In punta di piedi in Episcopio
Ritiro per adulti
guidato da
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
“Una cornice vuota”
ovvero
“L’urgenza dell’assenza”
Teano, 24 novembre 2010
Salone dell’Episcopio
~
Violoncello: M° Vladimir Koqaci
Pianoforte: M° Maria Teresa Roncone
~
Ringraziamo
Maria Teresa e Vladimir che si sono resi disponibili per questa serata un po’
strana.
A
differenza delle altre volte, tenterò una lettura pubblica
di alcune parti di un testo, ovviamente con relativo commento.
Erri
De Luca ha appena pubblicato “Tu non c’eri”, un testo piccolissimo sul padre,
tra l’altro un testo teatrale, anche se di teatrale ha poco.
Nel nome del Padre…
Preghiera - Schubert
Spero
vi lasciate un po’ suggestionare dal titolo della Preghiera che ho scelto,
prendendo due espressioni dal testo che leggerò: “Una cornice vuota” ovvero
“L’urgenza dell’assenza”. È un titolo un po’ paradossale, contraddittorio. So
anche di rischiare, questa sera, leggendovi un testo che ha, per chi conosca
Erri De Luca, una sua collocazione politica; ovviamente ne prescindo
pienamente, cercando in questo testo ciò che ciascuno di noi cerca: il padre.
È strano
come questa presenza così silenziosa nella nostra vita, poco irruenta, molto
soft, costituisca un elemento portante, come nella
drammatizzazione di questa piccolissima e ultima opera di Erri De Luca, al
punto che si possa cercare il padre, che non si è mai incontrato in vita, in
una esperienza al limite della morte. La morte divide questo padre e questo
figlio.
Lettura
***
Questo
racconto di un padre cercato e ritrovato, comincia con una prima ed una seconda
scena. Stasera vogliamo fare questo anche noi, un percorso di “guarigione”,
perché forse anche noi stiamo cercando un padre: un padre come quello qui
rappresentato, che non ha avuto nessun contatto con suo figlio, mentre il
figlio cerca un padre che è morto, ma che forse era già morto, dal momento che
i due non si sono incontrati che fortuitamente.
I
padri debbono incontrare i figli? – ci chiediamo – I figli debbono incontrare i
padri? Basta che il padre sia una “cornice vuota”? – come dice il testo del
nostro incontro di stasera e come ascolterete tra poco dal testo di Erri De
Luca – O basta che ci sia ad incorniciare la nostra vita, la nostra infanzia,
con i suoi silenzi, col suo modo d’essere, col suo non essere interventista?
Normalmente i padri sono così e, quando intervengono, rischiano di fare guai,
come sanno le donne.
In
questo momento mi va di presentarvi più interrogativi di quanti esclamativi possa consegnarvi: un padre è così o un padre è anche un
quadro? Ha un suo sentire, una sua storia: questa storia deve pesare sul
figlio? o il figlio dev’essere
difeso dal padre? il padre deve difendere il figlio da
sé, dalla sua storia, dalle sue vicende drammatiche, come quelle che
ascolteremo tra qualche istante?
Il cigno – Saint-Saens
***
Ho
pensato che il violoncello potesse far da commento a questa nostra serata e a
questo testo, perché ha la voce rauca: il violoncello ha un che di dolente e
quindi ben rappresenta la voce di un padre avanti negli anni.
Comincia
la scalata su cui si impernia gran parte del racconto e ci chiediamo: perché questo
figlio vuole scalare la montagna, dal momento che non è esperto? Cosa cerca?
In
questo essere solo, sulla parete impervia, con gli attrezzi dello scalatore,
comincia a parlare con il padre, che ha percorso tante volte questo itinerario.
Lettura
***
Non
è solo il dialogo tra un padre e un figlio, ma anche il dialogo tra due
generazioni; dirò di più: il dialogo tra due secoli, il nostro (il Novecento) e
quello dei figli, di qualche giovane che è qui. Noi siamo del Novecento, loro
sono del Duemila, del primo secolo del nuovo millennio.
Il
Novecento qui è descritto bene: un secolo rivoluzionario, il secolo delle due
grandi guerre, il secolo delle rivoluzioni pacifiche e non.
Mi
piace molto il “noi” che dice il padre e che il figlio non comprende (Non mi mettere nel mucchio!). Il “noi”
non era un pronome personale: significava gruppo, significava essere parte di
qualcosa. Non vi chiamo ad essere nostalgici, ma credo
che, al di là di tanti mostri che abbiamo partorito noi del Novecento, noi del
secolo scorso, noi che adesso riceviamo l’elemosina del nuovo millennio, del
nuovo secolo (ci danno qualche anno, ci offrono qualche giorno per affacciarci,
ma non è nostro questo tempo: noi apparteniamo a quel secolo), io ne sono
fiero; fiero di quel tempo, di quel secolo, che è stato definito “breve”,
perché abbiamo corso tutti. Fiero, perché? Perché c’erano delle idee – meglio –
c’erano degli ideali, anche sbagliati, come quelli che hanno condotto alla
guerriglia questo padre immaginario, ma dietro il quale, in qualche maniera,
Erri De Luca si nasconde, perché lui è stato un uomo di quelle frange
estremiste della sinistra. Erano ideali anche sbagliati, ma
ideali. Lo dirà più avanti, in una maniera molto più
feroce rispetto al presente, dove c’è un “io” laddove prima c’era un “noi”. Il
“tu” ammazza questo “io” (l’io al centro, l’io idolo). Il “noi” di questo
padre, che cerca di raccontarsi al figlio che non
riesce ad entrare in sintonia con lui, era il “noi” di una idealità condivisa,
della voglia di un mondo nuovo.
Come
vedete, in questo testo prezioso, a mio parere, uscito appena 15 giorni fa
(profuma ancora di stampa), c’è anche il tentativo di far dialogare il primo
secolo del terzo millennio con l’ultimo secolo del secondo millennio, ma
riusciranno a capirsi questi due? riusciranno a
incontrarsi questi due secoli? riusciremo, noi del
Novecento, a dire qualcosa ai figli, a raccontare che, pur tra tanta violenza,
c’era vita, c’erano bandiere, c’erano esigenze di giustizia? riusciremo
a dirlo? e riuscirà questo figlio a capire?
Ave Maria – Cuccoli
***
Il
tempo in montagna cambia in fretta e questo tuono, avviso di tempesta, forse
avrebbe potuto scoraggiare questo figlio: È
il caso che io faccia questa scalata inutile? o torno indietro, al rifugio, al sicuro?
Ma
è veramente inutile? Il figlio decide di continuare la scalata.
Lettura
***
Il
figlio non vuole intendere questo “noi”: Com’è
possibile che sono tuo figlio, se io ho il senso della legge? Come hai potuto
fare tutte queste cose? E il padre dice: Non le ho fatte io; le abbiamo fatte noi.
Credo
che l’analisi più spietata, del momento presente, la troviamo qui: “È dura da
intendere oggi che ognuno commette reati per il suo proprio
tornaconto. Quello che abbiamo preso non era per noi. Siamo stati una specie senza
portafogli e senza tasche”.
Ovviamente
qui siamo nell’immoralità, beninteso, ma in questa immoralità c’è una moralità,
paradossalmente, perché rubare non era per sé: era per una causa, era per una
banda, era per un sogno di ribaltamento, di ribaltone, era per un’esigenza di
giustizia. Dicevano gli antichi: “L’estrema giustizia è grande ingiustizia”
(viene dalla sapienza dei romani), cioè all’atto in cui voglio fare le cose
perbene, finirò forse con compiere atti scellerati. Dentro questa immoralità forse
c’era una moralità – cerca di raccontare questo padre al figlio – che oggi non
si ritrova, dal momento che nessuno allora rubava per
sé.
Ricordo
d’aver sentito una volta, da giovane, Eduardo De Filippo dopo una sua
rappresentazione al San Ferdinando. Provocato
e chiamato dagli applausi del pubblico, venne a recitare alcune sue poesie.
Adesso non so neanche dove sia questa poesia (non l’ho più ritrovata),
ma ricordo che raccontava - era una satira politica - di un gatto che
era andato a rubare un pezzo di salsiccia che aveva come involucro una carta da
diecimila lire. Ve lo ricordate quel “lenzuolo” da diecimila lire di
quand’eravamo bambini? Ci si poteva veramente coprire, tanto erano grandi!
Eduardo diceva in napoletano che era vero che il gatto aveva rubato la carne,
ma aveva lasciato i soldi… A dire che aveva rubato per esigenza e che in questo
gesto c’era comunque una moralità, perché i soldi non li aveva toccati.
Ovviamente non si riferiva al gatto, ma ad altri furti, ad altri modi di
entrare nella vita degli altri. Mi è venuto in mente questo
episodio, leggendo l’analisi durissima che, attraverso queste pagine,
Erri De Luca fa del nostro tempo: “una specie senza
portafogli e senza tasche” (il
secondo “senza” l’ho aggiunto io per musicalità), cioè persone che non avevano
minimamente l’idea di assommare per sé, ma erano spinti da un’esigenza. Forse è
stato così anche nostro padre, nella sua moralità forse più alta di quest’uomo, con cui stiamo familiarizzando attraverso
l’immaginazione di Erri De Luca.
Guardiamo
anche le nostre tasche di padri: forse stiamo assommando per noi? forse quello di cui ci preoccupiamo è non solo la vita dei
figli, ma anche la nostra? è il caso di mettere a
fuoco solo il “particulare” della nostra famiglia o di allargare l’orizzonte,
così come più volte ci viene indicato dalla Chiesa, ad esigenze più alte, ad
orizzonti internazionali, ad orizzonti mondiali?
Lasciamoci
interrogare anche da questo aspetto, ascoltando un racconto. Ascoltare non è
solo il fatto che “io mi riposo e legge un altro”, ma
ascoltare è un additivo di interesse, perché chi legge non legge solo il testo:
legge anche di sé, racconta anche di sé.
Largo – Mulé
Lettura
***
Ora
scopriamo perché questo padre si è tenuto nascosto: per paura di trasmettere
una ferita al figlio, per timore che la sua febbre diventasse anche la febbre
del figlio (“Ti ho tenuto in disparte, perché facessi
in pace la tua vita, senza la mia infezione”). Questa è la
preoccupazione di ogni padre. Noi trasmettiamo la vita - quella fisica, ma
anche la vita che continuamente, con l’affetto, con la fede, trasmettiamo ai
figli nati da noi o da altri - ma vorremmo trasmetterla pura, integra, vorremmo
trasmetterla senza malattie, ma sappiamo che questo è impossibile. Allora,
nella sua patologia - ovviamente la letteratura ci presenta personaggi sempre
al limite della patologia - il padre si è tenuto nascosto, non per vergogna, ma
per timore di trasmettere al figlio la sua infezione, le sue malattie, i suoi
dubbi, le sue febbri. Da questo punto di vista, quest’uomo che sembrava
assente, in qualche maniera è come se diventasse un eroe: non ha intessuto una
relazione perché sapeva che questa relazione non sarebbe stata innocua; ha
fatto silenzio perché la parola era bacata, perché il concetto conteneva delle
trappole, perché il sapere, trasmesso di padre in figlio, aveva le sue botole.
Poi
c’è il brano della morte, come avrete modo di leggere, che è di una bellezza...
Il
padre è morto. È morto solo e l’ha scelto. Dice che se avesse
dovuto scegliere una morte, avrebbe scelto quella ed è stato esaudito in una preghiera non fatta. È una morte in
montagna, è una morte nel rifugio, in una baita, per il freddo: è una morte in
estrema solitudine. Non mi ci hai voluto!
– dice il figlio. Ma il padre dice: Questa
è la morte giusta per la mia vita.
Poi
c’è una descrizione meravigliosa: “Non ho voluto
nessuna mano a trattenermi”. In fondo, tenere la nostra mano al
moribondo è volerlo tirare dalla nostra parte, volerlo rimettere sulla nostra
barca, mentre egli vuole affondare. Ricordo, ancora una volta, l’espressione di
Giovanni Paolo, l’ultima parola: “Lasciatemi andare”. A volte
dovremmo lasciare andare i morti, i nostri defunti, i moribondi; non
trattenerli eccessivamente e dire: “Vai, papà, puoi partire: vai in pace”.
Ma la solitudine di quest’uomo, amante della montagna, è un amore che gli è
nato da una sorta di esigenza di purificazione: essere passato dal carcere
all’alpinismo pone quest’uomo immaginario (ma dietro
il quale c’è l’autore) nella condizione di fargli
percorrere un itinerario di purificazione nel silenzio, dopo le grandi adunate,
dopo gli attentati e ovviamente anche dopo un fallimento. Il ’68, nei suoi
mostri, è stato un fallimento: in sé fu un terremoto di vita, ma poi generò dei
mostri e la lotta armata ne è stato uno, nato nel
letto d’amore dei sessantottini (ricordate poi anche tutte le riletture da
parte di questi terroristi e anche i loro pentimenti, i loro cammini di
conversione nelle carceri di massima sicurezza).
Quindi questo padre ha cercato la montagna come luogo per dire: “Basta con le
parole!”. Un luogo del silenzio, dopo le sfilate e gli scioperi.
In
questa esperienza della morte c’è il ricordo di alcuni suoni, alcuni legati al
tempo della prigionia. “Ma da qualche parte intorno alla montagna il vento era
diventato un coro”: queste sono le ultime percezioni dell’uomo che vede la vita
allontanarsi, restringersi, fino a scomparire.
La
prima immagine: [il vento] “sbatteva coperchi di latta contro le sbarre come nelle proteste di prigione”.
Quindi sentiamo questo vento di tramontana, che fa muovere anche le pietre
intorno alla baita, coperta di neve e schiaffeggiata dal vento gelido. Poi c’è
un ricordo di pesca (andiamo sempre più indietro): il padre adolescente
partecipa ad una battuta di pesca e sente lo stridio del verricello che tira su
la rete. Poi – e questa è l’immagine più bella in assoluto – “si vedevano bene i bordi del mio golfo d’infanzia come
succede dopo l’acquazzone, che brillano da vicino i vetri dell’isola di fronte”.
È bellissima questa immagine, perché il golfo dell’infanzia non è solo
Napoli, non è solo il golfo dove questo padre ha vissuto - Erri De Luca è di
Napoli ed è chiaro che qui parla di Napoli - ma è
anche il golfo dell’età dell’infanzia, cioè l’essere tornati in quella
lucentezza, in quella nitidezza propria dell’infanzia, come dopo un acquazzone,
quando tutto il pulviscolo è stato abbattuto e si vede chiarissimo: si vedono i
bordi del golfo e “i vetri dell’isola di fronte”, quindi Capri o Ischia.
Allora
la morte del padre è stata una morte solitaria? Anche quella del mio fu una
morte solitaria.
Io
ho fatto questa scelta, un po’ legata alla celebrazione esequiale del papà di
Don Maurizio dell’altro ieri, ma poi anche perché il 21 novembre ricorreva
l’anniversario della morte del mio papà (io avevo 12 anni) e anche la morte di
mio padre è stata solitaria: è stato per ore da solo, aspettando qualcuno che
venisse a soccorrerlo, con la milza spappolata, caduto giù da un pergolato
altissimo (da noi i pergolati sono altissimi per permettere alle viti di stare
in alto, sopra gli agrumeti, almeno una volta, quando c’erano). Questa morte
solitaria, senza nessuno accanto, da un lato, sembra
un dramma nel dramma, dall’altro lato mi ha sempre consolato pensare che anche
la morte affollata è solitaria, cioè sia che io mi troverò - come ha
giustamente detto Erri De Luca - con i fili, con i cateteri, con “l’impianto a
goccia” nelle vene, quindi in una stanza sterilizzata di terapia intensiva, sia
che mi troverò in una stanza affollata dove tutti i preti verranno a cantare
Nelle
pieghe di questo testo c’è tanta umanità e anche una sensibilità enorme, come
educazione alla vita, come possibilità di amare un figlio da lontano.
Paradossalmente questo padre, che sembra un fallito in tutte le scelte che ha
fatto nei confronti del figlio, stando lontano da lui, sia per non infettarlo,
sia per non fargli soffrire in diretta la sua morte, ha compiuto un grande
gesto d’amore.
Valzer Sentimentale – Čajkovskij
Lettura
***
Si
conclude così questo piccolo gioiello appena uscito, appena edito. Innanzi
tutto comprendiamo perché questo figlio ha voluto
salire fin lassù pur non essendo un alpinista
provetto: per sciogliere un voto, per esaudire l’ultimo desiderio che il padre
ha lasciato non a lui ma a un passante. Il figlio si sente in dovere di
compiere questo percorso per incontrare suo padre, per parlargli finalmente e
per esaudire l’ultima sua disposizione (l’ultimo desiderio è un ordine). Più che degli attrezzi per salire, si è sgravato, si è tolto il
peso di un voto - desidero realizzare l’ultima volontà di mio padre che non è
stato mio padre - e mentre il padre sta andando via e sembra scendere
dall’altra parte, per dire “continuo il mio viaggio per le montagne”, c’è
questa notizia: “La cosa che sono venuto a dirti è questa: stai diventando
nonno”. C’è l’annuncio di un figlio maschio: una progettualità,
ovviamente, agli estremi, agli antipodi di quello che il padre aveva fatto per
lui (“Mi nascerà un maschio… Gli sarò padre… Gli trasmetterò tutto quello che
so, pure gli sbagli, le figuracce…”).
Ci
chiediamo: quale delle due – Erri De Luca non ci dà
una risposta – è la modalità giusta?
Ci sono qui le due modalità della paternità del
Novecento e del primo secolo di questo millennio: dei padri baby-sitter, dei
padri che vanno dovunque vanno i figli, che li accompagnano dovunque - sono gli
accompagnatori dei figli - a nuoto, a inglese, a danza, alla scuola-calcio
(ovviamente un papà che faccia il tifo per il figlio perché ha segnato è una
cosa bellissima; il figlio si gasa se il papà gli dice: “Bravo! Sei stato il più bravo in campo!”).
Questo
testo è come se ci ponesse a un bivio: qual è il modo migliore d’essere padre?
Quando il figlio dice: “Farò tutto quello che tu non
hai fatto a me”, è come se rinfacciasse al nonno che il nipote avrà
quello che lui, il padre-figlio, non ha avuto. Ed è proprio tutto sbagliato il
modo silenzioso e discreto con cui il padre del Novecento - che è mio padre,
che è vostro padre - si è comportato con noi? Ovviamente qui non diamo nessun
giudizio e lasciamo aperto, come l’intelligenza ci invita a fare, tutte le
risposte possibili. Non esiste una risposta: non c’è un prototipo di padre
eccellente. Dicevo a Ernesto, annunciandogli questa serata, che questa è una piccola scuola di paternità. Ernesto si chiede: Ma se
mi nasce un figlio, come farò? come il padre
terrorista o come il padre che adesso dice: “Farò tutto quello che tu non hai
fatto!”?
Potremmo
dire, salomonicamente, che in medio stat virtus, ma mi sembra una conclusione piuttosto
scontata.
Se
dovessi dire da che parte sono io, quindi in che modalità di paternità - senza
influenzarvi assolutamente: siete tutti adulti e vaccinati - direi che mi trovo
più nella cornice vuota, dove questo vuoto non è assenza, ma
presenza: racconta, inquadra il figlio. Noi dobbiamo incorniciare la vita del
figlio, dobbiamo mettere i paletti; poi sarà lui a dipingere il quadro e forse
anche il nostro ritratto. È bellissimo ed è anche commovente che l’ultima
battuta verbale di questo testo è che questo figlio poi si chiamerà come il
nonno. Perché gli darà il suo nome? Forse perché l’ha
ritrovato; forse perché questo padre assente è un eroe; forse perché in questa
stessa autoesclusione il padre ha voluto tenere il
figlio a debita distanza dai suoi mali, dalle sue malattie, dai suoi ingorghi
mentali; l’ha salvaguardato, forse, da lontano. Tanti di noi hanno padri
“da lontano”, padri d’ogni tipo, non solo i padri che ci hanno generati: padri
che non si vedono, padri che non compaiono, padri che non parlano, padri che
non intervengono. Ma questa è la mia risposta e non intendo minimamente
influenzarvi.
Il
fatto che, alla fine, non c’è solo l’annuncio che quest’uomo sta per diventare
nonno, ma anche l’annuncio che questo bambino che nascerà, che sarà di questo
secolo e anche oltre, avrà il suo nome, dice “legame”.
Erri
De Luca pone, alla fine, dei versi di Hikmet, tratti
da una poesia dedicata al figlio: La vita
che in me si disperde / si ritroverà in te e nel mio popolo / per sempre.
Qui
abbiamo l’idea dell’autunno che ci accompagna. La nostra è una vita che si
disperde, perché siamo in perdita, siamo in caduta libera. La mia vita si sta
disperdendo, anche la tua, e si disperde nel figlio, foglie che cadono e
saranno nuova linfa per la primavera del 2011.
Si ritroverà in te e nel mio popolo: il popolo non è solo la famiglia, ma la comunità
mondiale. E si ritroverà per sempre, cioè la mia vita non andrà perduta: il
padre che si perde nel figlio, sia che lo accompagni continuamente, come i
padri del 2000, sia che sia stato latitante, come i padri del Novecento,
continua a vivere nel figlio.
Sogno – Schumann
Questo
libretto, che potrebbe essere un ottimo dono per il prossimo Natale (senza
essere pagato, faccio un po’ di spot pubblicitario a Erri De Luca), ha come
appendice una nota.
Si
è chiuso il sipario e adesso l’autore esce e dice: “Attenti che questo che vi
ho raccontato non è mio padre”. E allora parla di suo padre, anche qui con
quell’arte, che riconosciamo a Erri De Luca.
Lettura
***
Anche
questa nota conclusiva è di una grandezza enorme, perché questa è prosa
poetica, è prosa con una musicalità, dove i suoni e le pause sono saggiamente,
artisticamente cadenzati. Abbiamo un padre che ha preparato un avvenire per il
figlio, ma il figlio se ne va e questa è storia vera. Erri De Luca a 18 anni va
via: non sbatte la porta ma l’accosta dolcemente, perché sa d’essere in
perdita, sa di rinunciare non solo al passato, che il padre rappresenta, ma
anche al futuro che il padre ha preparato. È bella questa distinzione, che è
possibile percepire, che nasce solo da una grande sensibilità, cioè il padre
non è solo il padre dei giorni andati, ma anche il padre dei giorni futuri ed
Erri, andando via, dice: “Ho rinunciato al passato, ma ho rinunciato anche al
futuro che mio padre mi aveva saggiamente disegnato”. Poi c’è l’amore che il
padre gli ha trasmesso per i libri e per la montagna, che hanno in comune
questo “sfiorare”, perché un libro non si mangia (c’è un testo dell’Apocalisse dove
l’autore è invitato a mangiare il libro sacro per cibarsene), il libro si
sfiora, come si sfiora la montagna, senza possederla, senza lasciare tracce -
dice nel testo teatrale. Mentre la mia generazione voleva lasciare una traccia,
io mi sono rifugiato sulle montagne, nella seconda parte della mia vita -
adesso è il padre letterario - per non lasciare traccia, perché sulla pietra
non si lascia traccia, perché questo salire sulle montagne è un modo per
sfiorarle senza scolpirvi il volto, il nome, come fanno gli amanti sulla
corteccia degli alberi. A me sembra che anche questa conclusione meriti la sua
attenzione.
Forse
non ci siamo trovati, nella prima storia, come figli che non hanno avuto un
padre presente, ma forse ci ritroviamo qui, nella storia di un figlio andato
via, perché tutti andiamo via da nostro padre, andiamo via di casa dicendo:
“Basta! Sono stufo dei giorni che mio padre mi ha preparato”, e si parte pieni
di presunzione, senza sapere che si rinuncia e si perde un patrimonio.
Chiudo
con questa suggestione che non so neanche quanto sia documentabile.
Mi
sono chiesto, in questi giorni, perché si dice
“patrimonio” e “matrimonio” (ho un’attenzione alle parole). Il patrimonio viene
dal padre, cioè è il padre che dà il patrimonio – e non è quello materiale,
delle proprietà – cioè il senso, la direzione, la forza, la grinta. Il
matrimonio ha più attinenza materna e, se il padre è una cornice vuota, la
madre è una cornice piena, e se il padre è l’urgenza dell’assenza, la madre è
la forza della presenza. “L’urgenza dell’assenza” l’ho tolta dal testo
nell’ultima parte, nell’epilogo in cui Erri De Luca parla di suo padre che
andava sulle montagne cercando “la distanza urgente”, cioè l’assenza di sé
rispetto alla famiglia, rispetto ai figli, una lontananza per dire “statemi
lontani”.
Ricordo
una parola di Monsignor Cece, il mio Vescovo, che è stato anche Vescovo qui
(dicendola, mi autocondanno, ma non sono nuovo a
queste autodistruzioni): “Arturo, per come sei, fa’ attenzione...”. Voleva
dirmi: “Dósati, perché tu sei capace di manovrare, di
manomettere un’intelligenza…” (traduco così, a modo mio, in una maniera molto
pedante).
“L’urgenza
dell’assenza” è la percezione che il padre ha di essere forte, non nel senso
fisico del termine, ma come personalità, e allora deve fare un passo indietro:
c’è l’urgenza dell’assenza, cioè è meglio defilarsi, meglio nascondersi, perché
quando si è troppo presenti, allora la cornice diventa anche piena. Immaginate
due cornici piene sulle spalle di un figlio! Bastano già le mamme… E non vi
offendete, voi mamme presenti: a voi spetta il compito del matrimonio. Noi
invece abbiamo il compito del patrimonio, cioè dobbiamo trasmettere la
direzione.
Spero
che questo piccolo tentativo, non so se gradito - ma neanche voglio saperlo -
di leggere insieme, innanzi tutto vi abbia fatto venire la voglia di leggere
questo testo da soli. È stato, da parte mia, un tentativo di un percorso sulla
paternità come cornice vuota, sulla paternità come urgenza dell’assenza.
Vi
do la benedizione e ascoltiamo l’ultimo brano. Chiediamo questa benedizione al
Padre per eccellenza, Colui che, proprio perché è il più forte, non si fa
vedere, perché se si facesse vedere, noi non saremmo più liberi, saremmo
coartati nella voglia di inginocchiarci. Allora si nasconde, proprio per
aiutarci, per rispettarci nella nostra libertà.
Benedizione
del Vescovo
Notte di stelle – Godard
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.