In punta di piedi in Episcopio

Ritiro per adulti

guidato da

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

Fratelli d’Italia

Tra storia, storiografia e fede

 

Teano, 23 febbraio 2011

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Soprano: Sabrina Messina

Pianoforte: Maria Teresa Roncone

 

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Innanzi tutto benvenuti. Iniziamo come sempre il nostro percorso artistico-spirituale - o spirituale-artistico, che dir si voglia - nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Salutiamo Sabrina Messina, Maria Teresa (che è di casa), che sono gli artisti che questa sera ci aiutano a pregare.

 

Ave Verum – W. A. Mozart  

 

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Dal Vangelo secondo Marco (3, 31-35)

 

31 Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». 33 Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». 34 Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».

 

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Forse, vedendo il titolo – Fratelli d’Italia –, avrete pensato ad una serata patriottica, ma lo è appena di striscio. Ho voluto mettere questo titolo un po’ per contestualizzarci nel 150° dell’unità, ma ovviamente senza sbavature - sapete che non mi appartengono - sul piano dell’epopea.

A partire da questo testo, lontanissimo duemila anni dagli eventi storici che stiamo commemorando, vorrei guardare l’essere fratelli, l’essere famiglia (di qui “Fratelli d’Italia”).

Da dove nasce questa fratellanza?

Innanzi tutto guardiamo il testo. È un testo di crisi; direi, innanzi tutto, un testo di crisi familiare, così come ce ne sono tante, ce ne sono state tante nella nostra vita e ce ne sono nella vita di quelli fra voi – tanti – che sono genitori. È il momento del distacco, è il momento un po’ della contestazione o, se volete, del tirarsi fuori del figlio da quell’alveo familiare che è stato così essenziale ma che, ad un certo punto della vita, può risultare asfissiante. È così nell’ordine delle cose: per questo ci si sposa, si dice in tre punti diversi della Bibbia (Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre). Ma questo non riguarda una famiglia qualsiasi, ma la famiglia di Gesù e, quindi, anche Maria. Ave Verum ha fatto riferimento al “Corpo nato da Maria Vergine”; è un testo eucaristico, ma fa riferimento alla Vergine, e così anche le modulazioni dell’Ave Maria di Caccini, che ascolteremo tra poco.

Quindi Maria ha vissuto come tutte le mamme questo dramma e, chi fra voi lo ha vissuto, sa che è un dramma a tutti gli effetti: mio figlio, colui che ho allevato, colui che mi girava intorno e che aveva bisogno delle mie coccole, adesso ha bisogno delle coccole di un’altra. Certo, questo non è accaduto per Gesù, ma descrivo in una maniera molto immediata e forse anche dolorosa quel senso di gelosia che nasce all’atto in cui coloro che amiamo manifestano desiderio d’altro, guardano fuori. Gli adolescenti guardano sempre fuori dalla finestra, anche quelli che abbiamo a scuola: guardano fuori dalla finestra, hanno altri appuntamenti, hanno telefonini che squillano, hanno richiami della foresta che li attirano. È bello pensare che questo sia accaduto anche a Gesù: non siamo più sul piano adolescenziale, anzi, per l’adolescenza di Gesù, come vi ho detto altre volte, c’è il brano dello smarrimento e del ritrovamento nel Tempio, che ha proprio una sua caratterizzazione (Gesù aveva 12 anni e quello è il tempo dove si comincia ad affermare se stessi, anche distanziandosi un po’ dai genitori), ma qui abbiamo un Gesù già giovane, che ha operato questi tagli, ma la famiglia chiede un posto, reclama un posto in prima fila. Tra l’altro, il testo di Marco dice “stando fuori”, cioè non entrano, non si mischiano; in qualche maniera c’è anche una voglia di distanziarsi dalla vita nuova del figlio: Noi non ci mischiamo tra questa gente, tra gli amici!, noi siamo i parenti!, noi siamo i genitori!, noi siamo quelli del sangue! Quindi, stando fuori, lo mandano a chiamare.

Mettiamoci un attimo nel cuore di Cristo che si sente lacerato tra queste due famiglie: Qual è la mia famiglia?, quella che mi manda a chiamare? Lo manda a chiamare la famiglia di sangue (anche se sappiamo, per fede, che non è così per Gesù, ma non sappiamo quanto egli ne avesse coscienza umana). Quindi c’è la famiglia che lo manda a chiamare e che gli dice: “Vieni! Siamo i tuoi!” e, dall’altra, c’è la nuova famiglia che Gesù si va costruendo, va costituendosi intorno a lui, la famiglia dei suoi discepoli. Come vedete, una lacerazione.

Noi viviamo sempre facendo ponti tra famiglie diverse, e quelli tra voi che sono sposati sanno bene i drammi che nascono in casa per i “tuoi” e per i “miei”: Natale e Capodanno, per esempio, per dare una nota molto concreta… Quindi, continuamente, noi siamo tra due famiglie. Pensate, per esempio, alla nostra doppia cittadinanza di cristiani e di cittadini italiani; siamo cittadini italiani a tutti gli effetti, della nostra patria che celebra i 150’anni, ma facciamo parte della Chiesa: due famiglie che a volte vanno anche in rotta di collisione, due famiglie con due caratterizzazioni diverse, due famiglie che reclamano un tempo, che reclamano un’adesione. Quindi, in questo primo momento, vorrei mettermi nel cuore di Gesù che vive questa lacerazione come ogni uomo. Fate memoria: qualcuno di voi ha vissuto questa lacerazione un po’ di anni addietro, o la sta vivendo, subendo nelle scelte dei figli; altri si trovano a dover fare i conti con i “tuoi”, con i “miei”, con i “nostri”… Mi viene in mente in questo momento una battuta, che mi hanno riportato, di Matilde Serao, che credo si sia sposata più volte. Diceva, in napoletano, al marito del momento: “I figli mije, i figli tuje bisticciano co’ i nuost”. Una grande! Per dire che ci sono varie famiglie. Forse questa battuta, oggi, sarebbe quanto mai attuale. I “miei”, i “tuoi” e i “nostri”, quindi una sorta di conflitto di competenze. È bello vedere che questo è accaduto anche a Gesù; non siamo i primi, non siamo neanche in una dimensione volgare di relazioni, ma queste relazioni sono state anche divine e tutte le relazioni, prima o poi, in qualche maniera, si ammalano e vivono momenti di tensione. Cominciamo così la nostra riflessione “Fratelli d’Italia”.

 

Ave Maria – G. Caccini    

 

Questa tensione tra famiglie, tra affetti, tra la famiglia di ieri e quella di domani, è anche una tensione tra passato e futuro. Dedico questa piccola stazione della mia riflessione a Antonio e Dolores, che stanno vivendo gli ultimi mesi prima del Matrimonio.

Cosa significa la famiglia di ieri? È il passato, la memoria, ovviamente importante (domani sarà recuperata). Noi che subiamo i distacchi – dico “noi” perché mi sento dall’altro versante –, noi che vediamo partire i figli, dobbiamo avere la certezza – e per questo dobbiamo rimanere – che essi possano e debbano tornare, un giorno. Quindi il dolore di chi resta è illuminato dalla percezione che domani la mia relazione con il figlio, con la figlia che si sposa, che va via, possa essere recuperata, e alla grande; certo, non tornando alle dinamiche infantili, adolescenziali o giovanili, ma prima o poi l’uomo torna a casa sua, alla sua casa.

Dall’altra, c’è la famiglia del futuro, e qui “futuro” ha tutta la pregnanza della dimensione rivoluzionaria degli affetti. Gli affetti sono rivoluzionari: lo sapevano bene gli antichi che cercavano di programmare i matrimoni, soprattutto in alto, nell’aristocrazia, perché un matrimonio rompe un equilibrio, un matrimonio crea una nuova realtà e, quindi, per preservare il patrimonio oltre che il sangue, bisognava fare in modo che ci si sposasse con una persona dello stesso rango, della stessa classe sociale. In realtà il Matrimonio ha di per sé una nuova relazione, ha di per sé una dimensione rivoluzionaria, perché rompe gli equilibri, crea una cosa nuova, apre un “nuovo mercato” - si sarebbe detto un tempo -, getta un ponte tra due famiglie che non si sarebbero mai incontrate, che non sarebbero mai state commensali, che non avrebbero mai festeggiato insieme i natali. Allora, questo aspetto del futuro dice novità, ma dice anche una novità che, per nascere, deve rompere un equilibrio precedente. Ovviamente dico cose molto scontate, per certi aspetti, ma anche, se ci pensate un attimo, poco tematizzate.

Quanto il matrimonio del figlio, della figlia, ci sconvolge? Quanta percezione abbiamo, al di là della sofferenza affettiva, che quello che di nuovo si va a costituire apre un orizzonte che è rivoluzionario?, perché è il nuovo, è l’apertura di un nuovo mercato, è entrare in un nuovo mondo, è crearsi nuove possibilità anche di vita. Ovviamente questo – mi potreste dire – non riguarda Gesù; non lo riguarda nei termini cui sto facendo riferimento, perché Gesù non si sta sposando, ma con la stessa intensità sta creando una nuova famiglia che si chiama Chiesa (una Chiesa nascente, di cui forse al momento non c’è neanche piena consapevolezza), e stabilisce una relazione nuova, non più di sangue, ma una relazione fortissima tra il Maestro e i discepoli. Allora, quella lacerazione che vi ho tematizzato nel primo momento, la guardiamo come tensione dolorosa tra antico e nuovo, tra passato e futuro. Il presente è questo, il presente è Gesù che sta parlando e qualcuno va a tirargli il mantello e dice: “Guarda che c’è una visita inaspettata! Devi smettere, devi interrompere, devi dedicarti un po’ ai tuoi”. Ma questo è giusto? Questo deve rientrare nei canoni di un buon comportamento?, di un comportamento integro, di buone maniere?, o qui si sta realizzando qualcosa di nuovo che fa saltare anche il galateo?, per dirla con un termine classico.

Sì, sta avvenendo qualcosa di nuovo.

Ho tematizzato “vecchio” e “nuovo” perché a volte noi abbiamo paura – e qui, ovviamente, mi affaccio anche sul tema della commemorazione storica – e ci rifugiamo nel già conosciuto. È la volta in cui il figlio torna a casa, in cui si rompe il Matrimonio, in cui torno da mio padre, torno da mia madre, torno dai miei, cioè torno nel mondo di prima, torno bambino, perché ho paura del nuovo; ne hanno paura i giovani - e lo sapete bene - forse oggi più di ieri, ma ne abbiamo paura anche noi grandi, noi adulti. Se Gesù riuscirà a superare questa barriera del suono, che è far soffrire sua madre dicendo: “Tu non c’entri” – oppure – “C’entri, se ti unisci a questa nuova cerchia, a questa nuova famiglia”, questa sofferenza, che immaginiamo essere anche del figlio, anche del Maestro, sarà una sofferenza redentiva, una sofferenza generativa. Ecco, in fondo, se ci pensate – e accenno solo il tema – 150’anni fa, noi avevamo le nostre sicurezze; noi del Sud siamo quelli del Regno delle Due Sicilie, avevamo anche la nostra cultura e la realtà dello stato unitario ci faceva paura: Tronchiamo queste novità!, smettiamo di pensare al nuovo e beviamo – è nuovamente Gesù – il vino vecchio, perché quello lo conosciamo. Più volte, nella predicazione di Gesù, con le immagini “botti”, “vino”, si esprime la difficoltà tra il nuovo e l’antico, tra quello che urge nel domani e quello che è la mia storia, quello che ero prima. Ancora oggi, se ci pensate, a volte facciamo dei tuffi nel passato, che non sono dei tuffi belli della nostra nostalgia, ma sono delle vere e proprie regressioni, cioè torno perché non voglio più responsabilità. Vedo a volte, oggi, dei quarantenni, dei cinquantenni, in particolare maschi, che si tirano fuori: “Basta! Pensaci tu ai figli!”. Mi ritiro dietro il giornale (per dire la cosa più ingenua) e vado ad abitare da solo, perché il nuovo ci scomoda - e i figli, continuamente, ci portano in casa novità, nuove amicizie, ci portano in casa il mondo -, il nuovo ci provoca, il nuovo ci impaurisce.

 

Notte di stelle – B. Godard    

 

La crisi, la famiglia di ieri e la famiglia di oggi, il passato e il futuro che bussa alla porta, il pericolo della regressione: sono aspetti comuni, feriali, pericoli dietro l’angolo. A volte, nella stessa giornata, viviamo momenti dove ci rincantucciamo da qualche parte, in una storia, in una musica, in un ricordo, mentre il futuro bussa alla porta. La parola di Gesù adulto, di Gesù che allontana la tentazione di “madre napoletana”, cioè della madre nel senso matriarcale, ci stimola anche a fare salti di qualità ogni giorno, in tante situazioni diverse. Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse (e anche noi dobbiamo dirlo): “Ecco mia madre, ecco i miei fratelli”, cioè si sta realizzando qualcosa di nuovo, sta nascendo un novum; sta nascendo, nel caso nostro, l’Italia. Guardiamo un attimo i contendenti di questa nascita dal nostro punto di vista (potrebbe essere il titolo di una conferenza d’altro tipo e d’altra competenza che non sia la mia): “Fratelli d’Italia tra storia, storiografia e fede” (la fede l’ho aggiunta io, i padri non ce l’avevano, e tantomeno Garibaldi, Vittorio Emanuele o Cavour).

Che significa “tra storia e storiografia”? Questo termine credo che sia chiaro a molti di voi, ma conviene che spendiamo un attimo per mettere una piattaforma. Altra è la storia, altra è la storiografia.

La storia è quello che è accaduto (anche se si dice che quello che è accaduto non è mai trasmesso così com’è accaduto), ma questo occhio che riguarda anche l’accaduto, quello che avete letto sui giornali oggi, gli eventi accaduti ieri, in qualche maniera è già storiografia, perché è una rilettura, ed è una rilettura di parte.

Quindi perché, tra storia e storiografia, questi fratelli d’Italia fanno ancora fatica ad incontrarsi? Perché la storiografia non ci ha dato ragione, cioè non ha messo sullo stesso piano queste due realtà, queste due anime della penisola italica che andavano a incontrarsi, che facevano un contratto, che si sposavano, che facevano un matrimonio (alcuni dicevano: “Questo matrimonio non s’ha da fare!”). Ma queste due famiglie com’erano?, da dove venivano, anche se non erano così omogenee? In ogni famiglia c’erano due anime, per dirla in soldoni; non è vero – e questo lo ha detto la storiografia – che noi eravamo i poveri della situazione e venivano finalmente a portarci il pane, venivano a civilizzarci. Questa è la storiografia. La storiografia è sempre di parte e, a volte, anche artatamente, trasforma i fatti, le opinioni, le idee, per portare avanti una tesi, per difendere una dinastia, per difendere un’ideologia e quell’ideologia è di un Sud sprovveduto (in specie, il Regno delle Due Sicilie) e poi “arrivano i nostri e ci salvano”. Anche noi abbiamo le nostre pecche, ovviamente, ma ci sono degli studi che, come sapete, hanno rivalutato anche la dinastia borbonica. Ovviamente qui nessuno vuole tornare indietro, ma solo mettere dei puntini per dire come eravamo e dove eravamo. Era proprio un regno sprovveduto quello delle Due Sicilie? Sta di fatto che, per esempio, Napoli faceva pendant con Parigi, che non era la capitale di uno staterello, ma una capitale europea (termine che ancora doveva nascere), non solo perché la sorella di Maria Antonietta abitava da queste parti, ma anche per un motivo di organizzazione del lavoro di preintelligenza di una classe dirigente. Una per tutte: San Leucio.

San Leucio è una pagina gloriosissima del Regno delle Due Sicilie. San Leucio, così com’era stata pensata, e così come si stava sviluppando nelle seterie, era un’organizzazione con una qualche dimensione sindacale, rivoluzionaria per l’epoca, che anticipava cose che sul piano sociale sarebbero sorte dopo. Non è vero – dico questo senza ombra di polemiche, perché la polemica non mi appartiene per niente, come sapete – che c’era un Nord ricco e un Sud povero; anzi, gli studi recenti stanno rivelando il contrario, e cioè che l’economia del Regno delle Due Sicilie era in uno stato di gran lunga superiore delle casse vuote dei Savoia. Questo per dire cosa? Per dire lo stato di famiglia (prima del “matrimonio” come eravamo, dove eravamo), senza ripercorrere gli errori del Nord, della Padania; non vogliamo staccarci da nessuno, ma prendere coscienza della nostra ricchezza, del bene che avevamo, che siamo e che viene portato nella nuova costituzione, nella nuova famiglia, nella nuova coppia.

Ho voluto dirvi queste cose per sottolineare come c’è stato un dramma anche allora, forse non del tutto risolto; c’è stata una tensione, ma questa tensione è nata anche dalle foto non sempre autentiche, un po’ truccate - oggi diremmo -, di un Sud bisognoso. Poi lo è diventato, purtroppo.

 

Dream a summer day – L. Bernstein       

 

Quello che ho detto, ovviamente, non ha assolutamente l’obiettivo di creare fratture (già ce ne sono troppe!). Una cosa è certa: quel “matrimonio”, che noi stiamo celebrando nel 150°, doveva avvenire. E perché? Perché era il nuovo. Né il Nord (quindi né la casa Savoia, che in qualche maniera ha galoppato questa possibilità, si è trovata in un incrocio fortunato), né il Sud potevano fare a meno di giungere a quell’incontro, a quel novum. Tra l’altro, c’è anche da dire che dall’Età Moderna si è andati avanti in Europa con l’idea dello Stato nazionale. Oggi ci troviamo in un momento dove quest’idea, che ha sostenuto tante generazioni, non dico è sfaldata - faccio un esame oggettivo della realtà del mondo in questo momento - ma perlomeno è messa in forse. Lo spiegavo la scorsa settimana a Molfetta, parlando di una grande compagnia di navigazione che ha l’armamento nella mia ex-parrocchia; parlo della MSC, credo la compagnia turistica, oltre che di trasporti, seconda al mondo in questo momento, che a Piano di Sorrento ha tutti gli uffici (ben due palazzi dove si seguono le rotte, si seguono le navi, si armano - si dice -, cioè si pensa all’equipaggio), ma la sede è a Ginevra. Contemporaneamente, in altri punti del mondo, ci sono altre società collegate che dialogano. Mi chiedevo: chi controlla l’MSC? Parlo, tra l’altro, di una società che sostiene l’economia della Penisola Sorrentina, direi quasi al 60%, però è una domanda che faccio in margine a questo sfaldarsi dell’idea nazionale. Fino a 20’anni fa, lo stato era quello che difendeva in qualche maniera i diritti dei cittadini, ovviamente con le dovute restrizioni di libertà (le leggi nascono così, la società si forma in questa maniera), ma le multinazionali, o comunque le società presenti in più stati o come quella che vi ho citato, che ha la società d’armamento in uno stato (quello italiano) e, ovviamente per motivi fiscali, quello amministrativo e legale a Ginevra, influenzano lo stato italiano e tanti altri stati nel mondo, autonomamente. Questo per dirvi che ci troviamo - e sempre più andremo incontro a questa dimensione mondiale - con gli aiuti, ma anche con le pecche, che questa globalizzazione comporta.

Torniamo a 150’anni fa.

Questo “matrimonio” era incerto; ovviamente doveva farsi, perché la nazione aveva bisogno di configurarsi in tutto il territorio, ma al tempo stesso, fare incontrare anche due modalità, due sensibilità, chiedeva un sacrificio, come sempre succede in un matrimonio, da una parte e dall’altra. Oggi, l’idea che questo “matrimonio” possa ricevere una decurtazione, una separazione, è antistorica, non solo perché non andiamo più incontro allo Stato Italiano, ma all’Unione Europea, per esempio, e domani non basterà più neanche l’Unione Europea. Tutto questo - spero di non avervi confuso le idee - per dire: apriamoci al nuovo. Il nuovo è il villaggio globale, il nuovo è che da una parte all’altra del mondo ci influenziamo senza rendercene conto; il nuovo è la percezione di una mondialità che entra nelle nostre case in tante maniere, ma entra anche nella nostra mentalità. Qualsiasi tentativo, a mio modestissimo parere, di sottrarsi al flusso della storia è voler combattere contro i mulini a vento. Non credo che sia neppure sostenibile sul piano culturale, ma anche sul piano della fede. A noi sembra – poi mi dedicherò un po’ a tutto questo – che tutto il movimento dell’unità d’Italia sia avvenuto sul piano laico. Domanda, e poi vi rimando alla prossima puntata: il sentire cristiano ha in qualche maniera influenzato direttamente o indirettamente questa unità?

 

O mio babbino caro – G. Puccini      

 

È a dir poco contraddittorio che, in parallelo o in opposizione a questa convergenza sempre più ampia, sovranazionale, dove lo stato, da solo, in qualche maniera si occupa al massimo dell’ordinaria amministrazione, convivano tensioni di particolarismi. Guardiamo fuori e ci è più chiaro. Pensate, per esempio, cosa era l’ex-Jugoslavia e che cosa ha generato quel movimento, ovviamente saggio, giusto, sacrosanto, come quello che stiamo vedendo dolorosamente sugli schermi (c’è una febbre santa di libertà in giro), guardando poi cosa questo pachiderma ha generato. In effetti c’erano delle diversità culturali, che convivevano per forza all’interno di una sorta di equilibrio di forze, per cui, per molti anni, non hanno manifestato il loro desiderio di essere da soli e di essere contro altri, ma all’atto in cui si è sfaldato il Moloch, il gigante, ognuno ha pensato di far partito a sé, di fare nazioni a sé, e sono cominciate le guerre tribali, per così dire. A volte, guardare fuori aiuta a guardarci dentro. Lo stesso è avvenuto con il crollo del muro e con quel cammino progressivo di autonomie da parte di quegli stati che confluivano tutti nella grande madre dell’Unione Sovietica. Questa è una traccia che vi sto affidando, perché avrebbe bisogno di una conferenza a parte, e anche qui non sono in grado neanche di potervela fare, ma è un avvio alla riflessione personale per dire: da un lato, stiamo preparando il sole dell’avvenire con un “mettiamoci insieme”, perché uno stato non può vivere da solo, perché l’economia è sovranazionale; dall’altra, invece, c’è un movimento di divisioni, di settorializzazioni. Questo è contraddittorio, ma a ben pensarci questo avviene dentro di noi, cioè questo frazionamento che è fuori, che è la divisione Nord-Sud, questa o quella tribù contro il resto del mondo, avviene anche dentro di noi: è l’uomo che è frazionato, è l’uomo che cerca un’unità con fatica, è l’uomo che rischia d’essere lacerato in se stesso.

Vi ho fatto una domanda a cui spero abbiate dato una risposta, mentre ascoltavamo “O babbino mio caro”: qual è stato il ruolo della fede cristiana in queste vicende?

Apparentemente, anche qui la storiografia dice: quelli erano massoni… quegli altri erano così… la fede c’entra come cavoli a merenda… In realtà, l’elemento connettivo di questo tessuto è stato il campanile; non il campanilismo, ma il campanile, che era uguale. Magari quelli del Nord-Est sono meravigliosi, altissimi, picchiano verso il cielo e i nostri un po’ più tozzi (come quello della Cattedrale, a cui credo sia stato decurtato qualche elemento in passato), però il campanile lì, il campanile qui; la fede nelle parrocchie del Veneto o della Lombardia, la fede nelle parrocchie delle diocesi della Campania (per far riferimento alla nostra regione)… Per questo motivo, il Cardinale di Genova, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha tirato fuori una bella espressione, a mio parere, già l’anno scorso, quando ha detto che la Chiesa era, idealmente, cofirmataria di questa unità, perché l’unità non si fa in alto, con una bandiera, un tricolore (può non dire nulla); non si fa neanche attraverso le elezioni: sono passati tanti anni, e non so quanta reale sovranità  abbia un popolo, come recita la Costituzione. Poi la ferialità della vita e la vita delle famiglie, dei gruppi, è avvenuta in quella microsocietà che si chiama parrocchia, dove sono stati proposti e incentivati alcuni valori. Pensate per esempio all’Azione Cattolica, per fare un riferimento anche vicino a noi, cioè quanto l’AC abbia fatto da tessuto connettivo. Ricordo, nella mia prima adolescenza, d’essere stato al Nord e guardavo, con un interesse che non potete immaginare quanto grande, i mega campi-scuola che faceva l’AC del Nord, che era potentissima. Tutti i canti - anche scout, se ci fate caso, Arnaldo e Giovanna - in fondo venivano dalla tradizione del Nord e poi erano anche canti in comune (AC e scout). Ricordo di aver assistito, quindicenne o quattordicenne, sulle Alpi, a movimenti di giovani che per noi erano impensabili. Li ho poi potuti riproporre, da prete, perché li avevo visti lì, li avevo visti in Valtellina: cento giovani, duecento giovani che andavano in escursione e che poi, intorno al fuoco, la sera, cantavano “L’ora delle stelle”, per fare un riferimento che forse per Arnaldo significherà qualcosa. Anche queste associazioni hanno fatto da trait d’union, hanno creato ponti (convegni, incontri): ci si è incontrati. In questo senso, effettivamente, come dice il presidente della CEI, la Chiesa è stata cofirmataria, e quindi vuole essere propositiva in questo momento.

Concludo, e poi andiamo a “Vissi d’arte”, che penso possa esprimere molto bene quello che può essere la sintesi di una vita, ma anche il progetto di una vita: vivere d’arte e vivere d’amore (anche se la protagonista lo canta in un momento drammatico della sua vita, nell’opera che conoscete). Raccogliamo di nuovo le nostre forze interiori, poi ecclesiali e sociali, per dare nuova linfa a questa realtà che celebriamo, il “matrimonio” avvenuto 150’anni fa, che non può sopportare divisioni, separazioni in casa, sperequazioni dove ci sono i parenti ricchi e i parenti poveri. Tra l’altro, anche qui mi viene da dire, senza patriottismo per il Sud, che ci sono solarità nelle nostre culture del Sud di cui il Nord ha bisogno. Penso anche a certe intelligenze solari del Sud, perché noi siamo debitori all’ambiente: siamo cresciuti qui e, per noi, il mare e il sole non significano solo un fatto nostalgico, ma anche menti che producono vivacità, che producono vita, che producono - per dirla col nostro territorio - effervescenza Ferrarelle.

 

Vissi d’arte – G. Puccini              

 

Spero che Sabrina non abbia sofferto dell’assenza degli applausi (lo faremo alla fine), che è la possibilità di chiudere nel silenzio certe esecuzioni che farebbero scattare la reazione dell’applauso: una sorta di verecondia, se volete, dell’arte, almeno secondo la mia lettura dell’arte, di pudore dell’arte. Qualche volta - non stasera, state tranquilli - potremmo anche andarcene in punta di piedi, oltre che venire in punta di piedi, perché quando ci si pone davanti a certi tabernacoli dell’arte, come questo che avete ascoltato (una preghiera straziante di chi, condannato a morte, dice: “Perché il Signore mi ripaga in questa maniera?”), è anche bello che, più che far esplodere l’applauso, imploda l’emozione che esprime, che fa salire anche i nostri vissuti.

In mente mia c’era - e non so se sono riuscito a mediarla - questa triplice strutturazione del “Fratelli d’Italia”: la storia, la storiografia e la fede. Magari sarà la prima volta che facciamo una lettura di un brano come questo, della nuova fraternità che Gesù stabilisce con i suoi discepoli, per parlare di “Fratelli d’Italia”: è una novità, quella di Gesù, ed è una novità “Fratelli d’Italia”.

Io vi auguro questo, concludendo, carissimi fratelli e sorelle, figli e figlie, amici ed amiche: vi auguro di non lasciarvi sorprendere, nel senso negativo, dal nuovo, ma in qualche maniera, d’andargli incontro. Dobbiamo andare incontro al nuovo, anche se è rischioso, anche se questo incontro sarà uno scontro, ma dobbiamo andare incontro, perché la vita è nel nuovo, non è nel vecchio, la vita è nel domani. Certamente si radica nel passato, ma è nel domani: è nel figlio, è nei nipoti, è nelle generazioni nuove, è nei giovani, è nella Chiesa che deve evolversi. A volte, anche la Chiesa ha paura di guardare il nuovo, di lasciarsi chiamare dalla novità, di lasciarsi implicare.

Concludiamo con le parole di Gesù. Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli. Chi compie la volontà di Dio costui è mio fratello, sorella e madre”. Quindi, anche sovvertendo gli stessi ruoli legati alla sessualità, chi compie la volontà, entra in relazione con Gesù e Gesù con quella persona, in tutte le variazioni dell’affetto, cioè l’affetto del fratello, della sorella, del padre, della madre e quindi “io madre di” o anche “Gesù madre mia” o “Gesù fratello, sorella…”. Vi auguro di entrare in questa novità, di aprire le vostre case, di aprire la nostra comunità teanese al nuovo che ci chiama (dico “teanese”, ma qui di teanese c’è molto poco: tolta Concetta… Per “teanese” intendo “della diocesi”). Ricordatevi che rintanarci nel passato significa perdere certi appuntamenti: appuntamenti di vita che ti ringiovaniscono anche se hai 70’anni, che ti ridanno linfa, che rimettono in gioco anche il tuo passato, rilanciandolo.

Prima della benedizione - e poi ascoltiamo l’ultimo brano - alcune cose che riguardano il futuro, appunto.

 

Una riguarda TEATRI D’ANIMA che si ripropone, quest’anno, nella follia del Vescovo (non può che chiamarsi così), ed è dal 2 al 5 marzo. Quindi sono quattro spettacoli di seguito: tre sono all’Auditorium e uno in Cattedrale (quest’ultimo è aperto a tutti). I tre spettacoli sono testi teatrali e per l’accesso c’è bisogno di un piccolissimo e simbolico abbonamento di 20 euro. Potete procuravelo da Carmen, Dolores e anche da altri.

Invitate tutti, anche tanti, alla rappresentazione “Traviata: traviata?” e speriamo che non mi tolgano il titolo il giorno dopo - Il Vescovo di Teano deposto per aver messo in forse l’aspetto traviato di Traviata! - perché il mio intento sarà proprio quello (forse è un’eroina, quella che noi chiamiamo Traviata). Ci sarà una piccola orchestra con Violetta, Alfredo e Germont. Questo spettacolo è aperto a tutti, per dare la possibilità di fruire di qualcosa che è italiano (e torniamo al tema di oggi). Una volta sono uscito da un’esecuzione della Traviata – se ricordo bene, a Todi – con l’orgoglio d’essere italiano. Dicevo: “Quest’opera così bella, rappresentata in tutto il mondo, è nata da noi! Verdi è un italiano!”. A volte, i giovani fanno fatica anche ad accedere al linguaggio lirico, ma è nel nostro DNA, fa parte del patrimonio e, allora, anche fare la Traviata in Cattedrale per me è una sorta di sogno che finalmente si realizza - lo sto accarezzando da due, tre anni - per rimettere nel DNA di quelli che lo hanno dimenticato che c’è la musica verdiana, che c’è il melodramma, che c’è un incrocio di voci e strumenti meraviglioso.

 

Secondo spot pubblicitario: dal 10 al 14 aprile – ma per questo bisogna prenotarsi – ho programmato, mettendo insieme le due anime della mia vita, un Corso di Esercizi Spirituali ad Ariccia, sui colli Albani, con vista sul lago, in una casa meravigliosa, da una domenica sera a un giovedì mattina, per chi lo vuole (giovani e adulti). Però bisogna iscriversi (Carmen prende le adesioni). I posti della parte sorrentina sono già tutti occupati, quindi utilizzate bene il vostro territorio. Dopo cinque anni, ho pensato che era giunto il momento di fare una cosa insieme, anche ad alto livello.

Un Corso di Esercizi Spirituali, per chi non lo sappia, è una sorta di stage spirituale o di cammino intensivo, segnato dal silenzio, ma poi pieno di sollecitazioni e, da una domenica sera a un giovedì mattina, vale più di dieci anni di formazione settimanale; è un corso full immersion, come oggi si ama dire.

 

Ringraziamo Sabrina. Ho sentito questa voce a Camigliano e, dopo la Messa, il Vescovo si è tolto gli abiti ed è andato a vedere chi era questo soprano. Quindi, da una celebrazione, è passata a questa sorta di salotto spirituale, come speriamo ne nascano tanti.

 

Benedizione del Vescovo

 

Tu che m’hai preso il cuor – F. Lehar                  

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.