In punta di piedi in Episcopio
Ritiro per adulti
guidato da
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
Renzo Barsacchi
Poeta dell’anima
Episcopio di Teano
26 gennaio 2011
~
Violino: Domenico Mancino
Pianoforte: Maria Teresa Roncone
~
Iniziamo
il nostro breve ma intenso percorso. Innanzi tutto ringraziamo Maria Teresa e
Domenico Mancino che avete già ammirato per la leggerezza nell’eseguire i brani
al violino. Vorrei ringraziare Domenico, in particolare, perché è venuto
febbricitante. Altri si sarebbero defilati, ovviamente, per oggettive ragioni
di salute; invece lui è qui. Allora, anche per aiutarlo, cercherò – ma non so
se il Vescovo ci riesce – di abbreviare di qualche minuto il nostro itinerario.
***
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo. Amen.
Il
nostro percorso artistico-spirituale – anche se
questo binomio costituisce una sola parola, nel senso che ogni espressione
artistica è spirituale e ogni espressione spirituale è arte – è sulla traccia
di queste due poesie di Barsacchi, un autore che ho già citato altre volte e
che adesso visitiamo in due testi che ho accostato semplicemente per
l’avversativa con cui iniziano. A scuola ci è stato insegnato che non è bene
iniziare con l’avversativa, ma la poesia scavalca ogni regola e, quindi, sia la
prima che la seconda poesia cominciano con un “ma”. Guardiamo innanzi tutto il
primo testo:
Ma dopo aver pregato
io non potrei parlarti
di Dio: non ne avrei voglia,
tanto ogni mia parola
è diversa e lontana, come dopo la
pioggia
l’arcobaleno che non puoi descrivere
descrivendo i colori.
Io ti potrei guardare,
se vuoi, restarti accanto
diversamente, stringerti la mano
finché scenda il miracolo
nelle tue vene in attesa:
aspettare che Dio ti affiori agli occhi
per ripregarlo ancora.
Lasciamoci
suggestionare, stregare, nel senso bello del termine, da questa prima
produzione artistica, poetica di Barsacchi, un poeta poco conosciuto, se non
sbaglio un dipendente comunale del Centro-Italia, che
ha vissuto il suo dramma di credente attraverso questa produzione poetica.
Troviamo in lui sempre - almeno capita a me - degli sprazzi meravigliosi.
Addentriamoci
nel primo testo, che manifesta la difficoltà a parlare di Dio, e in particolare
da parte di chi abbia parlato con Lui, per dirla con un gioco di parole. Direi
di diffidare delle persone che ne parlano eccessivamente. Siamo tra noi, anche
persone più o meno dentro alla vita della Chiesa, e ci sono due tipi diversi di
persone.
Ci
sono quelli che parlano sempre di Dio, sempre il Signore sulla bocca,
citazioni, visioni, il Signore dice…, il Signore ha detto… Invece direi di fare attenzione a chi ne parla
balbettando; facciamo attenzione a chi, di tanto in tanto, ne fa affiorare il
ricordo o, se volete, la nostalgia. E perché dovremmo diffidare forse di noi
stessi? Magari, dicendo questo, demolisco apparentemente anche il mio
Ministero, quello di Don Geppino: siamo chiamati a
parlare di Dio, a spiegare la Parola di Gesù, ma già comprendete dove voglio
giungere.
Perché
diffidare? Diffidare di chi utilizza un termine impropriamente, in abbondanza,
tra l’altro – come sappiamo sul piano della trasmissione – creando un
intasamento, più che un aiuto, sul piano della fede. Una difficoltà – c’è anche
qualche insegnante di religione qui – è la ridondanza del linguaggio o la
ridondanza del messaggio, cioè parlare eccessivamente di fede non aiuta la
fede, ma diventa ostacolo alla fede. E perché?
Qui
allarghiamo il discorso ad ogni esperienza umana. Parlare eccessivamente
dell’amore non è un buon segno, perché indica un tempo in cui l’amore è in
calo, cioè quando si parla eccessivamente di una cosa è per nascondere il vuoto
di quella realtà. Ovviamente, come sempre, parlo in una maniera paradossale, ma
ormai siete abituati ai miei paradossi.
Se
partiamo da questo presupposto, e cioè che chi ha fatto veramente esperienza di
una cosa non la sa raccontare, non la sa dire, più di altri ha difficoltà a
verbalizzare, a comunicare quello che vive, allora noi non ci dobbiamo
aspettare da chi è più vicino a Dio – i monaci per esempio, le monache, i
contemplativi per vocazione – delle grandi prediche (anche qui mi zappo sui
piedi), delle grandi descrizioni. Voi, ascoltando uno che parla di Dio
eccessivamente, dite: Ecco, questo se ne
intende. Questo sa il fatto suo, conosce… È
l’esatto contrario, nel senso che chi ha parlato con Dio, come dice il nostro
poeta, chi ha parlato con Lui – e la preghiera è questo – non ha desiderio di
parlarne. Ma dopo aver pregato / io non
potrei parlarti / di Dio: non ne avrei voglia – attenti – non per una sorta
di sazietà, perché inizialmente questo verso potrebbe indurre alla lettura
“avendo pregato a lungo, adesso è sazio”, di quella sazietà che a volte è anche
dei dolci, anche delle cose buone, di cui noi finiamo per sentire una sorta di
avversione, perché non si può mangiare continuamente. Non è questa la
difficoltà, ma la difficoltà è piuttosto nel fatto che proprio per aver parlato
con Lui, non riesco a trovare le parole per dire di Lui. Per cui è come se il
mondo si dividesse – e dico questo per semplificare – in due categorie di
persone: quelle che parlano di Dio e quelle che parlano con Dio.
Quelle
che parlano con Dio non hanno dimestichezza a parlare di Lui. Se questo è vero
– parlo sempre sul filo del paradosso – allora chi ne parla troppo non ci
parla. La difficoltà del comunicare è espressa con l’immagine dell’arcobaleno,
che ho visto, che è una visione d’insieme, legata ad un’emozione. Pensate che
l’arcobaleno ha talmente impressionato l’uomo biblico, da far indicare nell’arco
tra la terra e il cielo il segno dell’alleanza dopo il diluvio; quindi quando
siamo di cattivo umore o anche quando siamo più superficiali, imbatterci
nell’arcobaleno, genera sempre un’emozione. Come si fa a descrivere un
arcobaleno? Si cerca di dire: c’era un indaco perfetto…
partiva da… e finiva nel mare (ricordo certi
arcobaleni sulla penisola)… oppure partiva da Sant’Antonio e abbracciava
Teano... Nel tentativo di descrivere i colori o da dove partiva, dove poggiava
questo arco naturale, tu non lo descrivi ma lo perdi, né riesci a trasmettere
quello che hai visto. Allora, a questo punto, cosa dobbiamo fare? dobbiamo
tacere? non c’è niente da dire?
Qui
è l’aspetto più bello di questa prima poesia. Il poeta dice: Io ti potrei guardare / se vuoi (accenno
semplicemente il tema, perché mi sono dilungato nella descrizione della prima
parte); non ti parlo di Dio, ma ci guardiamo. Ma ti potrei guardare / se vuoi, restarti accanto diversamente.
Quest’uomo, che si è immerso in Dio, sarà stravolto nella sua umanità? sarà
defraudato della sua umanità? o vivrà – è quello che avverto io, ma potrei
sbagliarmi – un’accentuazione di umanità? Non ti parlo di Dio, ma ti posso
guardare. In questo sguardo, forse, in questo stare accanto a te, restarti
accanto diversamente, c’è più di quello che io riuscirei a dirti di Colui con
cui ho parlato. L’avverbio “diversamente” dice che noi possiamo dialogare del
più e del meno, possiamo farci compagnia, possiamo stringerci la mano, come
dirà nel verso successivo, in una maniera banale o addirittura volgare, o in
questa stretta, in questo sguardo, in questo starti accanto, trasmetterti
quello che le parole non possono dire.
Vi
lascio con questa prima suggestione: colui che ha fatto esperienza di Dio, non
ne vuole parlare, ma può sedersi accanto a te, può parlarti di altre cose. Di
cose umane? Questo lo vedremo dopo.
***
Il
Dottor Iaccarino, credo nell’esecuzione del concerto
precedente con Domenico, disse: Sembra tutto così leggero, quasi che agitare
l’archetto sulle corde del violino sia la cosa più naturale di questo mondo.
Sappiamo
bene che non è così. Prendo spunto da questa naturalezza, questa levità anche
nell’esecuzione di Domenico, per entrare ancora di più in questo messaggio di
non voler parlar di Dio troppo o del diffidare, come vi ho detto, di quelli che ad ogni pie’ sospinto tirano Dio
dalla loro parte, cogliendo invece il divino e la familiarità con Dio nel modo
con cui diversamente ci si pone nei confronti delle realtà terrestri, umane (è
questo in fondo il messaggio della prima poesia di Barsacchi).
Io ti potrei guardare, quindi non posso parlarti, non chiedermi di parlarti
di Dio, non chiedermi cosa mi ha detto, come si fa…
Pensate a tante curiosità sulle rivelazioni delle presunte apparizioni.
Io ti potrei guardare - dice. In questo sguardo, che chi ha pregato offre
all’altro, ovviamente c’è un di più. Ti potrei guardare e quindi potrei suonare
con naturalezza e tu chiederti: Com’è che questa esecuzione è così lineare,
così apparentemente senza sforzo, così lieve?
Io ti potrei guardare / se vuoi,
restarti accanto / diversamente, stringerti la mano.
Vorrei
fermarmi un attimo su “stringerti la mano”.
Perché
colui che ha pregato deve stringere la mano? Per manifestare vicinanza,
ovviamente, a colui/colei che è venuto a chiedere conto della sua esperienza
mistica. Gli stringe la mano perché in questa stretta può comunicare. Si può
stringere la mano in mille modi – come sapete bene, meglio di me – e in questa
stretta c’è il passaggio di un’energia, come oggi si ama dire, di un “non
detto” circa il modo con cui questa persona ha parlato con Dio, ne ha ascoltato
la voce o ne ha meditato la Parola. Come vedete, “guardarti”, “starti accanto
diversamente”, “stringerti la mano”, sono espressioni di corpo, di materialità,
di vicinanza nei termini con cui noi siamo soliti invocarla o farne esperienza,
cioè gli altri ci sono accanto, ci guardano, ci stringono la mano, ma lo
possono fare in tante maniere diverse. Il consacrato – e qui non parliamo di
preti, suore o monaci – ma l’uomo e la donna che hanno fatto esperienza di Dio,
fanno queste stesse cose in una maniera diversa, tanto che sembra una stretta
di mano fuori d’ogni canone, fuori d’ogni esperienza precedente. Vale a dire
che se uno ha incontrato veramente Dio – e questo è il tema che adesso
esplicito e che volevo comunicarvi – più che sul piano spirituale, lo
verifichiamo sul piano umano, cioè l’uomo, la donna dentro il mistero di Dio,
sono persone in carne ed ossa, che ci fanno rigustare la gioia d’essere uomini,
d’essere donne, d’essere viventi, d’essere a questo mondo, d’essere nella
storia, d’essere nel dolore, d’essere nello spazio e nel tempo (questo è il
nostro primo incontro dell’anno 2011).
Vi
sembra che io vi stia un po’ strattonando, tra l’altro demolendo anche dei
luoghi comuni circa chi ha pregato, chi ha una vita di preghiera, ma spero di
sfondare una porta aperta o anche di darvi le cifre per comprendere che tra le
tante persone che ci parlano di pane, di vino, di acqua, di sonno, di malattia,
di lacrime, di figli, di dolori, di delusioni o di sole che tramonta, ce ne
sono alcune che lo fanno apparentemente con le stesse parole e gli stessi
atteggiamenti degli altri, ma ci comunicano di più: perché? sono poeti? sono
persone superdotate? o hanno fatto quell’esercizio che intravediamo, ma che
solo Domenico conosce, di anni e anni con il collo piagato (immagino che un
violinista abbia il collo piagato nel fare esercizi) e poi viene fuori questa
arcata così leggera e noi diciamo: Allora è facile! È facile vivere! È facile
eseguire un brano! È facile suonare il violino! – e sappiamo che non è così.
Cosa
sta tentando di dirvi il vostro Vescovo? Sta tentando di dirvi che gli uomini,
più sono dentro il mistero di Dio, più sono dentro il mistero dell’uomo. E vi
sta anche dicendo, tra le righe: diffidate – lo dico con tutta la convinzione
possibile – diffidate di chi vi parli di Dio e non sappia dirvi di voi, di sé,
degli occhi, degli sguardi, della stretta di mano, del pane, della fame, del
sorriso, delle lacrime, cioè non sappia dirvi chi è l’uomo, perché quando noi
abbiamo cominciato a pensare in una maniera divaricante la vita spirituale
rispetto alla vita umana, sono cominciati i veri problemi nella Chiesa e nella
cristianità.
Questa
voglia di non parlare – Non mi chiedere
di Dio – di Barsacchi, io la leggo come l’esperienza o il sigillo
d’autenticità di una vera esperienza spirituale. Quest’uomo ha potuto dire: non
ne avrei voglia, non te lo so dire, non riuscirei a raccontartelo; e nell’esprimere
questo disagio – Barsacchi è defunto da pochi anni – descrive o ci fa
intravedere una vera esperienza di Dio, perché dice: Però ti guardo – magari lo
dice alla moglie (non so a chi sia dedicata questa poesia) o a una qualsiasi
altra persona – però ti guardo, ti sto accanto diversamente. Tanti ti stanno
accanto, ma ti sfiorano senza toccarti, senza farti vibrare, senza farti
comprendere una reale vicinanza. Io, invece, ti sto accanto diversamente, ti
stringo la mano e, in queste esperienze profondamente umane, veramente umane,
elementarmente umane, tu puoi capire che io ho parlato con Dio.
Non
so quanto riesco a dirla precisamente, questa frase di Simone Weil, che ho
citato a Roma nella relazione di inizio anno, anche se non è stata un granché
negli effetti, anzi. Dice questa mistica del Novecento: Non nel parlare di Dio
– adesso lo dico a parole mie – ma nell’aderenza con cui le persone parlano
delle cose umane, tu puoi capire se hanno soggiornato veramente in Dio.
Questa
cosa che io vi sto raccontando attraverso i versi di Barsacchi, noi l’abbiamo
celebrata e speriamo di non averla dimenticata nell’evento del Natale, che è
alle nostre spalle, ma che non è un mistero che si consuma, perché è
inconsumabile, cioè Dio nell’umanità, Dio uomo, Dio bambino e adesso Dio sulle
rive del Giordano, è il Dio che io conosco. Se Dio ha scelto la via
dell’umanità per rivelarsi, l’uomo non può scegliere la via della divinità (qui
intesa come lontananza dalla storia).
Cari
amici che forse mi state ascoltando, noi così vorremmo le persone, così
vorremmo i preti, così vorremmo i laici impegnati, cioè persone che parlano
raramente di Dio, ma nel sedersi accanto, nel guardare, nello stringere una
mano, nel parlare d’altro – ma tutto quello di cui si parla è in Dio –, riescono
a destare una nostalgia.
***
La
conclusione è inaspettata, come dovrebbe esser d’obbligo in un testo: tutto
questo in attesa di qualcosa. Quindi non ti parlo di Dio, ma ti parlo di cose
umane (pensiamo anche a Gesù che parlava di pecore, di viti, di grano che stava
maturando, di una donna in attesa che è triste, perché teme le doglie del
parto, cioè parlava di cose umane).
Finché scenda il miracolo / nelle tue
vene in attesa.
Qui
abbiamo questo senso di fame che l’altro, questa donna o comunque questa
persona, ha di capire, di sentirsi raccontare Dio dall’altro, che è diventata
adesso un’esperienza che tocca il sangue (nelle
tue vene in attesa). E qual è questo miracolo che deve scendere? questa
condizione nuova che deve crearsi? Aspettare
che Dio ti affiori agli occhi per ripregarlo ancora. Questa mia esperienza di uomo, che viene da Dio e che è
esperienza di vicinanza, fa riaffiorare Dio in te, in modo tale che ti venga
agli occhi.
L’ultimo
verso è ambiguo, santamente ambiguo: Per
ripregarLo ancora. Chi? Io? che sono venuto dalla preghiera e che non ho
voglia di raccontare la preghiera? o te, avendo sentito, tu stessa o tu stesso,
l’esperienza fisica di Dio dentro di te, che ti è stata destata dal mio tocco,
dalla mia parola, dalla mia allusione, dalla mia musica, da quello che ti ho
raccontato, di cose completamente diverse dalla vita spirituale, di tutt’altro
vocabolario? Questo Dio che ti sale agli occhi, come nostalgia ovviamente, come
nuova visione della vita – e qui credo che siano valide, sia la prima che la
seconda lettura – ti porrà (1° lettura) nella dimensione della preghiera, ti
farà venire il desiderio di pregare, non attraverso le mie parole, ma
attraverso la mia umanità. Ma credo che sia valida anche l’altra
interpretazione dove il ripregarLo riguarda me che vengo dalla preghiera e che
non ti posso parlare della preghiera, ma adesso che vedo riaffiorare in te
questa coscienza, adesso che vedo ridestarsi in te questa fede, e vedo che Dio
ti agita, questo vederLo nei tuoi occhi mi fa venire
di nuovo voglia di pregare.
Come
vedete, sembrano degli itinerari un po’ contorti; in realtà hanno questo comune
denominatore questa unità Dio-uomo. Allora, ripeto:
diffidate di quelli che parlano troppo di Dio.
Dico
questo perché, in una delle mie peregrinazioni per l’Italia, nel giugno scorso,
ero a Portogruaro, in Veneto, per una serata dove c’era uno psicoterapeuta e
avevano invitato il Vescovo per un dibattito a porte aperte, in un chiostro.
Che cosa è successo di strano? Io non mi sono meravigliato, ma poi ho visto che
l’uditorio lo era. Alla fine si sono invertiti i ruoli: lo psicoterapeuta, non
dico che ha fatto una predica, ma è stato molto spirituale; io, dal mio lato,
invece sono stato molto umano e una signora si è alzata e ha detto: “Ma io qua
non ci capisco più niente! – l’ha detto in senso bello, perché io avevo
utilizzato il termine “sfigato” – Non ho mai sentito un Vescovo che dice
“sfigato”!”. Però me l’ha detto con simpatia: era come se lo psicoterapeuta
avesse fatto il Vescovo, ed io lo psicoterapeuta (senza competenza, beninteso),
ma avendo un approccio molto terra-terra, a dire: chi siamo? cosa stiamo
facendo? Non ricordo neanche le argomentazioni di quella sera. Il tema era:
come ricostruirsi dopo un addio, come rimettersi in piedi dopo una lacerazione.
Però mi ha gratificato, a partire dai miei presupposti, l’aver svolto un ruolo
che effettivamente non era proprio confacente al motivo per cui mi avevano
invitato.
Io
credo – e chiudiamo questa prima parte – che, all’atto in cui noi ci
convertiamo veramente, noi sapremo parlare di umanità, di storia, di sangue, di
carne, di vino, di messi, di ulivi, di bambini che nascono, di dolori, di
pianti, ma se noi non sappiamo parlare di queste cose, noi Dio non Lo abbiamo
mai incontrato.
So
che sto utilizzando espressioni un po’ terroristiche, ma è per non farvi
addormentare e per tenere il filo del discorso sempre un po’ aperto. Il vero
uomo è il credente autentico, ma quando un credente mi si presenta paludato di
concettualità spirituali – meglio – di spiritualismo, alla fine torno alla mia
vita appesantito.
Adesso purtroppo devo dedicarmi alla cena… Ecco,
magari qualcuno fra voi avrà il problema: che ci mangiamo stasera? Questo
problema è proprio un problema astratto che non ha attinenza con la fede? o la
fede riguarda anche quello che mangeremo stasera, dal momento che Gesù ha
voluto comunicarsi in una cena?
Ma dopo aver pregato
io non potrei parlarti
di Dio: non ne avrei voglia,
tanto ogni mia parola
è diversa e lontana, come dopo la
pioggia
l’arcobaleno che non puoi descrivere
descrivendo i colori.
Io ti potrei guardare,
se vuoi, restarti accanto
diversamente, stringerti la mano
finché scenda il miracolo
nelle tue vene in attesa:
aspettare che Dio ti affiori agli occhi
per ripregarlo ancora.
***
Questa
poesia, con cui concludiamo il nostro incontro, comincia anch’essa con il “ma”
e probabilmente dev’essere una delle ultime di
Barsacchi: parla della morte. C’è un’altra poesia più famosa di Barsacchi sulla
morte, che altre volte vi ho commentato, ma questa mi ha preso nei primi giorni
dell’anno e, quindi, in qualche maniera vi trasmetto un’emozione.
Ma quando sarò morto
non chiudetemi gli occhi
ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.
Ponetemi sul petto
l’immagine di un Cristo che risorge
che troppo l’ho veduto crocifisso.
Mettetemi i miei panni da giardino,
i sandali leggeri:
io non parto, ritorno.
Non guardatemi l’ultima volta, ma la
prima,
come quando si lascia un figlio
chiamato dall’amore.
Ovviamente
c’è lo stesso autore e quindi la stessa fede ed anche la stessa umanità, quella
che noi andiamo cercando, quella stessa umanità che abbiamo vista riflessa
nella preghiera. È una sorta di consegna di Barsacchi ai suoi parenti, una
sorta di testamento: come vorrei che fosse composto il mio corpo. Non c’è nulla
di macabro in questa poesia, ma ci sono sentimenti di una dolcezza infinita.
Innanzi tutto questo “non chiudetemi gli occhi”, che è il gesto della
compassione – magari lo avrete fatto anche voi più volte nella vita –, con cui è come se noi facessimo
calare il sipario sulla vita di una persona cara, all’atto in cui, appena
spirata, compiamo il gesto dolce, che parte dalla fronte e chiude le palpebre.
Non chiudetemi gli occhi. Inizialmente, quando mi sono imbattuto in questo
testo, come voi stasera, ho pensato: magari si tratta di paura, della voglia di
guardare ancora il mondo… Niente di tutto questo. Qui
non c’è quell’affezione al mondo che in quei versi è presente, ma c’è il
desiderio di riflettere qualcosa che il defunto ha visto nel passaggio, nel
varcare la soglia dell’eternità e che, in qualche maniera, gli è rimasta negli
occhi. Qui ci sono occhi che richiamano “aspettare che Dio ti affiori agli
occhi” della poesia precedente (non si trovavano assolutamente così vicine come
le ho poste io in un dittico), ma negli occhi del defunto che ha visto per un
istante Dio, varcando la soglia, prima di chiudere la scena su questo mondo, i
parenti devono vedere riflesso un po’ del Suo viso. Qui non si dice “Dio”, ma
del “Suo viso”: pudore immenso anche di nominarLo.
Quindi prima di chiudermi gli occhi, guardatemi, perché nei miei occhi, nelle
mie pupille, forse potrete intravedere un’eco del volto di Dio che io ho visto.
Paolo dice: “Lo vedremo faccia a faccia”. Poi, anche qui, controcorrente: non
il Cristo crocifisso, non la corona consueta prima che il corpo si irrigidisca,
ma ponetemi sul petto l’immagine di un Cristo che risorge che troppo l’ho veduto crocifisso. Pensate anche, nel caso che i
parenti abbiano voluto mantenere la consegna, che difficoltà avranno avuto nel
cercare un Cristo risorto: provate a trovare un Cristo risorto! Di crocifissi
ne troverete di tutte le fogge, ma un Cristo risorto…
perché – e qui c’è un senso di
tristezza, di dolore, perché Barsacchi ha vissuto una vita difficile – troppo l’ho veduto crocifisso. Dove l’ha
visto? Ovviamente non nelle raffigurazioni, ma in sé, negli altri. Quindi, ora
che ha varcato la soglia dell’eternità, desidera che ci sia anche un segno di
Risurrezione, ci sia anche qualcosa che dica: è finita!, è finito il tempo del
dolore!, adesso siamo nella gioia, siamo nel canto! È finito il dramma: adesso
comincia la fiaba.
Non
si possono scrivere questi versi senza una grande fede; già scolpirli, tirarli
fuori dal marmo del linguaggio comune è arte, ma poi, quando quest’arte è anche
attraversata dalla fede, come questi versi, promana uno splendore
supplementare.
Mettetemi i miei panni da giardino / i
sandali leggeri. Questo “leggeri”
dice anche di una vita leggera, anche questo controcorrente. Quindi, non
chiudetemi gli occhi, non mettetemi il crocifisso solito, ma un Cristo risorto;
mettetemi i panni da giardino, cioè i panni da lavoro, i panni, gli abiti
dell’amore alla terra, del rapporto con il raccolto, con gli ortaggi che, a
fatica, Barsacchi nella sua vecchiaia avrà tirato su nel piccolo orto della sua
casa.
I sandali leggeri: a questo aggettivo io avrei messo addirittura una dieresi – “leggieri” – facendo sentire ancora di più la leggerezza di
questi sandali che non servono per camminare, ma sono i sandali da giardino,
quelli non pesanti, non scarponi da montagna (Don Lorenzo Milani,
nel suo testamento dice: Seppellitemi con i miei stivali, con i miei scarponi
da montagna, perché ho fatto il prete di montagna).
Perché
i panni da giardino e i sandali leggeri? Perché questa vita che vado a vivere,
bella, bellissima, non è senza collegamento con la vita che ho vissuto e,
quindi, se ho trovato gioia nel lavorare nell’orto – spero che voi troviate
gioia nel vostro lavoro, pur con tutte le difficoltà delle professioni – allora
c’è una gioia qui che si collega con la gioia dell’“aldipiù”,
più che dell’aldilà. Quindi questi panni da giardino mi dicono che c’è ancora
da dissodare e che passo da un giardino all’altro (vi ricordo che “Paradiso”
significa “giardino” nella letteratura orientale).
Sento
che in questi versi c’è un senso di fede non detto – Suo viso, Cristo
crocifisso, Cristo che risorge, panni da giardino, sandali leggeri – che ci invita
a dire che questa umanità è il luogo dove la divinità risiede e – dico così in
sintesi – in proporzione alla passione che abbiamo messo nell’essere uomini e
donne, corrisponderà il premio; non nelle virtù o nei peccati che non abbiamo
commesso, perché ne commettiamo e ne commetteremo tutti, ma nella passione che
abbiamo posto nel vedere, nello scavare, nel tirare fuori anche da un orto
arido dei frutti, corrisponderà poi un premio, una gioia, una pace, una messe
abbondante. Magari la messe qui è sempre piuttosto in forse, per tante
disavventure, ma non nell’eternità.
Ho
lavorato la terra, ho zappato, ho seminato, aspetto la primavera, aspetto che
fioriscano le mimose (da noi non sono ancora fiorite: fioriranno) e questa
passione all’oggi, mi dice che ci sarà per me un’eternità. Quello che ho detto
prima lo coniugo così: diffidate – vi sto mettendo in guardia dai prodotti non
autentici –, diffidate di chi parli eccessivamente dell’eternità senza
sottolineare la bellezza del tempo.
***
Ma quando sarò morto
non chiudetemi gli occhi
ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.
Ponetemi sul petto
l’immagine di un Cristo che risorge
che troppo l’ho veduto crocifisso.
Mettetemi i miei panni da giardino,
i sandali leggeri:
io non parto, ritorno.
Non guardatemi l’ultima volta, ma la
prima,
come quando si lascia un figlio
chiamato dall’amore.
Confesso
che questi ultimi versi mi hanno commosso e mi hanno santamente agitato nei
primi giorni dell’anno.
Non parto, ritorno. Sono due cose diverse, cioè non mi allontano, non sono
condannato a lasciare, ma sto tornando a casa. L’immagine più bella è questa: Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima.
Abbiamo tutti l’immagine del coperchio delle bare, e questi occhi fissi a
rubare l’ultima immagine da imprimere. Invece non si tratta di un ultimo
sguardo. Non guardatemi l’ultima volta,
ma la prima, cioè come se mi vedeste la prima volta perché, attraverso una
trasformazione, che non smentisce quello che è accaduto prima, ma lo porta a
compimento, mi vedete per la prima volta. Com’è diverso l’ultimo sguardo dal
primo sguardo, l’ultima volta dalla prima volta! L’ultima volta sa di
ineluttabilità: non mi vedrete più. Invece mi vedete per la prima volta, quasi
che adesso sto fiorendo, sono veramente me stesso.
L’immagine
conclusiva è di una bellezza infinita: Come
quando si lascia un figlio chiamato dall’amore. Quelli fra voi che sono
genitori possono capirmi (dico “genitori” per dire “persone che hanno a cuore
altri”). Un figlio che parte, perché si sposa o perché è innamorato, è diverso,
è nuovo, lo vedi per la prima volta, non l’hai visto prima: prima era un altro,
adesso è fiorito, è illuminato. Quindi questo lasciarlo andare, certamente è
doloroso per me padre, per me madre; ma è un lasciarlo andare per una festa,
per cui questo dolore è attutito, addolcito dal sapere che è chiamato
dall’amore, si è innamorato. Ovviamente, si intravede tra le righe un altro
Amore, quello pieno, quello grande, ma anche quello che si riflette nei nostri
poveri e feriali amori. Come quando si
lascia un figlio chiamato dall’amore. Ciao mamma, vado alla festa! Non mi
aspettare.
La
parola “non mi aspettare” fa andare in crisi i genitori: perché non devo
aspettare? che farà? dove andrà? È un figlio chiamato dall’amore e quindi lui
volta le spalle volentieri, come speriamo ci accadrà, possa accaderci, a
conclusione della nostra vita, ma anche in ogni morte feriale, anche quella di
stasera, anche della nostra preghiera che si conclude. Anche una preghiera che
finisce è una morte, anche l’ultima nota è una morte: sono tanti addii che
diciamo, che celebriamo.
Mi
fermo qui. Volevo farvi innamorare di questi uomini credenti che non parlano di
Dio, di questi uomini innamorati dell’uomo, innamorati dell’umano, delle
vicende, degli intrighi, delle dispute, delle cose materiali di cui Dio è
innamorato. Turoldo, grande cantore di questa umanità, dice che Dio si è
incarnato perché voleva sapere la fame, la sete, cioè era invidioso delle
nostre piccole esperienze che, a guardarle dall’alto, magari sono irrilevanti;
ma si è incarnato - lui dice - perché voleva sperimentare la gioia
dell’amicizia, la gioia della convivialità, anche la pena o il dolore del
distacco. Chiediamo questa fede radicata nella storia, nella carne, nella
materia.
Ma quando sarò morto
non chiudetemi gli occhi
ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.
Ponetemi sul petto
l’immagine di un Cristo che risorge
che troppo l’ho veduto crocifisso.
Mettetemi i miei panni da giardino,
i sandali leggeri:
io non parto, ritorno.
Non guardatemi l’ultima volta, ma la
prima,
come quando si lascia un figlio
chiamato dall’amore.
***
Volevo
condividere con voi una sorta di “calendario personale”: poiché ci
apparteniamo, condividiamo anche i “calendari” del Vescovo. Questo giorno per me
è un giorno particolare, perché nel 1999 ebbi un incidente, uno svenimento
terribile a piazza San Pietro – deserta, peraltro – e mi svegliai dopo un paio
d’ore credo, a pezzi, veramente a pezzi, plurifratturato,
in un ospedale romano. Poi cominciò tutta una via crucis di interventi. Mi piace ricordarlo e condividerlo con
voi. Ho voluto anche prendere questo pezzo sulla morte per questo motivo, ma
come vedete colmo di speranza. Noi non ci saremmo mai visti, se io da quella
esperienza, con tutto quello che successe nei mesi successivi, fossi stato
chiamato direttamente dal Capo, e quindi il fatto che ci siamo conosciuti è
questo supplemento di vita che mi è stato offerto per vostra penitenza,
ovviamente.
Voglio
anche annunciarvi – la prossima volta che ci vediamo ad “In punta di piedi” ci
saranno anche i manifesti – che il 2, 3, 4 e 5 marzo, casomai siate liberi,
faremo la seconda edizione di “Teatri d’Anima”, con tre spettacoli teatrali
all’auditorium e una Traviata in Duomo (che mi otterrà sicuramente una destituzione nel giro di 24 ore) da me
commentata, con un reale Alfredo, Violetta e con una mini-orchestra, un
direttore e con commenti per collegare le scene e per spigolare, da parte del Vescovo.
Questa
esperienza di Traviata l’ho intitolata: “La Traviata: traviata?”, per generare
qualche interrogativo nell’uditorio. Questa esperienza in Cattedrale sarà
aperta a tutti. Ci saranno anche attori da Torino e, nell’ultimo, un’attrice
che racconta la nascita della sua vocazione diciamo d’arte; poi c’è anche il
testo dell’Arendt sulla banalità del male. Nel
prossimo incontro di “In punta di piedi” ci sarà anche la possibilità di
prendere l’abbonamento, tra l’altro abbordabilissimo, ma nel caso che non
vogliate partecipare, ricordate che il 4 è aperto a tutti ed è in Cattedrale.
Benedizione
del Vescovo
***
Grazie
a Domenico, che ha superato la febbre, grazie a Maria Teresa e grazie a tutti
voi. Buona serata.
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.