panchina con le foglie che abbiamo qui davanti), i musicisti – ma lo fanno anche oggi – svolgevano quest’arte descrittiva, per cui anche nei due motivi, nei due canoni che abbiamo ascoltato, ci sono le due anime dell’autore: c’è quella dei frutti che si raccolgono e, quindi, l’andirivieni della vendemmia, con i vignaioli che vanno, che tornano, che pigiano (sono i movimenti più battuti) e poi abbiamo assistito a delle arcate che sembravano non finire mai, note lunghissime, arcate infinite di un adagio (sono le foglie che cadono). Quindi, da un lato abbiamo la fabbrilità dell’autunno, che non è una stagione infruttuosa, anzi: è la stagione dei frutti per eccellenza (Vivaldi ha descritto la gioia della vendemmia attraverso questi movimenti e, chi l’ha vissuta, immediatamente richiama delle immagini, delle esperienze); poi, una volta che questo vino sta a ribollire, come dice il poeta, comincia invece l’azione dolce della foglia che cade con l’adagio, con un’arcata infinita. Queste sono le due anime dell’autunno: l’autunno come stagione della vita migliore per portare frutto e l’autunno come momento in cui siamo spogliati, che – attenti - non è la morte (quello è l’inverno). L’autunno è il momento in cui siamo spogliati, non come in una scena d’amore, di passione, ma nel senso che non posso più andare, non posso più uscire da solo: piccole cose che ti vengono tolte, che prima facevi con baldanza, senza preoccuparti più di tanto, e che invece adesso vai facendo con maggiore circospezione, fosse anche il semplice gesto di camminare la sera. Vedete, l’autunno ha in sé questi due doni. Anche l’essere spogliati è un dono, perché in questa foglia che cade nell’arcata senza fine (indugia, non cade a piombo), che va danzando sulle ali del vento e fa mille giravolte prima di posarsi a terra, c’è l’assenza della presunzione - questo è il dono dell’essere spogliati - perché finché uno dice “io so il fatto mio, adesso vengo e risolvo i problemi”, siamo ancora in estate, siamo ancora in primavera. Invece, in autunno ci si pone davanti ai problemi in una maniera più pacata: certo, con un dinamismo, ma un dinamismo con i colori dolci, con la luce calda, perché l’autunno ha la luce calda, non esistono pomeriggi o mattine in cui la luce sia più calda dei giorni dei mesi di ottobre e di novembre. Ci sono – spero che voi cogliate queste diversità della luce – delle gradazioni di colore e i fotografi ne sono affascinati, ammaliati: fare una foto in ottobre, verso il tramonto, significa avere una gradazione di colore molto dolce. Questo è il dono dell’assenza di presunzione: l’uomo, la donna, in autunno si presentano senza essere ingombranti, senza imporsi, senza proporsi a tutti i costi. Dicono: Io sono qui come una foglia, senza presunzione. Ma, al tempo stesso, l’autunno è la stagione del raccolto, è la vera stagione della vita - chiaramente parlo oltre il simbolo e oltre il tempo della stagione dell’anno - sono gli anni dove noi dobbiamo essere spremuti, dove deve andare in ebollizione il vino e, da mosto, diventare vino non per noi. Non per noi, perché il vino non beve se stesso, perché la vite non beve il vino che produce, ma tutto questo processo è per la gioia dell’altro. In queste note mi sembra di cogliere una sapienza che chi sta seduto a questa panchina assume, dicendo: Effettivamente sono fortunato, perché mi trovo in una stagione in cui non posso più investire per me. Quando eravamo giovani, noi abbiamo investito su noi stessi e anche per noi stessi. Adesso no: ci sono i figli, i nipoti… Quindi, anche tutto quello che facciamo, in fondo, è per il bicchiere di vino che berrà mio figlio, che berrà mia figlia, che berrà mio nipote, che berranno i giovani della mia parrocchia, non io.

Chiudo con i due temi che mi hanno distratto nello svolgimento che avevo in mente: la vendemmia e la foglia che cade; il presto dei vendemmiatori, che vanno e vengono dalle vigne, e l’adagio della foglia che cade dolcemente e che è bella. Stasera vorrei farvi innamorare delle foglie d’autunno, belle come non sono belli i fiori di primavera. Ma di questa bellezza parleremo tra un attimo. 

F. Gravina: Vento d’Autunno

***

 

Abbiamo conosciuto Francesco Gravina in uno dei nostri incontri qui ad “In punta di piedi”: è un compositore della nostra terra dalla cui arte è nata questa canzone d’autunno.

Nessuno

 Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perché lo sciolga da tutte le creature:
i bambini, l'albero, gli insetti;
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.

Perché non ha più doni
e le strade son buie,
e più non c'e' nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.

(Quasimodo)

 

Ci mettiamo alla scuola del grande Quasimodo con questo testo che, come altri, si chiude come una preghiera. C’è, innanzi tutto, una difficoltà ad impattarsi con la morte, che è anche alla base della nostra difficoltà di vedere l’autunno, perché sembra che questo battere del tempo sul quadrante dica: gran parte della tua vita è passata, hai ancora qualche decennio. Quindi il poeta confessa di avere paura come un fanciullo che ha paura dei morti, ma che è chiamato dalla morte – bellissima questa immagine –, morte intesa come esperienza di liberazione da tutte le creature. Sembra avere una connotazione negativa, invece… I bambini, l’albero, gli insetti; da ogni cosa che ha cuore di tristezza: il poeta sente che la morte di cui egli ha paura (non ha paura della morte, ma dei morti che gli ricordano la morte), la morte che sembra non avere alcuna consistenza, adesso comprende che lo scioglierà, cioè lo porrà libero da tutte le creature (i bambini, l’albero, gli insetti). Allora è una cosa negativa? No, lo porrà libero da ogni cosa che ha cuore di tristezza, perché nei bambini, nell’albero, negli insetti è come se il poeta sentisse, vedesse un che di limite, un che di dolente. Il bambino che ha paura della morte, ma è chiamato dalla morte, è una sorta di vocazione. Vorrei che, guardando l’autunno, e celebrandolo, noi sentissimo la vocazione alla morte - non ve ne andate, aspettate che termini - come liberazione da tutto ciò che ha il verme della tristezza. È come se ogni frutto, ogni mela, ogni pomo, secondo anche la psicologia del Libro della Genesi, abbia in sé un germe di morte e, quindi, è tristezza. E poi, perché questo fanciullo ha paura dei morti, mentre è chiamato dalla morte? Perché non ha più doni. Qui le immagini sono buie: e le strade son buie, e più non c'e' nessuno che sappia farlo piangere vicino a te, Signore. Abbiamo un congiungimento con l’infanzia, che però non è più la stessa: è un’infanzia molto più bella, molto più profonda, e non è un ritorno al bambino che eri, ma è un entrare in una dimensione d’abbandono, che è il poggiare il capo sulla spalla o sulle ginocchia di Gesù, avendo motivo di piangere. Capite che questo pianto non è negativo, non è triste, ma è una sorta di approdo della vita.

Vi ho lanciato questo interrogativo e non vorrei lasciarvi col dubbio amletico: perché questa foglia che cade è bella? È bella perché non è mai stata così colorata, cioè noi dobbiamo guardare l’autunno e dire: in questo evento della natura, in questo quadro degli alberi che si vestono e si spogliano, che indossano il vestito più bello e poi lasciano che il vento lo tolga loro, devo leggere la Risurrezione.

È possibile, miei cari, celebrare - come dicono i pochi versi iniziali e riassuntivi del nostro incontro - la vita quando sta per finire, brindando alla morte con un applauso di colori? Ebbene, questo noi lo vediamo nella natura, cioè il tramonto ha i colori più belli, l’autunno ha i colori più belli, l’autunno della vita ha le parole, i gesti e i frutti più dolci. Non esistono frutti acerbi in autunno: il frutto, se c’è, è dolce, anzi, dolcissimo. Immaginate quell’uva che alcuni agricoltori lasciano a lungo sulla vite perché possa prosciugarsi ulteriormente ed assumere quella dolcezza che poi dà il Passito di Pantelleria… I frutti dell’autunno non sono mai frutti amari, che invece troviamo in primavera inoltrata e in estate. Ecco, per questo la foglia che cade ha una bellezza: perché canta la vita come non ha mai fatto, perché ha una luminosità - e chiudo con questa immagine - che è come la restituzione di tutta la luce ammassata in primavera e che adesso viene resa nel colore. Le foglie autunnali sono leggere: ne vediamo la venatura più facilmente che nel verde della primavera, più che nell’estate quando andiamo a cogliere i pomi, perché è una foglia che si è resa sottile, quasi fatta luce. Non so queste mie suggestioni cosa stiano provocando in voi, ma spero di farvi innamorare di questa stagione - che è la nostra - per farvela celebrare. Noi dobbiamo celebrare i nostri 60’anni, i nostri 70’anni, i nostri 80’anni, ma anche i nostri 55 anni in cui l’autunno comincia a dipingersi; dobbiamo celebrarli e dire: Questo non è un tempo da perdere, ma è un tempo da contemplare, perché adesso ho più tempo per dire: Vivo, ci sto, sono qui, ho un figlio, una figlia, dei nipoti… Sono tutte cose che quando siamo nella maturità non vediamo. Questo è anche il motivo per cui i nonni hanno un contatto con i bambini che i genitori non possono avere, perché i genitori sono presi da mille problemi. I nonni sono i genitori dolci, perché non hanno la preoccupazione immediata: il nonno gioca, il nonno ha tempo per raccontare, il nonno o la nonna hanno sempre un sorriso… Non sono svenevolezze quelle che vi sto raccontando, ma affasciano una serie di esperienze su questo tema dell’autunno. Se non siamo così, vi prego, diventiamolo.

Pugnani/Kreisler: Preludio e Allegro

***

 

È bello sempre lavorare insieme: in fondo, è come se imbastissi queste riflessioni insieme con i musicisti, anche senza metterci d’accordo. Poi cominciamo a dialogare e la loro musica, in qualche maniera, dirige le parole del Vescovo e viceversa, ma voi non sentitevi estranei a questo lavoro e a questo dialogo.

Dedico qualche minuto a questa bellissima poesia di Ada Negri, molto femminile e molto dolce.

 

Pensiero d’autunno

Fammi uguale, Signore, a quelle foglie moribonde,

che vedo oggi nel sole tremar dell'olmo sul più alto ramo.

Tremano, sì, ma non di pena; è tanto limpido il sole,

e dolce il distaccarsi dal ramo, per congiungersi alla terra.

S'accendono alla luce ultima, cuori pronti all'offerta;

e l'agonia, per esse, ha la clemenza di una mite aurora.

Fa’ ch'io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così,

senza lamento, penetrata di Te come del sole.

(Ada Negri)

 

Qui c’è, ovviamente, la poesia, ma c’è anche la femminilità di Ada Negri. Cosa chiede la poetessa e cosa chiediamo anche noi, stasera? Chiediamo che questa “sinfonia d’autunno” sia piena di luce, ma anche piena di pace. Parlo, attenti, della pace di chi va congedandosi gradatamente, gradualmente, dalla vita – grato - o da un giorno – grato - o da una stagione dell’esistenza – grato - o da un viaggio – grato - per non lasciare fuori neanche i giovani che mi stanno guardando un po’ torvi là in fondo e che dicono: “Questa cosa non ci riguarda”. Vi riguarda, perché c’è un autunno anche stasera: è l’autunno di questa giornata, oppure, per alcuni di voi, è l’autunno della giovinezza, cioè è finita anche la giovinezza, oppure l’autunno di una storia, l’autunno di una relazione, l’autunno di un momento, di un decennio… Come deve avvenire questo distacco? Deve avvenire così come Ada Negri descrive questa foglia che è, sì, moribonda, ma di una bellezza colma di luce e si distacca dal ramo per congiungersi alla terra. È il ciclo che riprende: non è una morte vera e propria, ma tutto si trasforma. Questa foglia si accende alla luce ultima, cuori pronti all'offerta; e l'agonia, per esse (le foglie) ha la clemenza di una mite aurora. Fa’ ch'io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così, senza lamento, cioè non astiosa, non ferita, ma… è stato bello. Anche quando finiremo questa preghiera, sarà bello andarsene con un “che bello…”. Alla fine di uno spettacolo, alla fine di un concerto, alla fine di un’esecuzione…: “Bello! Hai sentito?”. Questo è il senso della gratitudine con cui bisogna chiudere tutte le cose, anche la giornata, anche una gita in barca, tanto più poi la vita. Purtroppo l’esperienza pastorale mi ha insegnato (adesso non ho più tanto contatto con gli anziani moribondi) che troppe persone se ne vanno astiose: è come chiudere un meraviglioso concerto con una nota stonata, è come sbagliare l’ultima nota, l’ultimo attacco, l’ultimo accordo. L’ultimo accordo dev’essere il più bello e, per essere il più bello, dev’essere grato e, per essere grato, dev’essere intriso di perdono. Non si può volteggiare come la foglia della poetessa Ada Negri in una maniera così leggera, come in una danza, se non si ha coscienza che la propria vita - quella di tutti - che contiene degli errori, è una vita perdonata. Io chiudo bene una giornata, per esempio questa che stiamo chiudendo insieme, non quando va tutto bene (non succede! “E vissero felici e contenti” succede nelle fiabe, non nella vita!), ma quando io mi perdono e quando offro questo perdono agli altri che mi hanno ferito e dico: “Ok, non ci siamo capiti, pazienza… Puoi andare tranquillo”, e vado tranquillo anch’io. Vedete, quello che noi facciamo a Compieta (per chi fra voi abbia il “vizio” di dire la Compieta) è un esercizio di morte. “Nella veglia salvaci, Signore, nel sonno non ci abbandonare: il cuore vegli con Cristo e il corpo riposi nella pace”: sono tutte espressioni intrise di pace, di tranquillità che non viene da noi, che non è il frutto di una coscienza tranquilla, perché la coscienza non è mai tranquilla (se è coscienza). Le coscienze tranquille non sono coscienze, ma se io sono tormentato, allora significa che ho coscienza. Dunque, come si sposa la coscienza tormentata con la foglia che volteggia, che fa la ballerina? Si sposa con il perdono, col fatto che io sento d’essere una creatura e quindi ho commesso degli sbagli nella mia vita, come in questa giornata. Non sono infallibile, non sono un santo, così come ce lo abbiamo nella nostra fantasia (neanche i santi sono stati così come noi li immaginiamo): sono un uomo, sono una donna e ho sbagliato. Lo riconosco e so di essere perdonato. Questo mi fa chiudere in bellezza. Questo permette che io viva l’autunno veramente sereno. I saggi, i maestri saggi, non sono quelli che non hanno mai sbagliato: sono quelli che hanno sbagliato, che hanno riconosciuto il proprio sbaglio e lo hanno posto nelle mani di Dio per evitare di essere oppressi. Questa è salvezza.

Volutamente, ho posto sul pianoforte una bella composizione di frutti - anche se non sono veri - in ceramica messicana, a dire: certamente la mia vita è un cestino di frutta multicolore che altri mangeranno - non io - ma ci sono anche delle pecche, degli errori, delle note false: pazienza, sono un uomo. Allora mi adagio pieno di pace (penetrata di Te come del sole) perché sento che la mia vita è vita perdonata.

P. Mascagni: Intermezzo da “L’amico Fritz 

 

***

 

In questo piccolo percorso poetico sull’autunno, ho inserito questa poesia di Clemente Rebora che, ufficialmente, non ha nulla di meramente autunnale, se non la data di composizione, il 15 ottobre 1955, ma mi ha colpito, come vi dirò tra qualche istante.

 

15 ottobre 1955

La poesia è un miele che il poeta,

in casta cera e cella di rinuncia,

per sé si fa e pei fratelli in via:

e senza tregua l’armonia annuncia

mentre discorde sputa amaro il mondo.

Da quanto andar in cerca d’ogni parte,

in quanti fiori sosta, e va profondo

come l’ape il poeta!

L’ultime cose accoglie perché sian prime;

nèttare, dolorando, dolce esprime,

che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.

Così porta bontà verso le cime,

onde in bellezza ognun scorga la mèta

che il Signor serba a chi fallendo asseta.

(Clemente Rebora)

 

Mi sembra un poema… Carpiamo solo qualche immagine: innanzi tutto, la poesia come un miele e il poeta come ape. La poesia è un miele che il poeta, in casta cera e cella di rinuncia: questo alveare non è la città, non è il mercato, non è il commercio, ma è una sorta di monachesimo interiore (in casta cera e cella di rinuncia sono immagini legate alle api e all’alveare). Quindi, il poeta fa il miele per sé e per gli altri fratelli in cammino come lui. E senza tregua l’armonia annuncia mentre discorde sputa amaro il mondo: è un annuncio d’armonia in una complessità, diremmo oggi, in un contesto avverso, in un contesto non affine, cioè la poesia, in altri termini, nasce dal dolore, nasce dal contrasto, nasce dal sentirsi estraneo del poeta (mentre discorde sputa amaro il mondo). E poi c’è questo andare in cerca dovunque: anche voi, stasera, forse siete venuti in cerca di un po’ di nettare, di un po’ di miele, come le api. Spero che ve ne torniate un po’ addolciti: il Vescovo dovrebbe addolcire, non amareggiare (questo è un mio desiderio, ma non sempre ci riesco). Quindi, va in cerca d’ogni parte, come io sono andato a cercare questi testi, e sosta di fiore in fiore, però il poeta va in profondità, come l’ape. L’ultime cose accoglie perché sian prime: va a raccogliere quello che per altri è scarto, o sogni, cose senza immediato riscontro, perché sian prime, cioè perché siano poste al primo posto. Bellissimo questo verso: nèttare, dolorando, dolce esprime, cioè questo nettare da dove viene, se non dalla ferita (dolorando)? Che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte: l’arte è come, nella percezione di Rebora, un anticipo di eternità, cioè si vive qui, con questo nettare che viene dal dolore, esprimendo nell’arte ciò che è vita in alto, cioè altrove, nell’eternità. Così porta bontà verso le cime, onde in bellezza ognun scorga la mèta - perché non dobbiamo perderci - che il Signor serba (questa meta) a chi fallendo asseta, cioè il Signore conserva il dono dell’eternità, del nettare che prenderemo senza dolore, finalmente senza amaro, e questo dono è riservato a chi oggi sbaglia (il Signore è come se ti assetasse – è un po’ diabolica questa cosa, però è bella – nel male, nel peccato). In una lettura provvidenziale, il peccato, alla fine, ti fa venire ancor più il desiderio di Dio: questa è la sapienza a cui noi dobbiamo approdare. Siamo qui stasera, come ho già detto, per prendere un po’ di dolce, ma da dove viene questo dolce? Forse che il Vescovo ha i fiorellini? Magari anche lui sarà in difficoltà, magari anche lui andrà cercando questo miele per sé e per gli altri (adesso c’è “In punta di piedi” e venerdì la Preghiera-Giovani) nel suo dolore, e forse anche nel suo sbaglio, perché il Signore fa venire sete di sé a chi, fallendo, sbaglia obiettivo, come dice il termine ebraico che si traduce con “peccato”.

F. Kreisler: Siciliana

***

 

Vorrei utilizzare questi ultimi minuti, se è possibile, abbassando le luci.

Guardiamo un attimo la panchina. Ci tenevo che questa immagine ci accompagnasse non solo adesso: è un’immagine che possiamo portare a casa, perché ciascuno di noi la fotografa col cuore. Innanzi tutto, in questo primo momento, immagino qui una persona anziana a me cara, defunta o ancora in vita non è importante. Ciascuno di noi ponga la madre, una sorella, un amico, un genitore, un sacerdote anziano e lo immagini al tramonto: la luce è molto calda, tutto dice di una sorta di addio da realizzare - speriamo - nella pace. Forse abbiamo anche da riconciliarci con questa persona, magari già in cielo, o ancora qui pellegrina con noi. In un attimo, diciamole qualcosa, ciascuno ovviamente nel segreto del suo cuore, perché l’autunno ci è anche rappresentato da chi ha i capelli bianchi, da chi ha le rughe sul volto, da chi cammina a piccoli passi, da chi si lamenta. Diciamo una parola alla persona a noi cara che siede un attimo su questa panchina.

 

***

O. Respighi: Aria

***

 

Concludiamo con un testo di Barsacchi che molti di voi già conoscono, ma che rimane ancora impareggiabile rispetto ad una descrizione non tanto della morte, quanto della visione del mondo quando si è anziani. Questa poesia parla anche della morte, ma esprime una percezione di bellezza della vita così come neanche un giovane saprebbe fare.

 

Non credevo, Signore

Portami via per mano ad occhi chiusi

senza un addio che mi trattenga ancora

tra quanti amai, tra le piccole cose

che mi fecero vivo.

Non credevo, Signore,

tanto profondo fosse

questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve

alitarsi la vita nello specchio

fragile di uno sguardo,

pensavo che il mondo

divenisse, abbuiando, così acceso

di impensate bellezze.

(Renzo Barsacchi)

 

C’è un testo che potrebbe fare da pendant a questi versi, un testo in prosa bellissimo, altissimo, il “Pensiero alla morte” di Paolo VI, dove quell’anziano Papa dice: Guardo il mondo, la città di Roma, e mi accorgo che questa vita è drammatica, sì, ma meravigliosa. Questo lo possono dire solo gli anziani. La meraviglia non sempre alberga nel cuore dei giovani, nel cuore degli adulti; invece, trova cittadinanza, trova ospitalità nei cuori degli anziani. Mi interessa, di questo testo, la voglia di vita e di vivere che l’autore anziano manifesta pensando alla morte, tanto da dire addio: quando mi chiami, fammi andar via con gli occhi chiusi, perché non me ne andrei con gli occhi aperti. E perché non me ne andrei? Perché questo mondo è troppo bello, perché il creato, abbuiando, si veste di impensate bellezze, perché la vita è un attimo (lieve alitarsi la vita nello specchio). Quando uno alita su una superficie, cosa succede? Rimane un attimo: questa è la vita. Ebbene, questo lieve alitarsi la vita nello specchio fragile di uno sguardo è meraviglioso: i nostri rapporti, il fatto che ci vogliamo bene, che voi siate marito e moglie, che avete figli, nipoti, che viviamo un’amicizia, è una cosa meravigliosa e fragilissima, come lo è l’alitarsi la vita. Ebbene, se la percezione della vita, sul finire, è così bella, allora i veri maestri di vita debbono essere gli anziani, quelli dell’autunno, i veri saggi, quelli che sanno dosare la vita. Il verbo “dosare” è fuori del vocabolario, oggi. I nostri giovani, anche i vostri figli, cercano esperienze fortissime (ad esempio: il volume più è alto, meglio è), ma questa non è la vita, perché la vita va dosata. Quando Gianfranco e Maria Teresa suonano, dosano i suoni: è il dosaggio che rende il suono tondo. Allora, noi che siamo sulle soglie dell’autunno, o in autunno, chiediamo al Signore, stasera, d’essere maestri amanti della vita, amanti del creato, amanti della bellezza, innamorati della vita, così come forse non lo siamo stati neanche quand’eravamo giovani: allora non ne avevamo la percezione, ma adesso sì. Adesso la vita è bella, adesso la vita è piena, anche se ci sembra che ci sfugga di mano, ma è proprio questo fatto, forse,  che ce la rende più bella, più affascinante. Apparentemente, con un paradosso, voglio dirvi che l’autunno è la stagione “della vita”, perché è la vita che se ne va, salutandoci. E noi, salutandola con questo lieve gesto della mano, diciamo: Grazie… Se non ci fossi mai stato, che tragedia… L’esserci stato: una meraviglia… L’aver visto i colori, l’aver gustato i sapori, l’aver vissuto le relazioni, essere stato su questa terra: una cosa meravigliosa… Per questo, Signore, portami via ad occhi chiusi, perché se dovessi morire ad occhi aperti, morirei disperato. Mi piace pensare che sia così la cataratta – scusate questo riferimento ad una patologia – il fatto che si affievolisce la vista, come dice anche il Qoèlet nell’ultimo capitolo dedicato all’età anziana, il fatto di non vedere più tanto bene. Questo velo, questa tenda che si chiude, ma che mi rende ancora possibile intuire cosa c’è oltre, mi fa dire: “È stato bello…” (io vorrei dirlo sul letto di morte). Ma “è stato bello…” lo diremo se noi, d’ogni giorno, avremo fatto un dono, una pista di lancio, la possibilità di cantare.

Benedizione del Vescovo

A. Dvorak: Studio romantico Op. 75 N.3

 

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Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.