In punta di piedi in Episcopio

Ritiro per adulti

guidato da

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Una cornice vuota”

ovvero

“L’urgenza dell’assenza”

 

Teano, 24 novembre 2010

 

Salone dell’Episcopio

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Violoncello: Vladimir Koqaci

Pianoforte: Maria Teresa Roncone

 

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Ringraziamo Maria Teresa e Vladimir che si sono resi disponibili per questa serata un po’ strana.

A differenza delle altre volte, tenterò una lettura pubblica di alcune parti di un testo, ovviamente con relativo commento.

Erri De Luca ha appena pubblicato “Tu non c’eri”, un testo piccolissimo sul padre, tra l’altro un testo teatrale, anche se di teatrale ha poco. La Preghiera di stasera la dedichiamo a questa lettura molto suggestiva sulla ricerca del padre da parte di un figlio.

 

Nel nome del Padre…

 

Preghiera - Schubert

 

Spero vi lasciate un po’ suggestionare dal titolo della Preghiera che ho scelto, prendendo due espressioni dal testo che leggerò: “Una cornice vuota” ovvero “L’urgenza dell’assenza”. È un titolo un po’ paradossale, contraddittorio. So anche di rischiare, questa sera, leggendovi un testo che ha, per chi conosca Erri De Luca, una sua collocazione politica; ovviamente ne prescindo pienamente, cercando in questo testo ciò che ciascuno di noi cerca: il padre.

È strano come questa presenza così silenziosa nella nostra vita, poco irruenta, molto soft, costituisca un elemento portante, come nella drammatizzazione di questa piccolissima e ultima opera di Erri De Luca, al punto che si possa cercare il padre, che non si è mai incontrato in vita, in una esperienza al limite della morte. La morte divide questo padre e questo figlio.

 

Lettura

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Questo racconto di un padre cercato e ritrovato, comincia con una prima ed una seconda scena. Stasera vogliamo fare questo anche noi, un percorso di “guarigione”, perché forse anche noi stiamo cercando un padre: un padre come quello qui rappresentato, che non ha avuto nessun contatto con suo figlio, mentre il figlio cerca un padre che è morto, ma che forse era già morto, dal momento che i due non si sono incontrati che fortuitamente.

I padri debbono incontrare i figli? – ci chiediamo – I figli debbono incontrare i padri? Basta che il padre sia una “cornice vuota”? – come dice il testo del nostro incontro di stasera e come ascolterete tra poco dal testo di Erri De Luca – O basta che ci sia ad incorniciare la nostra vita, la nostra infanzia, con i suoi silenzi, col suo modo d’essere, col suo non essere interventista? Normalmente i padri sono così e, quando intervengono, rischiano di fare guai, come sanno le donne.

In questo momento mi va di presentarvi più interrogativi di quanti esclamativi possa consegnarvi: un padre è così o un padre è anche un quadro? Ha un suo sentire, una sua storia: questa storia deve pesare sul figlio? o il figlio dev’essere difeso dal padre? il padre deve difendere il figlio da sé, dalla sua storia, dalle sue vicende drammatiche, come quelle che ascolteremo tra qualche istante?

 

Il cigno – Saint-Saens

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Ho pensato che il violoncello potesse far da commento a questa nostra serata e a questo testo, perché ha la voce rauca: il violoncello ha un che di dolente e quindi ben rappresenta la voce di un padre avanti negli anni.

 

Comincia la scalata su cui si impernia gran parte del racconto e ci chiediamo: perché questo figlio vuole scalare la montagna, dal momento che non è esperto? Cosa cerca?

In questo essere solo, sulla parete impervia, con gli attrezzi dello scalatore, comincia a parlare con il padre, che ha percorso tante volte questo itinerario.

 

Lettura

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Non è solo il dialogo tra un padre e un figlio, ma anche il dialogo tra due generazioni; dirò di più: il dialogo tra due secoli, il nostro (il Novecento) e quello dei figli, di qualche giovane che è qui. Noi siamo del Novecento, loro sono del Duemila, del primo secolo del nuovo millennio.

Il Novecento qui è descritto bene: un secolo rivoluzionario, il secolo delle due grandi guerre, il secolo delle rivoluzioni pacifiche e non.

Mi piace molto il “noi” che dice il padre e che il figlio non comprende (Non mi mettere nel mucchio!). Il “noi” non era un pronome personale: significava gruppo, significava essere parte di qualcosa. Non vi chiamo ad essere nostalgici, ma credo che, al di là di tanti mostri che abbiamo partorito noi del Novecento, noi del secolo scorso, noi che adesso riceviamo l’elemosina del nuovo millennio, del nuovo secolo (ci danno qualche anno, ci offrono qualche giorno per affacciarci, ma non è nostro questo tempo: noi apparteniamo a quel secolo), io ne sono fiero; fiero di quel tempo, di quel secolo, che è stato definito “breve”, perché abbiamo corso tutti. Fiero, perché? Perché c’erano delle idee – meglio – c’erano degli ideali, anche sbagliati, come quelli che hanno condotto alla guerriglia questo padre immaginario, ma dietro il quale, in qualche maniera, Erri De Luca si nasconde, perché lui è stato un uomo di quelle frange estremiste della sinistra. Erano ideali anche sbagliati, ma ideali. Lo dirà più avanti, in una maniera molto più feroce rispetto al presente, dove c’è un “io” laddove prima c’era un “noi”. Il “tu” ammazza questo “io” (l’io al centro, l’io idolo). Il “noi” di questo padre, che cerca di raccontarsi al figlio che non riesce ad entrare in sintonia con lui, era il “noi” di una idealità condivisa, della voglia di un mondo nuovo.

Come vedete, in questo testo prezioso, a mio parere, uscito appena 15 giorni fa (profuma ancora di stampa), c’è anche il tentativo di far dialogare il primo secolo del terzo millennio con l’ultimo secolo del secondo millennio, ma riusciranno a capirsi questi due? riusciranno a incontrarsi questi due secoli? riusciremo, noi del Novecento, a dire qualcosa ai figli, a raccontare che, pur tra tanta violenza, c’era vita, c’erano bandiere, c’erano esigenze di giustizia? riusciremo a dirlo? e riuscirà questo figlio a capire?

 

Ave Maria – Cuccoli

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Il tempo in montagna cambia in fretta e questo tuono, avviso di tempesta, forse avrebbe potuto scoraggiare questo figlio: È il caso che io faccia questa scalata inutile? o torno indietro, al rifugio, al sicuro?

Ma è veramente inutile? Il figlio decide di continuare la scalata.

 

Lettura

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Il figlio non vuole intendere questo “noi”: Com’è possibile che sono tuo figlio, se io ho il senso della legge? Come hai potuto fare tutte queste cose? E il padre dice: Non le ho fatte io; le abbiamo fatte noi.

Credo che l’analisi più spietata, del momento presente, la troviamo qui: “È dura da intendere oggi che ognuno commette reati per il suo proprio tornaconto. Quello che abbiamo preso non era per noi. Siamo stati una specie senza portafogli e senza tasche”.

Ovviamente qui siamo nell’immoralità, beninteso, ma in questa immoralità c’è una moralità, paradossalmente, perché rubare non era per sé: era per una causa, era per una banda, era per un sogno di ribaltamento, di ribaltone, era per un’esigenza di giustizia. Dicevano gli antichi: “L’estrema giustizia è grande ingiustizia” (viene dalla sapienza dei romani), cioè all’atto in cui voglio fare le cose perbene, finirò forse con compiere atti scellerati. Dentro questa immoralità forse c’era una moralità – cerca di raccontare questo padre al figlio – che oggi non si ritrova, dal momento che nessuno allora rubava per sé.

Ricordo d’aver sentito una volta, da giovane, Eduardo De Filippo dopo una sua rappresentazione al San Ferdinando. Provocato e chiamato dagli applausi del pubblico, venne a recitare alcune sue poesie. Adesso non so neanche dove sia questa poesia (non l’ho più ritrovata), ma ricordo che raccontava - era una satira politica - di un gatto che era andato a rubare un pezzo di salsiccia che aveva come involucro una carta da diecimila lire. Ve lo ricordate quel “lenzuolo” da diecimila lire di quand’eravamo bambini? Ci si poteva veramente coprire, tanto erano grandi! Eduardo diceva in napoletano che era vero che il gatto aveva rubato la carne, ma aveva lasciato i soldi… A dire che aveva rubato per esigenza e che in questo gesto c’era comunque una moralità, perché i soldi non li aveva toccati. Ovviamente non si riferiva al gatto, ma ad altri furti, ad altri modi di entrare nella vita degli altri. Mi è venuto in mente questo episodio, leggendo l’analisi durissima che, attraverso queste pagine, Erri De Luca fa del nostro tempo: “una specie senza portafogli e senza tasche” (il secondo “senza” l’ho aggiunto io per musicalità), cioè persone che non avevano minimamente l’idea di assommare per sé, ma erano spinti da un’esigenza. Forse è stato così anche nostro padre, nella sua moralità forse più alta di quest’uomo, con cui stiamo familiarizzando attraverso l’immaginazione di Erri De Luca.

Guardiamo anche le nostre tasche di padri: forse stiamo assommando per noi? forse quello di cui ci preoccupiamo è non solo la vita dei figli, ma anche la nostra? è il caso di mettere a fuoco solo il “particulare” della nostra famiglia o di allargare l’orizzonte, così come più volte ci viene indicato dalla Chiesa, ad esigenze più alte, ad orizzonti internazionali, ad orizzonti mondiali?

Lasciamoci interrogare anche da questo aspetto, ascoltando un racconto. Ascoltare non è solo il fatto che “io mi riposo e legge un altro”, ma ascoltare è un additivo di interesse, perché chi legge non legge solo il testo: legge anche di sé, racconta anche di sé.

 

Largo – Mulé

 

Lettura

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Ora scopriamo perché questo padre si è tenuto nascosto: per paura di trasmettere una ferita al figlio, per timore che la sua febbre diventasse anche la febbre del figlio (“Ti ho tenuto in disparte, perché facessi in pace la tua vita, senza la mia infezione”). Questa è la preoccupazione di ogni padre. Noi trasmettiamo la vita - quella fisica, ma anche la vita che continuamente, con l’affetto, con la fede, trasmettiamo ai figli nati da noi o da altri - ma vorremmo trasmetterla pura, integra, vorremmo trasmetterla senza malattie, ma sappiamo che questo è impossibile. Allora, nella sua patologia - ovviamente la letteratura ci presenta personaggi sempre al limite della patologia - il padre si è tenuto nascosto, non per vergogna, ma per timore di trasmettere al figlio la sua infezione, le sue malattie, i suoi dubbi, le sue febbri. Da questo punto di vista, quest’uomo che sembrava assente, in qualche maniera è come se diventasse un eroe: non ha intessuto una relazione perché sapeva che questa relazione non sarebbe stata innocua; ha fatto silenzio perché la parola era bacata, perché il concetto conteneva delle trappole, perché il sapere, trasmesso di padre in figlio, aveva le sue botole.

Poi c’è il brano della morte, come avrete modo di leggere, che è di una bellezza...

Il padre è morto. È morto solo e l’ha scelto. Dice che se avesse dovuto scegliere una morte, avrebbe scelto quella ed è stato esaudito in una preghiera non fatta. È una morte in montagna, è una morte nel rifugio, in una baita, per il freddo: è una morte in estrema solitudine. Non mi ci hai voluto! – dice il figlio. Ma il padre dice: Questa è la morte giusta per la mia vita.

Poi c’è una descrizione meravigliosa: “Non ho voluto nessuna mano a trattenermi”. In fondo, tenere la nostra mano al moribondo è volerlo tirare dalla nostra parte, volerlo rimettere sulla nostra barca, mentre egli vuole affondare. Ricordo, ancora una volta, l’espressione di Giovanni Paolo, l’ultima parola: “Lasciatemi andare”. A volte dovremmo lasciare andare i morti, i nostri defunti, i moribondi; non trattenerli eccessivamente e dire: “Vai, papà, puoi partire: vai in pace”. Ma la solitudine di quest’uomo, amante della montagna, è un amore che gli è nato da una sorta di esigenza di purificazione: essere passato dal carcere all’alpinismo pone quest’uomo immaginario (ma dietro il quale c’è l’autore) nella condizione di fargli percorrere un itinerario di purificazione nel silenzio, dopo le grandi adunate, dopo gli attentati e ovviamente anche dopo un fallimento. Il ’68, nei suoi mostri, è stato un fallimento: in sé fu un terremoto di vita, ma poi generò dei mostri e la lotta armata ne è stato uno, nato nel letto d’amore dei sessantottini (ricordate poi anche tutte le riletture da parte di questi terroristi e anche i loro pentimenti, i loro cammini di conversione nelle carceri di massima sicurezza). Quindi questo padre ha cercato la montagna come luogo per dire: “Basta con le parole!”. Un luogo del silenzio, dopo le sfilate e gli scioperi.

In questa esperienza della morte c’è il ricordo di alcuni suoni, alcuni legati al tempo della prigionia. “Ma da qualche parte intorno alla montagna il vento era diventato un coro”: queste sono le ultime percezioni dell’uomo che vede la vita allontanarsi, restringersi, fino a scomparire.

La prima immagine: [il vento] “sbatteva coperchi di latta contro le sbarre come nelle proteste di prigione”. Quindi sentiamo questo vento di tramontana, che fa muovere anche le pietre intorno alla baita, coperta di neve e schiaffeggiata dal vento gelido. Poi c’è un ricordo di pesca (andiamo sempre più indietro): il padre adolescente partecipa ad una battuta di pesca e sente lo stridio del verricello che tira su la rete. Poi – e questa è l’immagine più bella in assoluto – “si vedevano bene i bordi del mio golfo d’infanzia come succede dopo l’acquazzone, che brillano da vicino i vetri dell’isola di fronte”. È bellissima questa immagine, perché il golfo dell’infanzia non è solo Napoli, non è solo il golfo dove questo padre ha vissuto - Erri De Luca è di Napoli ed è chiaro che qui parla di Napoli - ma è anche il golfo dell’età dell’infanzia, cioè l’essere tornati in quella lucentezza, in quella nitidezza propria dell’infanzia, come dopo un acquazzone, quando tutto il pulviscolo è stato abbattuto e si vede chiarissimo: si vedono i bordi del golfo e “i vetri dell’isola di fronte”, quindi Capri o Ischia.

Allora la morte del padre è stata una morte solitaria? Anche quella del mio fu una morte solitaria.

Io ho fatto questa scelta, un po’ legata alla celebrazione esequiale del papà di Don Maurizio dell’altro ieri, ma poi anche perché il 21 novembre ricorreva l’anniversario della morte del mio papà (io avevo 12 anni) e anche la morte di mio padre è stata solitaria: è stato per ore da solo, aspettando qualcuno che venisse a soccorrerlo, con la milza spappolata, caduto giù da un pergolato altissimo (da noi i pergolati sono altissimi per permettere alle viti di stare in alto, sopra gli agrumeti, almeno una volta, quando c’erano). Questa morte solitaria, senza nessuno accanto, da un lato, sembra un dramma nel dramma, dall’altro lato mi ha sempre consolato pensare che anche la morte affollata è solitaria, cioè sia che io mi troverò - come ha giustamente detto Erri De Luca - con i fili, con i cateteri, con “l’impianto a goccia” nelle vene, quindi in una stanza sterilizzata di terapia intensiva, sia che mi troverò in una stanza affollata dove tutti i preti verranno a cantare la Salve Regina (il Te Deum probabilmente, perché il Vescovo finalmente muore…), sia che io muoia da solo in una passeggiata in montagna (anch’io amo le montagne e purtroppo questo amore, come tanti altri, non posso più continuare a coltivarlo), comunque questa morte sarà solitaria. Quindi il padre muore da solo e accetta di morire da solo, anche per venire incontro al figlio, che saprà quando la cosa è già accaduta (si dice in termini tecnici: a tumulazione avvenuta), cioè quando il dramma è già stato consumato.

Nelle pieghe di questo testo c’è tanta umanità e anche una sensibilità enorme, come educazione alla vita, come possibilità di amare un figlio da lontano. Paradossalmente questo padre, che sembra un fallito in tutte le scelte che ha fatto nei confronti del figlio, stando lontano da lui, sia per non infettarlo, sia per non fargli soffrire in diretta la sua morte, ha compiuto un grande gesto d’amore.

 

Valzer Sentimentale – Čajkovskij

 

Lettura

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Si conclude così questo piccolo gioiello appena uscito, appena edito. Innanzi tutto comprendiamo perché questo figlio ha voluto salire fin lassù pur non essendo un alpinista provetto: per sciogliere un voto, per esaudire l’ultimo desiderio che il padre ha lasciato non a lui ma a un passante. Il figlio si sente in dovere di compiere questo percorso per incontrare suo padre, per parlargli finalmente e per esaudire l’ultima sua disposizione (l’ultimo desiderio è un ordine). Più che degli attrezzi per salire, si è sgravato, si è tolto il peso di un voto - desidero realizzare l’ultima volontà di mio padre che non è stato mio padre - e mentre il padre sta andando via e sembra scendere dall’altra parte, per dire “continuo il mio viaggio per le montagne”, c’è questa notizia: “La cosa che sono venuto a dirti è questa: stai diventando nonno”. C’è l’annuncio di un figlio maschio: una progettualità, ovviamente, agli estremi, agli antipodi di quello che il padre aveva fatto per lui (“Mi nascerà un maschio… Gli sarò padre… Gli trasmetterò tutto quello che so, pure gli sbagli, le figuracce…”).

Ci chiediamo: quale delle due – Erri De Luca non ci dà una risposta – è la modalità giusta?

Ci sono qui le due modalità della paternità del Novecento e del primo secolo di questo millennio: dei padri baby-sitter, dei padri che vanno dovunque vanno i figli, che li accompagnano dovunque - sono gli accompagnatori dei figli - a nuoto, a inglese, a danza, alla scuola-calcio (ovviamente un papà che faccia il tifo per il figlio perché ha segnato è una cosa bellissima; il figlio si gasa se il papà gli dice: “Bravo! Sei stato il più bravo in campo!”).

Questo testo è come se ci ponesse a un bivio: qual è il modo migliore d’essere padre? Quando il figlio dice: “Farò tutto quello che tu non hai fatto a me”, è come se rinfacciasse al nonno che il nipote avrà quello che lui, il padre-figlio, non ha avuto. Ed è proprio tutto sbagliato il modo silenzioso e discreto con cui il padre del Novecento - che è mio padre, che è vostro padre - si è comportato con noi? Ovviamente qui non diamo nessun giudizio e lasciamo aperto, come l’intelligenza ci invita a fare, tutte le risposte possibili. Non esiste una risposta: non c’è un prototipo di padre eccellente. Dicevo a Ernesto, annunciandogli questa serata, che questa è una piccola scuola di paternità. Ernesto si chiede: Ma se mi nasce un figlio, come farò? come il padre terrorista o come il padre che adesso dice: “Farò tutto quello che tu non hai fatto!”?

Potremmo dire, salomonicamente, che in medio stat virtus, ma mi sembra una conclusione piuttosto scontata.

Se dovessi dire da che parte sono io, quindi in che modalità di paternità - senza influenzarvi assolutamente: siete tutti adulti e vaccinati - direi che mi trovo più nella cornice vuota, dove questo vuoto non è assenza, ma presenza: racconta, inquadra il figlio. Noi dobbiamo incorniciare la vita del figlio, dobbiamo mettere i paletti; poi sarà lui a dipingere il quadro e forse anche il nostro ritratto. È bellissimo ed è anche commovente che l’ultima battuta verbale di questo testo è che questo figlio poi si chiamerà come il nonno. Perché gli darà il suo nome? Forse perché l’ha ritrovato; forse perché questo padre assente è un eroe; forse perché in questa stessa autoesclusione il padre ha voluto tenere il figlio a debita distanza dai suoi mali, dalle sue malattie, dai suoi ingorghi mentali; l’ha salvaguardato, forse, da lontano. Tanti di noi hanno padri “da lontano”, padri d’ogni tipo, non solo i padri che ci hanno generati: padri che non si vedono, padri che non compaiono, padri che non parlano, padri che non intervengono. Ma questa è la mia risposta e non intendo minimamente influenzarvi.

Il fatto che, alla fine, non c’è solo l’annuncio che quest’uomo sta per diventare nonno, ma anche l’annuncio che questo bambino che nascerà, che sarà di questo secolo e anche oltre, avrà il suo nome, dice “legame”.

 

Erri De Luca pone, alla fine, dei versi di Hikmet, tratti da una poesia dedicata al figlio: La vita che in me si disperde / si ritroverà in te e nel mio popolo / per sempre.  

Qui abbiamo l’idea dell’autunno che ci accompagna. La nostra è una vita che si disperde, perché siamo in perdita, siamo in caduta libera. La mia vita si sta disperdendo, anche la tua, e si disperde nel figlio, foglie che cadono e saranno nuova linfa per la primavera del 2011.

Si ritroverà in te e nel mio popolo: il popolo non è solo la famiglia, ma la comunità mondiale. E si ritroverà per sempre, cioè la mia vita non andrà perduta: il padre che si perde nel figlio, sia che lo accompagni continuamente, come i padri del 2000, sia che sia stato latitante, come i padri del Novecento, continua a vivere nel figlio.

 

Sogno – Schumann

 

Questo libretto, che potrebbe essere un ottimo dono per il prossimo Natale (senza essere pagato, faccio un po’ di spot pubblicitario a Erri De Luca), ha come appendice una nota.

Si è chiuso il sipario e adesso l’autore esce e dice: “Attenti che questo che vi ho raccontato non è mio padre”. E allora parla di suo padre, anche qui con quell’arte, che riconosciamo a Erri De Luca.

 

Lettura

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Anche questa nota conclusiva è di una grandezza enorme, perché questa è prosa poetica, è prosa con una musicalità, dove i suoni e le pause sono saggiamente, artisticamente cadenzati. Abbiamo un padre che ha preparato un avvenire per il figlio, ma il figlio se ne va e questa è storia vera. Erri De Luca a 18 anni va via: non sbatte la porta ma l’accosta dolcemente, perché sa d’essere in perdita, sa di rinunciare non solo al passato, che il padre rappresenta, ma anche al futuro che il padre ha preparato. È bella questa distinzione, che è possibile percepire, che nasce solo da una grande sensibilità, cioè il padre non è solo il padre dei giorni andati, ma anche il padre dei giorni futuri ed Erri, andando via, dice: “Ho rinunciato al passato, ma ho rinunciato anche al futuro che mio padre mi aveva saggiamente disegnato”. Poi c’è l’amore che il padre gli ha trasmesso per i libri e per la montagna, che hanno in comune questo “sfiorare”, perché un libro non si mangia (c’è un testo dell’Apocalisse dove l’autore è invitato a mangiare il libro sacro per cibarsene), il libro si sfiora, come si sfiora la montagna, senza possederla, senza lasciare tracce - dice nel testo teatrale. Mentre la mia generazione voleva lasciare una traccia, io mi sono rifugiato sulle montagne, nella seconda parte della mia vita - adesso è il padre letterario - per non lasciare traccia, perché sulla pietra non si lascia traccia, perché questo salire sulle montagne è un modo per sfiorarle senza scolpirvi il volto, il nome, come fanno gli amanti sulla corteccia degli alberi. A me sembra che anche questa conclusione meriti la sua attenzione.

Forse non ci siamo trovati, nella prima storia, come figli che non hanno avuto un padre presente, ma forse ci ritroviamo qui, nella storia di un figlio andato via, perché tutti andiamo via da nostro padre, andiamo via di casa dicendo: “Basta! Sono stufo dei giorni che mio padre mi ha preparato”, e si parte pieni di presunzione, senza sapere che si rinuncia e si perde un patrimonio.

Chiudo con questa suggestione che non so neanche quanto sia documentabile.

Mi sono chiesto, in questi giorni, perché si dice “patrimonio” e “matrimonio” (ho un’attenzione alle parole). Il patrimonio viene dal padre, cioè è il padre che dà il patrimonio – e non è quello materiale, delle proprietà – cioè il senso, la direzione, la forza, la grinta. Il matrimonio ha più attinenza materna e, se il padre è una cornice vuota, la madre è una cornice piena, e se il padre è l’urgenza dell’assenza, la madre è la forza della presenza. “L’urgenza dell’assenza” l’ho tolta dal testo nell’ultima parte, nell’epilogo in cui Erri De Luca parla di suo padre che andava sulle montagne cercando “la distanza urgente”, cioè l’assenza di sé rispetto alla famiglia, rispetto ai figli, una lontananza per dire “statemi lontani”.

Ricordo una parola di Monsignor Cece, il mio Vescovo, che è stato anche Vescovo qui (dicendola, mi autocondanno, ma non sono nuovo a queste autodistruzioni): “Arturo, per come sei, fa’ attenzione...”. Voleva dirmi: “Dósati, perché tu sei capace di manovrare, di manomettere un’intelligenza…” (traduco così, a modo mio, in una maniera molto pedante).

“L’urgenza dell’assenza” è la percezione che il padre ha di essere forte, non nel senso fisico del termine, ma come personalità, e allora deve fare un passo indietro: c’è l’urgenza dell’assenza, cioè è meglio defilarsi, meglio nascondersi, perché quando si è troppo presenti, allora la cornice diventa anche piena. Immaginate due cornici piene sulle spalle di un figlio! Bastano già le mamme… E non vi offendete, voi mamme presenti: a voi spetta il compito del matrimonio. Noi invece abbiamo il compito del patrimonio, cioè dobbiamo trasmettere la direzione.

Spero che questo piccolo tentativo, non so se gradito - ma neanche voglio saperlo - di leggere insieme, innanzi tutto vi abbia fatto venire la voglia di leggere questo testo da soli. È stato, da parte mia, un tentativo di un percorso sulla paternità come cornice vuota, sulla paternità come urgenza dell’assenza.

 

Vi do la benedizione e ascoltiamo l’ultimo brano. Chiediamo questa benedizione al Padre per eccellenza, Colui che, proprio perché è il più forte, non si fa vedere, perché se si facesse vedere, noi non saremmo più liberi, saremmo coartati nella voglia di inginocchiarci. Allora si nasconde, proprio per aiutarci, per rispettarci nella nostra libertà.

 

Benedizione del Vescovo

 

Notte di stelle – Godard

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.