In punta di piedi in Episcopio
Ritiro per adulti
guidato da
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
“Musiche da Film”
Teano, 14 ottobre 2010
~
Violino: Domenico Mancino
Pianoforte: Maria Teresa Roncone
~
Ci
introduciamo con tranquillità in questa ora e mezza di contemplazione musicale
e spirituale, come al solito; ci disponiamo
all’ascolto, ci distendiamo, ritroviamo il nostro centro: questo è l’obiettivo
degli incontri “In punta di piedi” che riprendiamo in questo autunno.
Nel nome del Padre…
E. Morricone: C’era una volta il West
***
PRONTUARIO PER
Io sono stato voluto:
la certezza di
non essere un intruso.
Dono e compimento:
quando la grazia
sposa lo sforzo.
Magnificat e miserere:
polmoni della vita.
Avrei voluto: natura e arte
“L’arte è vincente dove la natura perde”.
Alleluia!
“E vissero felici e contenti”.
***
Il
titolo “Musiche da Film” mi ha dato anche lo spunto per questa riflessione
“Prontuario per la vita”, ovviamente cercando sempre una sintesi, perché più
andiamo avanti negli anni, più abbiamo bisogno di dire: Ma in fondo in fondo,
riassumendo, cosa è veramente importante in una vita? Allora ho messo su un
“prontuario per la vita” su cui ci fermiamo a riflettere. Perché è legato a
“Musiche da Film”? Perché quando vediamo un film, immediatamente ci
immedesimiamo nei personaggi, in uno o nell’altro, nel buono o nel cattivo, e
in qualche maniera anche la nostra vita è una pellicola da girare. Ci sono
degli inconvenienti, c’è un regista - ma questo è
inutile dirlo, visto che siamo tutti credenti - quindi non andiamo avanti a
casaccio, ma il regista ci dà dei consigli; a volte gli attori sono attenti e
docili, altre volte ribelli e lasciano il set, pensando che il regista non dia
buone indicazioni. C’è un montaggio da fare dopo le riprese (questo montaggio,
per la verità, avviene dopo i 50’anni ma, a guardarvi,
direi che ci siamo quasi tutti, fatta qualche eccezione), dove si prendono
spezzoni delle varie riprese cercando di “montare”, come si dice in termini
tecnici, il film.
Indicandovi
questo prontuario, da un lato voglio fare una sintesi per me, perché è utile
per gli altri quello che è utile per noi, ed è chiaro per gli altri quello che
è chiaro per noi nella comunicazione; poi voglio offrirvi una sorta di “Manuale delle Giovani Marmotte” - tanto per
richiamare un classico - in cui si andava a vedere come si accende il fuoco,
cosa succede quando piove, come ci si comporta quando
si viene morsi da una vipera (allora, il Manuale
delle Giovani Marmotte, che viene dall’esperienza scout, offriva delle
indicazioni agli inesperti).
Terza
finalità: credo che anche voi siate in età tale da poter dire ai figli ciò che
è veramente importante.
Quindi teniamo presente queste tre direttrici: il Vescovo
riflette da solo nel silenzio del monastero dell’Episcopio di Teano; noi
cerchiamo di montare le scene della nostra vita, girate in passato, facendo
sintesi; i nostri figli - alcuni adolescenti, altri già grandi - stanno
affrontando la vita e forse avrebbero bisogno di un vademecum. Nessuno mai
ha pensato ad un vademecum per la
vita: ce n’è per i pellegrinaggi, per i safari, per i viaggi di nozze (a
proposito, Maria Teresa è appena tornata insieme con
Ernesto: le faremo gli auguri alla fine), ma non c’è un prontuario, un vademecum per la vita e allora ho
cercato di sintetizzare in alcune espressioni. Non sono ricorso immediatamente
a testi biblici e a messaggi direttamente confessionali, anche se, come
nell’ordito vi accorgerete, in fondo c’è tutto il patrimonio della nostra fede.
Il
primo punto da affidare a un figlio, a mio parere essenziale – prima, d’aver
assorbito noi, come educatori – è:
Io sono stato voluto:
la certezza di
non essere un intruso.
Lavoriamo
brevemente su questo tema. Ho coniato questa espressione - il concetto me lo
state sentendo ripetere da un po’ di tempo - a uno dei campi-scuola per i
giovani della nostra Diocesi (non quello che ho condotto io).
“Io
sono stato voluto” non è solo un’espressione verbale, ma anche l’approdo di una
percezione positiva della mia vita che è il presupposto d’ogni realizzazione.
“Io sono stato voluto” è il contrario di: Mi sono trovato per caso in questa piazza e sono stato al centro di
guerriglie o di spari che avvenivano da una parte e dall’altra… - oppure - Mi sono trovato per caso lanciato
nell’essere: non so se i miei genitori se ne rendessero conto… forse non mi
volevano… Sono tutte espressioni che a volte sentiamo ripetere dai nostri
figli e che esprimono un’insicurezza di fondo, presupposto di una tragedia (Non farò nulla di buono!) o,
addirittura, presupposto di una tragedia ancora più drammatica: Sono una bestemmia vivente, dunque opererò
il male, dunque farò di tutto per farmi notare creando disagio… Ci sono dei
disagi sociali che nascono anche da questa volontà che adesso, così come l’ho
espressa, sembra una volontà diabolica, ma in realtà è una reazione per dire: Voglio pestarvi i piedi, perché vi
accorgiate che io ci sono! Molti alunni, a volte con il loro modo “fuori riga”, scostumato, non scolarizzato,
null’altro vogliono che attirare l’attenzione dell’insegnante, che forse anche
alzando la voce, forse anche con un piccolo castigo, avrebbe
conquistato questo alunno o questa fascia di classe che sembrava essere
ribelle. Tutti, in qualche maniera, vogliamo essere accettati, questa è una
legge generale, ma questa accettazione richiede – e
questo ai ragazzi non lo possiamo dire, ma possiamo dirlo a degli adulti – una
previa accettazione di me, che a sua volta richiama il mio essere collocato in
un progetto non casuale.
Con
il sottotitolo “la certezza di non essere un intruso”, intendo dire che io sono
stato voluto da Dio in una maniera chiara, con una
volontà e con un amore che ha reso possibile la mia nascita, la mia infanzia,
la mia adolescenza, la mia giovinezza, la mia età matura, comunque siano
andate. Non facciamo ancora valutazioni positive o negative
(è andata bene, è andata male; sono stato all’altezza o non mi sono comportato
bene; sono stato sfortunato o fortunato…): queste vengono dopo.
La
riflessione che, poveramente, ma con passione vorrei comunicarvi, è la
percezione di una positività dell’essere uomo, che affonda le radici nella fede
e che è l’elemento d’ancoraggio di ogni progettualità. Allora, se io sono
nervoso o calmo, se io sono intelligente o idiota, se io sono una cima o una
mezza cartuccia, sono problemi relativi, e il primo è legato all’umore. Se i
nostri artisti di questa sera sono al top delle loro potenzialità, delle loro
possibilità, è un elemento, in questa fase, in questo momento, in questo
orizzonte del discorso, del tutto irrilevante, perché possono anche sbagliare,
ma a questo sbaglio non segue l’affermazione “io sono uno sbaglio”: altro è
sbagliare – e sbagliamo tutti, io per primo – altro è avere percezione d’essere
uno sbaglio, d’essere un errore, un errore di natura, un errore di calcolo, un
errore di incontro di cellule, un errore di matrimonio tra un ovulo e uno
spermatozoo. Sentirsi un errore ci pone in una negatività radicale che poi
nessuna positività riuscirà a redimere. Viceversa, il
percepirmi in questo atteggiamento di bene significa: mi hanno voluto bene,
sono un bene; significa, per bocca di Geremia: Ti ho amato di amore eterno. Ci sono alcune espressioni nella Bibbia che noi dovremmo
conoscere, imprimere, scolpire nella nostra mente. Il verso di Geremia,
precedente a quello che vi ho citato, dice: Un
popolo di scampati ha trovato grazia. Questa è la percezione di Geremia
rispetto ad Israele: Un popolo di
scampati - quindi un popolo raccogliticcio, un popolo senza identità - ha trovato grazia. Il Signore mi ha detto:
“Ti ho amato di amore eterno”. Questa si chiama dichiarazione d’amore - e
voi me lo dovreste insegnare - cioè ti ho amato sempre. Ma “sempre” non è solo
nella direttrice del passato, ma anche nella direttrice del futuro: Colui che
mi ha amato sempre, mi amerà sempre; Colui che è il Bene da cui vengo, è anche
Colui che mi accompagnerà nel caso dovessi attraversare una valle oscura; Colui
che mi ha voluto, mi vuole adesso, in questo momento, per cui
se altri non mi vogliono, pazienza!, perché Lui mi vuole. E Colui che mi vuole
ora, mi vorrà anche domani, e mi vuole per l’eternità.
In
poche parole, questo tracciato è più che una seduta di psicoterapia, con tutti
gli itinerari possibili, perché pone la persona nella luce dell’essere come
bene, a prescindere da ogni incidente, a prescindere da ogni ingiustizia, a
prescindere da ogni “avrei voluto, ma non ci sono riuscito”. Cominciamo così il
nostro piccolo - ma denso - itinerario.
È chiaro
che questa cosa, così come ve l’ho detta, non la possiamo dire ai figli. Se tu
vai a dire a tuo figlio: “Guarda che tu sei stato voluto!”,
prima deve fare uno sforzo a capire la formula verbale, ma poi, ancora di più,
deve fare uno sforzo a capire quello che vogliamo dire. Non è così che un
genitore trasmette al figlio il messaggio o, un educatore al discente la
lezione, ma attraverso atteggiamenti, attraverso parole: Ma dai! Non è la fine del mondo: ci sono questi aspetti belli in te!
Con i bambini si tratterà semplicemente di un sorriso, di un abbraccio (i
piccoli hanno bisogno dell’esperienza tattile, non possiamo fare loro discorsi
astratti, come ricordava il Piaget, ma poi, man mano
che noi andiamo avanti negli anni, questa riflessione, inizialmente legata al
bacio, all’abbraccio (“forte forte”
- dicono i bambini), diventa sorriso, diventa parola, diventa “bravo!”, diventa
“OK!”, diventa messaggio di positività. Tutto questo, che potrebbe essere
mutuato anche semplicemente sul piano psicologico o sul piano di una
riflessione umana, è amplificato, per chi crede. È amplificato perché io mi
rendo conto che se anche la giornata che stiamo concludendo insieme in
Episcopio, fosse stata una “giornata-no”, non è la
fine del mondo, non dice che io non sono stato voluto, ma è una goccia
d’inchiostro in un oceano di latte: si perderà, non si vedrà, non la vedrà
nessuno, perché io sono stato voluto. Questa volontà di Dio, questa volontà
creatrice, questo esercizio dovremmo farlo ogni mattina, alzandoci. La giornata
si comincia così, cari miei; si comincia con la grinta di dire: Io sto qui e
non sono un intruso, non mi sono intrufolato, non ho percorso vie strane per
presentarmi a questo concorso della vita, non ho fatto carte false. Io ci sto
per una chiara volontà di Dio creatore, che mi ha voluto. Questa è una corazza
mattutina contro cui si scaglieranno inutilmente i
dardi e gli eserciti (Mille cadranno al
tuo fianco, diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire - Salmo
90). Ma se non c’è questo, allora… Quello
non mi ha guardato! Quello non mi ha salutato! La signora per le scale ha fatto
finta di non vedermi… Queste cose diventano drammi. Oppure: Non è andata bene… Non ho ricevuto la
gratificazione che mi aspettavo… Cioè ci aspetteremmo la certificazione dagli altri, quando invece ci viene
dall’alto e ci viene da dentro. A volte gli altri ci aiutano e ci dicono: Bravi! Quando ci fanno l’applauso, ce lo prendiamo e diciamo: Deo gratias!
Ma a volte possono anche venirci dei fischi: e i fischi possono per caso
scalfire questa coscienza? No, non la scalfiscono.
Io
sono stato voluto: cominciamo così, e basterebbe
questo per tenerci occupati per giorni e per mesi.
E. Morricone: La leggenda del pianista
sull’oceano
E. Morricone:
“Io sono stato voluto” è l’orizzonte, lo
spartito, il pentagramma su cui si innervano, si innestano, si scrivono i
componimenti musicali della nostra esistenza.
***
Il
secondo nodo della vita - è come se ci fossero degli snodi, dei nodi, dei punti
nevralgici (almeno così è parso a me, mentre pensavo a questo incontro) - è:
Dono e compimento:
quando la grazia
sposa lo sforzo.
Prendo
il binomio “dono e compimento” da Giovanni Paolo II che, in
occasione del suo 50° di Presbiterato, scrisse un libro che alcuni di
voi forse hanno letto, in cui racconta la storia della sua vocazione, a partire
dall’esperienza della sua infanzia, dell’essere attore.
“Dono
e compimento” costituiscono l’incrocio di due direttrici: innanzi tutto quella discendente (dono). Ognuno di noi, nella sua
vita, è un dono. Questo era già insito nel “sono stato voluto”,
perché se Dio mi ha voluto, Dio non può volere il male, può volere solo il bene
(tra le tante cose che Dio non può fare è volere il male: anche Dio ha dei
limiti…). Dio non può volere il brutto, non può volere uno sgorbio, Dio può
volere solo il bene. Il bene sono io, non solo nella
struttura d’essere umano maschile o femminile ma, entrando più a fondo, nel
modo, visto che stiamo montando un film: io sono stato un prete, adesso sono un
vescovo; tu sei un carabiniere e adesso sei il marito di Maria Teresa; tu sei
professore e prima eri… Entriamo nel ruolo che abbiamo svolto, che stiamo
svolgendo nella vita, che non è un accidente, ma ci struttura perché non è un
fatto esterno. Il fatto che questi due giovani siano musicisti non è
solo una dimensione professionale, nel senso deteriore del termine,
ma “professione” contiene il verbo “professare”. Non so se ci avete mai
fatto caso, ma noi diciamo “professione” anche nella vita religiosa (le suore
hanno fatto la professione); loro svolgono la professione di musicisti, voi la
professione di imprenditori… La professione non è un abito, ma è un elemento
strutturante la nostra vita, tant’è vero che ci sono
le malattie professionali, cioè quello che noi facciamo nella vita non è
finalizzato al solo sostentamento – e quindi ad uno stipendio, alla possibilità
di avere un’autonomia nostra e per i nostri figli – ma è anche un modo di
realizzarci e, dunque, un modo di influire sul mondo, perché noi influiamo sul
mondo col nostro modo d’essere, qualsiasi sia la nostra professione, anche la
più umile, anche la più semplice (anche la casalinga ha il suo spazio
d’influenza). Quindi entriamo nell’aspetto professionale e vocazionale, che
parte da un desiderio, poi attraversa una fase di studio, e poi si esplica
nell’insegnamento, nella conduzione di una comunità, nell’essere concertisti o
in altro. La nostra professione cos’è? È un dono ed è un compimento.
“Dono”
esprime la scelta del regista che ci ha affidato questo compito. Il fatto che
io sia il vostro Vescovo – e spero che voi lo crediate, a prescindere dai miei
demeriti – non è “quel giorno è uscito questo numeretto
dalla tombola e allora ce lo teniamo: questo ci è
capitato!”. No, siamo in una dimensione vocazionale, vostra e mia, cioè io
dovevo essere qui e voi dovevate essere con me per un tratto di strada che non
sappiamo quanto durerà. Quello che è importante è comprendere che anche questo
non è un caso, cioè la professione non si fa così (e ciò è molto lontano nella
percezione delle persone, tanto più dei giovani): Guardiamo all’università dove si può entrare… Vediamo il percorso più
breve… Vediamo dove non c’è il numero chiuso… Questo è un modo di partire –
se si parte in questa maniera – che potrebbe portarci a fare una cosa che non
ci piace e che, probabilmente, non è neanche il dono che Dio voleva farci,
perché una professione, pur con tutti gli oneri, deve piacerci, perché nella misura
in cui ci piace, noi la facciamo bene; se non ci piace, la faremo in una
maniera pedante. Il mondo, purtroppo, è pieno di professionisti che dovevano
fare un’altra cosa, di preti che si dovevano sposare e di persone sposate che
si dovevano consacrare: insomma, una confusione! È come se fossimo giunti tardi
alla consapevolezza che quello che dovevamo fare non era lasciato solo alla
nostra libertà, e tantomeno alle emergenze economiche, ai percorsi
universitari, al numero chiuso.
Dio
mi ha voluto prete. Questo lo posso dire e posso anche dire: Dio mi ha voluto
Vescovo di questa Chiesa. Io devo accogliere questo come dono e tu, qualsiasi
cosa stia facendo (sperando che tu sia nella volontà di Dio, se hai fatto un
discernimento al minimo consapevole), quello che stai svolgendo è un dono,
perché il regista - ricordate, stiamo montando il film - ti ha voluto comparsa,
ti ha voluto primo attore, ti ha voluto in questo o in quel ruolo. Questa è la
dimensione del dono, ma non basta, perché tante persone sanno cosa “dovrebbero”
fare, ma non lo fanno. Non stiamo semplicemente a leggere uno spartito che ha
scritto un Altro – e sapete che questo comunque è impossibile, perché una
lettura è sempre personale e personalizzata – ma stiamo a scrivere uno spartito
di cui ci sono state date le note iniziali. I musicisti - e anche quelli fra
voi che sono passati attraverso queste tipologie d’esame - sanno bene che al
Conservatorio, immagino in Composizione o in Armonia, ci sono degli esami fatti
così: anziché dare la traccia, per dirla col tema della composizione d’italiano
di una volta, si danno delle note, un motivo accennato in poche battute, e
ciascun alunno deve armonizzare quel tema, deve lavorare su quel tema musicale.
Da un lato, abbiamo una determinazione di chi ha messo quelle
note: le ha messe con quella tonalità e con quel tempo (lì non possiamo
intervenire, perché se il tempo è 4/4 e tu fai una composizione con un altro
tempo, allora… Mi dispiace, lei è
bocciato: deve tornare!). Quindi, da un lato, non scriviamo quello
che vogliamo, perché ci sono delle indicazioni, c’è una chiave di violino o
d’altro, in cui dobbiamo inserirci con la nostra creatività; dall’altro, noi
abbiamo uno spazio enorme di autonomia e dobbiamo percepire questo spazio come
un compito.
“Compimento”,
prima, è “componimento”, cioè lo devo comporre, e dal momento che io sono un
uomo unico e irripetibile, tu una donna unica e irripetibile e tu voluto in
questa maniera, ciascuno, nel suo dono, deve inserirsi con una creatività, una
determinazione, un’ampiezza di respiro, di pensiero che renda quel dono il mio
compimento.
Ho
messo come sottotitolo: “quando la grazia sposa lo
sforzo”.
È
chiaro che c’è la grazia, che viene dall’alto. Torniamo ai nostri due sposi
appena rientrati dall’Egitto, abbronzatissimi: la grazia del Matrimonio l’hanno
ricevuta, l’avete ricevuta anche voi, ma questa grazia comune non ci rende
fotocopie. La grazia dell’Ordine che accomuna me, Rosario, Don Tommaso, Don
Geppino, Peppino per il diaconato, è la stessa grazia, ma ovviamente, poi, si
cala nella mia persona, nella persona di Don Tommaso, nella persona di Rosario
e ne fa delle opere uniche.
Il
binomio “dono e compimento” credo che ci aiuti a rivalutare la nostra libertà:
qui c’è tutta la creatività, cioè tu puoi rendere il tuo Matrimonio come non ce
n’è mai stato uno simile. Adesso è facile dirlo, di ritorno dal viaggio di
nozze, difficile dirlo dopo un anno, cinque anni, dieci anni, vent’anni,
trent’anni, ma dobbiamo sentire che questo dono, che ci è dato anche ora, aspetta
d’essere portato a compimento. La parola “compimento” esprime anche ciò che è
in abbozzo e ciò che è opera finita, ciò che è
progetto e ciò che è realizzazione del progetto: è il tempo della nostra vita.
La nostra sarà una bella vita, spero, non nel senso napoletano del termine, se
alla fine quello che Dio aveva in mente (la grazia), nell’incrocio con la
nostra libertà e con la nostra volontà, ha fatto sorgere delle opere d’arte che
siamo noi o - speriamo - che saremo noi.
E. Morricone: Cinema Paradiso
Che ne sai tu di un campo di
grano
poesia
di un amore profano
la
paura d’esser preso per mano, che ne sai…
E di un mondo tutto chiuso
in una via
e di
un cinema di periferia
che
ne sai della nostra ferrovia, che ne sai…
Mi
sono venuti in mente questi versi di una canzone di Battisti della nostra
adolescenza, in merito a Cinema Paradiso, che
alla fine è il cinema dei sogni, il tempo dove il poco era tanto, “un mondo
tutto chiuso in una via”, dice Battisti, cioè un mondo piccolo, un “piccolo
mondo antico” ma bello; in questo mondo, in questo cinema di periferia, di
quando il cinema non era così accessibile, anzi, era un evento, si è svolta una
stagione della nostra vita.
Che
ne sai tu? – diceva il testo di Battisti. Questo non possiamo dirlo a Dio, perché
Lui lo sa e perché questo “mondo tutto chiuso in una via”, “la paura d’esser
preso per mano” dalla ragazza, tremare per uno sguardo, ci ha strutturati.
Entrano anche queste scene, entra anche il modo con cui ho vissuto
l’adolescenza, con queste canzoni che ho ricordato e che immagino siano state
anche le vostre; siamo cresciuti con gli amori di Battisti che all’epoca
sembravano così strani (oggi sarebbero discorsi per educande, si sarebbe detto
una volta, cose quanto mai innocenti rispetto a quello che si vede e si sente
in giro). Io sono stato anche questo, e quelle esperienze, quei sogni – Cinema Paradiso – avere gli occhi sgranati, proprio
dei bambini, appartiene alla grazia della mia vita (sono ancora su “grazia e
compimento”).
Tra
poco verrà eseguito “C’era una volta in America”.
C’era
una volta? Non c’è più? Il film, almeno per quello che ho
sempre orecchiato (invece conosco benissimo le colonne sonore), sembra un mondo
perduto, ma l’America che c’era una volta, c’è anche adesso; quel bambino che
c’era una volta, c’è anche adesso; quell’adolescente che aveva paura d’esser
preso per mano, c’è anche adesso. Voglio dire che nulla è perduto.
Questo spezzone della nostra vita ci appartiene e lo devi montare: montalo
bene, prendi la scena migliore, prendi il taglio di luce più adatto, prendi
l’inquadratura che ti aggrada di più, ma senti che c’è un filo in queste scene,
che non è un film insensato, un po’ alla Fellini (per
restare in tema cinematografico). Non so se avete visto, da ragazzi, da
adolescenti, “Otto e mezzo”: c’era da perdere la testa! A volte abbiamo la
percezione di scene che non si legano. Non so se avete visto, in passato (i
miei ricordi sono lontanissimi), film di Buñuel, un po’ surrealisti,
dove apparentemente non c’era una trama, c’era una confusione di tempi, di
epoche, scene del Cinquecento, scene attuali… A volte facciamo così anche nella
regia o nel montare le scene della nostra vita; invece c’è una continuità, c’è
una storia: quello che ero è ancora presente in me, anche – e questo tengo a
dirvelo – quello che di buono ho percezione d’aver perduto. Allora,
non c’era una volta l’America, ma c’è anche adesso; è chiaro: in evoluzione,
cioè io non sono il bambino, ma il bambino è in me; non sono l’adolescente, ma
l’adolescente è in me; non sono il prete che diceva la prima Messa nel ’79, ma
sono lo stesso, nel mutamento.
Allora
“dono e compimento” si raccoglie anche nella percezione che ci sono doni del
passato che si evolvono e che diventano grazie, e che vengono
percepiti tali solo nel compimento, solo a 50’anni. Ci sono cose della mia
infanzia che io ho capito adesso; ci sono incontri, ci sono intuizioni della
mia adolescenza che si vanno chiarendo man mano che vivo, cioè man mano che il
film si svolge. “Dono e compimento” è anche come dire che nulla è perduto:
recupera la tua infanzia, recupera la tua adolescenza.
Che ne sai tu di un campo di
grano
poesia
di un amore profano
la
paura d’esser preso per mano, che ne sai…
E di un mondo tutto chiuso
in una via
e di
un cinema di periferia
che
ne sai della nostra ferrovia, che ne sai…
Lo
so – dice Dio, ma ne ho anche percezione io, oggi, da grande.
E. Morricone: C’era una volta in America
***
Magnificat e miserere:
polmoni della vita.
La
nostra vita è un pendolo tra questi due canti. Il Magnificat è il canto di
Maria che
Se
domani – e spero non vi dispiaccia – doveste scrivere
un testamento, questi due termini devono essere presenti. Magnificat: Com’è stato bello vivere! Sono proprio
contento! Grazie! Questo è un modo infantile - e dovremmo trasmetterlo nel
testamento - per dire ai nostri figli: Guarda che tuo padre è stato contento di
esserci, nonostante i suoi errori.
L’altro
canto è il Miserere; mentre il Magnificat è in tonalità maggiore, il Miserere è
in tonalità minore perché è il salmo del pentimento, perché non tutto è andato
bene, perché in questo sforzo che doveva sorreggere la grazia, non sempre sono
stato all’altezza, ma nessuno è pienamente all’altezza del dono, per cui il compimento sarà sempre un po’ sottotono. Allora,
per questo, abbiamo bisogno di riconoscere d’aver sbagliato, dobbiamo
riconoscere in un testamento eventuale d’aver bisogno del perdono degli altri.
Per tutto quello che non ho fatto e non sono stato, vi prego di perdonarmi - io
potrei scriverlo in un testamento - cioè scusatemi per quello che non sono
riuscito a dirvi, a fare, a rappresentarvi, perché il compito (Magnificat) era
troppo alto per me: la grazia era esorbitante, fenomenale, ma il vaso che l’ha
contenuta è un vaso fragile e, quindi, non sono riuscito appieno a rispondere
alla vocazione a cui ero stato chiamato.
Se
tenete presente questo pendolo, accedete a una grande pace, perché da un lato
diciamo grazie, e dall’altro diciamo “perdonami”; da un lato diciamo “è grande
l’opera cui sono chiamato” e dall’altra - come dice Paolo - noi portiamo questo
tesoro in vasi di creta. E i vasi di creta si rompono, sono sbrecciati, non
sono mai perfetti, soprattutto quando si usano, e una
vita si usa; come i vasi su un carro si toccano e si feriscono, così tra noi:
anche tra noi che ci vogliamo bene, anche tra marito e moglie questi vasi a
volte cozzano, ma dentro ci sono dei tesori. Guai a fermarmi al vaso! Invece,
dentro questo vaso c’è una ricchezza.
Ho
messo “polmoni della vita” perché credo che una vita, senza questi due
riferimenti, è una vita asmatica, è una vita col respiro difficoltoso, perché
se stasera – ma magari sto sfondando una porta aperta, come spero – uno di voi
scopre che il Miserere deve esserci, allora è come se presupponessimo una infedeltà, è come se mettessimo in conto, in cantiere,
in progetto, una difficoltà a rispondere pienamente, che c’è stata per i santi
e tanto più per noi.
Mi
va di dire, concludendo questo momento, che sul Miserere forse ci siamo più che
sul Magnificat, stranamente, cioè siamo più inclini all’atteggiamento
penitenziale che non a quello della lode; più a dire “ok,
ho sbagliato”, che non a magnificare il Signore per quello che opera in noi o
magnificare il Signore per quello che opera negli altri. Allora, mentre
ascoltate il prossimo pezzo, pensate a voi ma anche ai vostri figli, e dite:
Signore, ti ringrazio per mio figlio…
Per
esempio, ascoltando “C’era una volta in America” ho pensato ad Angela e Luca: loro figlio, Gianni, in tante messe (Don Tommaso
inorridirà), mentre io facevo la preghiera eucaristica, mi accompagnava col
flauto con “C’era una volta in America”. Per me era un testo di grande
raccoglimento, perché aveva una linea un po’ nostalgica. Allora riconosciamo
anche i doni e diciamo grazie: Grazie perché questa persona ci sta accanto,
perché i nostri figli (magari non sono stati quelli che abbiamo sognato) hanno
delle doti.
Signore,
ti ringrazio (Magnificat). Signore, abbi pietà di me (Miserere).
R. Lovland: Song from a secret garden
***
Avrei voluto: natura e arte
“L’arte è vincente dove la natura perde”.
“Avrei
voluto” è un’espressione che mi è molto cara da qualche anno, avendola trovata
in una mistica francese del Novecento, Madeleine Delbrêl - forse ve l’avrò già citata qualche altra
volta - una donna che ha portato avanti, negli anni ’50-’60, nella periferia di
Parigi, una testimonianza accanto agli operai, nei sobborghi; ha ideato una
nuova congregazione femminile - senza volerlo, per la verità -, ma negli stessi
scantinati, negli stessi condomìni degli operai,
condividendone la vita. Col passare degli anni, questa
esperienza appariva in tutta la sua luminosità, con la santità di questa donna,
e il padre spirituale, rendendosi conto che il tempo passava e che quindi anche
la morte di Maddalena non era lontana, le disse: “Scrivi qualcosa per le tue
figlie: se dovessi mancare, non c’è scritto niente”. E lei, con una
semplicità, scrive in una notte una paginetta con
questo intercalare: “Avrei voluto”.
Mi
ha commosso talmente che questa cosa mi è rimasta impressa; non dice alle sue
figlie, come si fa di solito: Bisogna
fare così, io ho fatto così e anche voi…, ma, con quell’ “avrei
voluto”, dice di inseguire un sogno che ammette di non aver realizzato. C’è
un’umiltà in questo “avrei voluto” che spero rimanga anche nel nostro cuore,
cioè ognuno di noi deve portare dentro uno scarto tra il sogno e la realtà, tra
il giardino segreto che ho immaginato e quello che ho (magari la porta è
sgangherata, non è proprio un giardino all’inglese e neanche un giardino
all’italiana, ma una grande confusione). Anche su povertà, castità e obbedienza,
Madeleine Delbrêl dice: Avrei
voluto vivere così la castità, avrei voluto vivere così l’obbedienza, avrei
voluto vivere così la povertà. Questa cosa mi è tornata in mente in un
incrocio, avvenuto proprio questa settimana, all’interno di un romanzo storico
- La chioma di Berenice - in cui ho trovato una citazione di un autore greco
minore (il libro è una miniera di citazioni): “L’arte è vincente dove la natura
è perdente”.
Noi
apparteniamo alla natura umana, limitata, nonostante tutti gli sforzi,
nonostante la voglia di fare “alla perfezione”: abbiamo la possibilità di
superare la natura, limitata, attraverso l’arte. Mi è sembrata una definizione
particolarmente bella, cioè l’arte è una sorta di salto oltre se stessa, che la
natura fa, vincendo laddove naturalmente perde. Per esempio: la morte (facciamo
l’esempio più semplice). Michelangelo o anche gli autori di queste tele o di
quegli stucchi o di questo pezzo di cassettonato
della sacrestia prima del bombardamento, sono morti; i pezzi stanno ancora qui.
Allora, nell’opera d’arte, l’artista supera la morte: questa è una riflessione
umana, poi magari per noi ha ancora più senso. Le costruzioni di Walter,
Angelo, sopravviveranno a loro? E tutte le sciocchezze che ho messo in giro
qui, più o meno falsi d’autore, come il San Paride che appena ieri ho messo
giù? Le mie estrosità – come direbbe l’architetto Angelo – sopravviveranno a
me? Quella statua è di marmo tutta d’un pezzo e il marmo ha una sua durata
“oltre”; in questo romanzo si dice che le piramidi in Egitto erano un modo
anche di eternizzarsi da parte dei faraoni e di
pensare ad una vita ultraterrena. Allora, da un lato, “avrei voluto” - e quindi
ognuno di noi deve prepararsi ad uno scarto: sappiatelo, mentalizzatelo
e tranquillizzatevi al tempo stesso - ma c’è una possibilità di superarlo
questo scarto, di saltarlo? Sì, se tu fai della tua vita un’opera d’arte,
perché l’arte va oltre l’artista, perché la produzione artistica ha un arco di
vita di gran lunga superiore a chi l’ha fatta. È un
invito ad essere artisti tutti? Certo, ognuno nel suo campo; anche i due
medici, marito e moglie, sono artisti, cercando di sopportare i pazienti, ma
anche aiutandoli nelle loro patologie. Ciascuno di noi può rendere la propria
vita un’opera d’arte e, come questo autore greco minore dice, “l’arte è
vincente laddove la natura è perdente”: è un invito ancora di più a lanciarci
oltre l’“avrei voluto”, in una struttura bella - perché poi l’arte è
fondamentalmente bellezza - della nostra vita.
N. Piovani: La vita è bella
***
Alleluia!
“E vissero felici e contenti”.
“La
vita è bella” ci ha già introdotti nell’ultima parola a cui
dedico soltanto una frase. Nel prontuario per la vita dobbiamo mettere una
conclusione da fiaba e non per addolcire la pillola amara, ma perché così è,
cioè la vita è bella: se è bella anche nei campi di concentramento, tanto più
alla fine, quando scopriamo che è tutto vero, come dice il bambino contento sul
carrarmato che ha
ricevuto in premio. Allora veramente il meglio deve ancora venire e ce lo dobbiamo dire stasera, concludendo, altrimenti le
ferite della vita, i fallimenti, i vari Miserere ci affliggono a tal punto, da
farci pensare che andremo di male in peggio, ma questa non è una visione
cristiana della vita.
La
visione cristiana della vita è tensione verso una realizzazione dove l’arte
umana, che ha tentato di essere vincente laddove la natura è perdente, sarà
piena. Questo lo dico anche per quelli fra voi – e ce ne sono diversi – che
oggettivamente, per quello che ne so (magari ce ne saranno tantissimi), stanno
vivendo situazioni di disagio, situazioni di prova, situazioni di lacerazione
familiare.
“E
vissero felici e contenti” è quella frasetta del
discorso delle fiabe che più siamo andati avanti negli anni e più abbiamo
ritenuto inutile e coreografica. Forse ne è l’aspetto più importante, perché è
l’unica espressione di una fiaba che veramente si realizzerà, e se noi abbiamo
questa percezione, cari amici e cari figli, noi siamo pronti a superare ogni
asperità dell’oggi, siamo pronti a combattere qualsiasi battaglia e siamo
pronti a pagare qualsiasi prezzo. Andiamo incontro a questo (chiamalo Paradiso,
chiamala eternità, chiamiamola resurrezione, chiamiamola comunione, chiamiamolo
incontro pieno con tutte le persone, le cose e i luoghi che abbiamo amato):
quello che è importante è sapere che stiamo andando verso un compimento
gioioso. La fede, continuamente, ci ricorda questo, ma noi, più andiamo avanti,
più diventiamo scettici e diciamo: Sarà
vero? Forse è un’illusione… Forse è una frasetta per
chiudere una fiaba che invece è una tragedia… No, è una fiaba: è una fiaba
anche la tua vita tragica, anche un’esperienza continuamente attraversata dal
dolore, dallo scacco, dalla perdita.
Io,
in questo senso, prima di ascoltare quest’ultimo brano, vi benedico: vi
benedico perché riceviate questa buona notizia, che è la notizia di un
Matrimonio. Vi ho preparato anche dei confetti: alla fine, prendete un confetto
di un amore nato qui, in una sera “In punta di piedi”. E a questo punto mi sono
detto: Ma allora servono a qualcosa queste serate!,
perché Maria Teresa ed Ernesto non si erano mai visti. È bella questa cosa,
perché è una fiaba… È bello pensare che, quella sera, Ernesto non aveva voglia di venire: Ma
che vengo a fare? Sarà una cosa di preti, in Episcopio… Aveva anche mal di
testa, non voleva venire, poi è venuto e ha incrociato gli occhi di Maria
Teresa. Queste cose sono accadute qui, in questa sala, durante un “In punta di
piedi” dell’anno scorso; sono passati dodici mesi e questi due si sono sposati,
a dire – e prendetelo come un segno, perché noi abbiamo bisogno di segni – che
le fiabe sono vere, si avverano. Allora questo lo riceviamo come dono,
attraverso la benedizione.
Benedizione
del Vescovo
U. Calamandrei:
La preghiera degli Angeli
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.