In punta di piedi in Episcopio

Ritiro per adulti

guidato da

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

Renzo Barsacchi

Poeta dell’anima

 

Episcopio di Teano

 

26 gennaio 2011

~

 

Violino: Domenico Mancino

Pianoforte: Maria Teresa Roncone

~

 

Iniziamo il nostro breve ma intenso percorso. Innanzi tutto ringraziamo Maria Teresa e Domenico Mancino che avete già ammirato per la leggerezza nell’eseguire i brani al violino. Vorrei ringraziare Domenico, in particolare, perché è venuto febbricitante. Altri si sarebbero defilati, ovviamente, per oggettive ragioni di salute; invece lui è qui. Allora, anche per aiutarlo, cercherò – ma non so se il Vescovo ci riesce – di abbreviare di qualche minuto il nostro itinerario.

 

***

 

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Il nostro percorso artistico-spirituale – anche se questo binomio costituisce una sola parola, nel senso che ogni espressione artistica è spirituale e ogni espressione spirituale è arte – è sulla traccia di queste due poesie di Barsacchi, un autore che ho già citato altre volte e che adesso visitiamo in due testi che ho accostato semplicemente per l’avversativa con cui iniziano. A scuola ci è stato insegnato che non è bene iniziare con l’avversativa, ma la poesia scavalca ogni regola e, quindi, sia la prima che la seconda poesia cominciano con un “ma”. Guardiamo innanzi tutto il primo testo:

 

Ma dopo aver pregato

io non potrei parlarti

di Dio: non ne avrei voglia,

tanto ogni mia parola

è diversa e lontana, come dopo la pioggia

l’arcobaleno che non puoi descrivere

descrivendo i colori.

Io ti potrei guardare,

se vuoi, restarti accanto

diversamente, stringerti la mano

finché scenda il miracolo

nelle tue vene in attesa:

aspettare che Dio ti affiori agli occhi

per ripregarlo ancora.

 

Lasciamoci suggestionare, stregare, nel senso bello del termine, da questa prima produzione artistica, poetica di Barsacchi, un poeta poco conosciuto, se non sbaglio un dipendente comunale del Centro-Italia, che ha vissuto il suo dramma di credente attraverso questa produzione poetica. Troviamo in lui sempre - almeno capita a me - degli sprazzi meravigliosi.

Addentriamoci nel primo testo, che manifesta la difficoltà a parlare di Dio, e in particolare da parte di chi abbia parlato con Lui, per dirla con un gioco di parole. Direi di diffidare delle persone che ne parlano eccessivamente. Siamo tra noi, anche persone più o meno dentro alla vita della Chiesa, e ci sono due tipi diversi di persone.

Ci sono quelli che parlano sempre di Dio, sempre il Signore sulla bocca, citazioni, visioni, il Signore dice…, il Signore ha detto… Invece direi di fare attenzione a chi ne parla balbettando; facciamo attenzione a chi, di tanto in tanto, ne fa affiorare il ricordo o, se volete, la nostalgia. E perché dovremmo diffidare forse di noi stessi? Magari, dicendo questo, demolisco apparentemente anche il mio Ministero, quello di Don Geppino: siamo chiamati a parlare di Dio, a spiegare la Parola di Gesù, ma già comprendete dove voglio giungere.

Perché diffidare? Diffidare di chi utilizza un termine impropriamente, in abbondanza, tra l’altro – come sappiamo sul piano della trasmissione – creando un intasamento, più che un aiuto, sul piano della fede. Una difficoltà – c’è anche qualche insegnante di religione qui – è la ridondanza del linguaggio o la ridondanza del messaggio, cioè parlare eccessivamente di fede non aiuta la fede, ma diventa ostacolo alla fede. E perché?

Qui allarghiamo il discorso ad ogni esperienza umana. Parlare eccessivamente dell’amore non è un buon segno, perché indica un tempo in cui l’amore è in calo, cioè quando si parla eccessivamente di una cosa è per nascondere il vuoto di quella realtà. Ovviamente, come sempre, parlo in una maniera paradossale, ma ormai siete abituati ai miei paradossi.

Se partiamo da questo presupposto, e cioè che chi ha fatto veramente esperienza di una cosa non la sa raccontare, non la sa dire, più di altri ha difficoltà a verbalizzare, a comunicare quello che vive, allora noi non ci dobbiamo aspettare da chi è più vicino a Dio – i monaci per esempio, le monache, i contemplativi per vocazione – delle grandi prediche (anche qui mi zappo sui piedi), delle grandi descrizioni. Voi, ascoltando uno che parla di Dio eccessivamente, dite: Ecco, questo se ne intende. Questo sa il fatto suo, conosce… È l’esatto contrario, nel senso che chi ha parlato con Dio, come dice il nostro poeta, chi ha parlato con Lui – e la preghiera è questo – non ha desiderio di parlarne. Ma dopo aver pregato / io non potrei parlarti / di Dio: non ne avrei voglia – attenti – non per una sorta di sazietà, perché inizialmente questo verso potrebbe indurre alla lettura “avendo pregato a lungo, adesso è sazio”, di quella sazietà che a volte è anche dei dolci, anche delle cose buone, di cui noi finiamo per sentire una sorta di avversione, perché non si può mangiare continuamente. Non è questa la difficoltà, ma la difficoltà è piuttosto nel fatto che proprio per aver parlato con Lui, non riesco a trovare le parole per dire di Lui. Per cui è come se il mondo si dividesse – e dico questo per semplificare – in due categorie di persone: quelle che parlano di Dio e quelle che parlano con Dio.

Quelle che parlano con Dio non hanno dimestichezza a parlare di Lui. Se questo è vero – parlo sempre sul filo del paradosso – allora chi ne parla troppo non ci parla. La difficoltà del comunicare è espressa con l’immagine dell’arcobaleno, che ho visto, che è una visione d’insieme, legata ad un’emozione. Pensate che l’arcobaleno ha talmente impressionato l’uomo biblico, da far indicare nell’arco tra la terra e il cielo il segno dell’alleanza dopo il diluvio; quindi quando siamo di cattivo umore o anche quando siamo più superficiali, imbatterci nell’arcobaleno, genera sempre un’emozione. Come si fa a descrivere un arcobaleno? Si cerca di dire: c’era un indaco perfetto… partiva da… e finiva nel mare (ricordo certi arcobaleni sulla penisola)… oppure partiva da Sant’Antonio e abbracciava Teano... Nel tentativo di descrivere i colori o da dove partiva, dove poggiava questo arco naturale, tu non lo descrivi ma lo perdi, né riesci a trasmettere quello che hai visto. Allora, a questo punto, cosa dobbiamo fare? dobbiamo tacere? non c’è niente da dire?

Qui è l’aspetto più bello di questa prima poesia. Il poeta dice: Io ti potrei guardare / se vuoi (accenno semplicemente il tema, perché mi sono dilungato nella descrizione della prima parte); non ti parlo di Dio, ma ci guardiamo. Ma ti potrei guardare / se vuoi, restarti accanto diversamente. Quest’uomo, che si è immerso in Dio, sarà stravolto nella sua umanità? sarà defraudato della sua umanità? o vivrà – è quello che avverto io, ma potrei sbagliarmi – un’accentuazione di umanità? Non ti parlo di Dio, ma ti posso guardare. In questo sguardo, forse, in questo stare accanto a te, restarti accanto diversamente, c’è più di quello che io riuscirei a dirti di Colui con cui ho parlato. L’avverbio “diversamente” dice che noi possiamo dialogare del più e del meno, possiamo farci compagnia, possiamo stringerci la mano, come dirà nel verso successivo, in una maniera banale o addirittura volgare, o in questa stretta, in questo sguardo, in questo starti accanto, trasmetterti quello che le parole non possono dire.

Vi lascio con questa prima suggestione: colui che ha fatto esperienza di Dio, non ne vuole parlare, ma può sedersi accanto a te, può parlarti di altre cose. Di cose umane? Questo lo vedremo dopo.

 

***

 

Il Dottor Iaccarino, credo nell’esecuzione del concerto precedente con Domenico, disse: Sembra tutto così leggero, quasi che agitare l’archetto sulle corde del violino sia la cosa più naturale di questo mondo.

Sappiamo bene che non è così. Prendo spunto da questa naturalezza, questa levità anche nell’esecuzione di Domenico, per entrare ancora di più in questo messaggio di non voler parlar di Dio troppo o del diffidare, come vi ho detto, di quelli che ad ogni pie’ sospinto tirano Dio dalla loro parte, cogliendo invece il divino e la familiarità con Dio nel modo con cui diversamente ci si pone nei confronti delle realtà terrestri, umane (è questo in fondo il messaggio della prima poesia di Barsacchi).

Io ti potrei guardare, quindi non posso parlarti, non chiedermi di parlarti di Dio, non chiedermi cosa mi ha detto, come si fa… Pensate a tante curiosità sulle rivelazioni delle presunte apparizioni.

Io ti potrei guardare - dice. In questo sguardo, che chi ha pregato offre all’altro, ovviamente c’è un di più. Ti potrei guardare e quindi potrei suonare con naturalezza e tu chiederti: Com’è che questa esecuzione è così lineare, così apparentemente senza sforzo, così lieve?

Io ti potrei guardare / se vuoi, restarti accanto / diversamente, stringerti la mano.

Vorrei fermarmi un attimo su “stringerti la mano”.

Perché colui che ha pregato deve stringere la mano? Per manifestare vicinanza, ovviamente, a colui/colei che è venuto a chiedere conto della sua esperienza mistica. Gli stringe la mano perché in questa stretta può comunicare. Si può stringere la mano in mille modi – come sapete bene, meglio di me – e in questa stretta c’è il passaggio di un’energia, come oggi si ama dire, di un “non detto” circa il modo con cui questa persona ha parlato con Dio, ne ha ascoltato la voce o ne ha meditato la Parola. Come vedete, “guardarti”, “starti accanto diversamente”, “stringerti la mano”, sono espressioni di corpo, di materialità, di vicinanza nei termini con cui noi siamo soliti invocarla o farne esperienza, cioè gli altri ci sono accanto, ci guardano, ci stringono la mano, ma lo possono fare in tante maniere diverse. Il consacrato – e qui non parliamo di preti, suore o monaci – ma l’uomo e la donna che hanno fatto esperienza di Dio, fanno queste stesse cose in una maniera diversa, tanto che sembra una stretta di mano fuori d’ogni canone, fuori d’ogni esperienza precedente. Vale a dire che se uno ha incontrato veramente Dio – e questo è il tema che adesso esplicito e che volevo comunicarvi – più che sul piano spirituale, lo verifichiamo sul piano umano, cioè l’uomo, la donna dentro il mistero di Dio, sono persone in carne ed ossa, che ci fanno rigustare la gioia d’essere uomini, d’essere donne, d’essere viventi, d’essere a questo mondo, d’essere nella storia, d’essere nel dolore, d’essere nello spazio e nel tempo (questo è il nostro primo incontro dell’anno 2011).

Vi sembra che io vi stia un po’ strattonando, tra l’altro demolendo anche dei luoghi comuni circa chi ha pregato, chi ha una vita di preghiera, ma spero di sfondare una porta aperta o anche di darvi le cifre per comprendere che tra le tante persone che ci parlano di pane, di vino, di acqua, di sonno, di malattia, di lacrime, di figli, di dolori, di delusioni o di sole che tramonta, ce ne sono alcune che lo fanno apparentemente con le stesse parole e gli stessi atteggiamenti degli altri, ma ci comunicano di più: perché? sono poeti? sono persone superdotate? o hanno fatto quell’esercizio che intravediamo, ma che solo Domenico conosce, di anni e anni con il collo piagato (immagino che un violinista abbia il collo piagato nel fare esercizi) e poi viene fuori questa arcata così leggera e noi diciamo: Allora è facile! È facile vivere! È facile eseguire un brano! È facile suonare il violino! – e sappiamo che non è così.

Cosa sta tentando di dirvi il vostro Vescovo? Sta tentando di dirvi che gli uomini, più sono dentro il mistero di Dio, più sono dentro il mistero dell’uomo. E vi sta anche dicendo, tra le righe: diffidate – lo dico con tutta la convinzione possibile – diffidate di chi vi parli di Dio e non sappia dirvi di voi, di sé, degli occhi, degli sguardi, della stretta di mano, del pane, della fame, del sorriso, delle lacrime, cioè non sappia dirvi chi è l’uomo, perché quando noi abbiamo cominciato a pensare in una maniera divaricante la vita spirituale rispetto alla vita umana, sono cominciati i veri problemi nella Chiesa e nella cristianità.

Questa voglia di non parlare – Non mi chiedere di Dio – di Barsacchi, io la leggo come l’esperienza o il sigillo d’autenticità di una vera esperienza spirituale. Quest’uomo ha potuto dire: non ne avrei voglia, non te lo so dire, non riuscirei a raccontartelo; e nell’esprimere questo disagio – Barsacchi è defunto da pochi anni – descrive o ci fa intravedere una vera esperienza di Dio, perché dice: Però ti guardo – magari lo dice alla moglie (non so a chi sia dedicata questa poesia) o a una qualsiasi altra persona – però ti guardo, ti sto accanto diversamente. Tanti ti stanno accanto, ma ti sfiorano senza toccarti, senza farti vibrare, senza farti comprendere una reale vicinanza. Io, invece, ti sto accanto diversamente, ti stringo la mano e, in queste esperienze profondamente umane, veramente umane, elementarmente umane, tu puoi capire che io ho parlato con Dio.

Non so quanto riesco a dirla precisamente, questa frase di Simone Weil, che ho citato a Roma nella relazione di inizio anno, anche se non è stata un granché negli effetti, anzi. Dice questa mistica del Novecento: Non nel parlare di Dio – adesso lo dico a parole mie – ma nell’aderenza con cui le persone parlano delle cose umane, tu puoi capire se hanno soggiornato veramente in Dio.

Questa cosa che io vi sto raccontando attraverso i versi di Barsacchi, noi l’abbiamo celebrata e speriamo di non averla dimenticata nell’evento del Natale, che è alle nostre spalle, ma che non è un mistero che si consuma, perché è inconsumabile, cioè Dio nell’umanità, Dio uomo, Dio bambino e adesso Dio sulle rive del Giordano, è il Dio che io conosco. Se Dio ha scelto la via dell’umanità per rivelarsi, l’uomo non può scegliere la via della divinità (qui intesa come lontananza dalla storia).

Cari amici che forse mi state ascoltando, noi così vorremmo le persone, così vorremmo i preti, così vorremmo i laici impegnati, cioè persone che parlano raramente di Dio, ma nel sedersi accanto, nel guardare, nello stringere una mano, nel parlare d’altro – ma tutto quello di cui si parla è in Dio –, riescono a destare una nostalgia.

 

***

 

La conclusione è inaspettata, come dovrebbe esser d’obbligo in un testo: tutto questo in attesa di qualcosa. Quindi non ti parlo di Dio, ma ti parlo di cose umane (pensiamo anche a Gesù che parlava di pecore, di viti, di grano che stava maturando, di una donna in attesa che è triste, perché teme le doglie del parto, cioè parlava di cose umane).

Finché scenda il miracolo / nelle tue vene in attesa.

Qui abbiamo questo senso di fame che l’altro, questa donna o comunque questa persona, ha di capire, di sentirsi raccontare Dio dall’altro, che è diventata adesso un’esperienza che tocca il sangue (nelle tue vene in attesa). E qual è questo miracolo che deve scendere? questa condizione nuova che deve crearsi? Aspettare che Dio ti affiori agli occhi per ripregarlo ancora. Questa mia esperienza di uomo, che viene da Dio e che è esperienza di vicinanza, fa riaffiorare Dio in te, in modo tale che ti venga agli occhi.

L’ultimo verso è ambiguo, santamente ambiguo: Per ripregarLo ancora. Chi? Io? che sono venuto dalla preghiera e che non ho voglia di raccontare la preghiera? o te, avendo sentito, tu stessa o tu stesso, l’esperienza fisica di Dio dentro di te, che ti è stata destata dal mio tocco, dalla mia parola, dalla mia allusione, dalla mia musica, da quello che ti ho raccontato, di cose completamente diverse dalla vita spirituale, di tutt’altro vocabolario? Questo Dio che ti sale agli occhi, come nostalgia ovviamente, come nuova visione della vita – e qui credo che siano valide, sia la prima che la seconda lettura – ti porrà (1° lettura) nella dimensione della preghiera, ti farà venire il desiderio di pregare, non attraverso le mie parole, ma attraverso la mia umanità. Ma credo che sia valida anche l’altra interpretazione dove il ripregarLo riguarda me che vengo dalla preghiera e che non ti posso parlare della preghiera, ma adesso che vedo riaffiorare in te questa coscienza, adesso che vedo ridestarsi in te questa fede, e vedo che Dio ti agita, questo vederLo nei tuoi occhi mi fa venire di nuovo voglia di pregare.

Come vedete, sembrano degli itinerari un po’ contorti; in realtà hanno questo comune denominatore questa unità Dio-uomo. Allora, ripeto: diffidate di quelli che parlano troppo di Dio.

Dico questo perché, in una delle mie peregrinazioni per l’Italia, nel giugno scorso, ero a Portogruaro, in Veneto, per una serata dove c’era uno psicoterapeuta e avevano invitato il Vescovo per un dibattito a porte aperte, in un chiostro. Che cosa è successo di strano? Io non mi sono meravigliato, ma poi ho visto che l’uditorio lo era. Alla fine si sono invertiti i ruoli: lo psicoterapeuta, non dico che ha fatto una predica, ma è stato molto spirituale; io, dal mio lato, invece sono stato molto umano e una signora si è alzata e ha detto: “Ma io qua non ci capisco più niente! – l’ha detto in senso bello, perché io avevo utilizzato il termine “sfigato” – Non ho mai sentito un Vescovo che dice “sfigato”!”. Però me l’ha detto con simpatia: era come se lo psicoterapeuta avesse fatto il Vescovo, ed io lo psicoterapeuta (senza competenza, beninteso), ma avendo un approccio molto terra-terra, a dire: chi siamo? cosa stiamo facendo? Non ricordo neanche le argomentazioni di quella sera. Il tema era: come ricostruirsi dopo un addio, come rimettersi in piedi dopo una lacerazione. Però mi ha gratificato, a partire dai miei presupposti, l’aver svolto un ruolo che effettivamente non era proprio confacente al motivo per cui mi avevano invitato.

Io credo – e chiudiamo questa prima parte – che, all’atto in cui noi ci convertiamo veramente, noi sapremo parlare di umanità, di storia, di sangue, di carne, di vino, di messi, di ulivi, di bambini che nascono, di dolori, di pianti, ma se noi non sappiamo parlare di queste cose, noi Dio non Lo abbiamo mai incontrato.

So che sto utilizzando espressioni un po’ terroristiche, ma è per non farvi addormentare e per tenere il filo del discorso sempre un po’ aperto. Il vero uomo è il credente autentico, ma quando un credente mi si presenta paludato di concettualità spirituali – meglio – di spiritualismo, alla fine torno alla mia vita appesantito.

Adesso purtroppo devo dedicarmi alla cena… Ecco, magari qualcuno fra voi avrà il problema: che ci mangiamo stasera? Questo problema è proprio un problema astratto che non ha attinenza con la fede? o la fede riguarda anche quello che mangeremo stasera, dal momento che Gesù ha voluto comunicarsi in una cena?

 

Ma dopo aver pregato

io non potrei parlarti

di Dio: non ne avrei voglia,

tanto ogni mia parola

è diversa e lontana, come dopo la pioggia

l’arcobaleno che non puoi descrivere

descrivendo i colori.

Io ti potrei guardare,

se vuoi, restarti accanto

diversamente, stringerti la mano

finché scenda il miracolo

nelle tue vene in attesa:

aspettare che Dio ti affiori agli occhi

per ripregarlo ancora.

 

***

 

Questa poesia, con cui concludiamo il nostro incontro, comincia anch’essa con il “ma” e probabilmente dev’essere una delle ultime di Barsacchi: parla della morte. C’è un’altra poesia più famosa di Barsacchi sulla morte, che altre volte vi ho commentato, ma questa mi ha preso nei primi giorni dell’anno e, quindi, in qualche maniera vi trasmetto un’emozione.

 

Ma quando sarò morto

non chiudetemi gli occhi

ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.

Ponetemi sul petto

l’immagine di un Cristo che risorge

che troppo l’ho veduto crocifisso.

Mettetemi i miei panni da giardino,

i sandali leggeri:

io non parto, ritorno.

Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima,

come quando si lascia un figlio

chiamato dall’amore.

 

Ovviamente c’è lo stesso autore e quindi la stessa fede ed anche la stessa umanità, quella che noi andiamo cercando, quella stessa umanità che abbiamo vista riflessa nella preghiera. È una sorta di consegna di Barsacchi ai suoi parenti, una sorta di testamento: come vorrei che fosse composto il mio corpo. Non c’è nulla di macabro in questa poesia, ma ci sono sentimenti di una dolcezza infinita. Innanzi tutto questo “non chiudetemi gli occhi”, che è il gesto della compassione – magari lo avrete fatto anche voi più volte  nella vita –, con cui è come se noi facessimo calare il sipario sulla vita di una persona cara, all’atto in cui, appena spirata, compiamo il gesto dolce, che parte dalla fronte e chiude le palpebre.

Non chiudetemi gli occhi. Inizialmente, quando mi sono imbattuto in questo testo, come voi stasera, ho pensato: magari si tratta di paura, della voglia di guardare ancora il mondo… Niente di tutto questo. Qui non c’è quell’affezione al mondo che in quei versi è presente, ma c’è il desiderio di riflettere qualcosa che il defunto ha visto nel passaggio, nel varcare la soglia dell’eternità e che, in qualche maniera, gli è rimasta negli occhi. Qui ci sono occhi che richiamano “aspettare che Dio ti affiori agli occhi” della poesia precedente (non si trovavano assolutamente così vicine come le ho poste io in un dittico), ma negli occhi del defunto che ha visto per un istante Dio, varcando la soglia, prima di chiudere la scena su questo mondo, i parenti devono vedere riflesso un po’ del Suo viso. Qui non si dice “Dio”, ma del “Suo viso”: pudore immenso anche di nominarLo. Quindi prima di chiudermi gli occhi, guardatemi, perché nei miei occhi, nelle mie pupille, forse potrete intravedere un’eco del volto di Dio che io ho visto. Paolo dice: “Lo vedremo faccia a faccia”. Poi, anche qui, controcorrente: non il Cristo crocifisso, non la corona consueta prima che il corpo si irrigidisca, ma ponetemi sul petto l’immagine di un Cristo che risorge che troppo l’ho veduto crocifisso. Pensate anche, nel caso che i parenti abbiano voluto mantenere la consegna, che difficoltà avranno avuto nel cercare un Cristo risorto: provate a trovare un Cristo risorto! Di crocifissi ne troverete di tutte le fogge, ma un Cristo risorto… perché – e  qui c’è un senso di tristezza, di dolore, perché Barsacchi ha vissuto una vita difficile – troppo l’ho veduto crocifisso. Dove l’ha visto? Ovviamente non nelle raffigurazioni, ma in sé, negli altri. Quindi, ora che ha varcato la soglia dell’eternità, desidera che ci sia anche un segno di Risurrezione, ci sia anche qualcosa che dica: è finita!, è finito il tempo del dolore!, adesso siamo nella gioia, siamo nel canto! È finito il dramma: adesso comincia la fiaba.

Non si possono scrivere questi versi senza una grande fede; già scolpirli, tirarli fuori dal marmo del linguaggio comune è arte, ma poi, quando quest’arte è anche attraversata dalla fede, come questi versi, promana uno splendore supplementare.

Mettetemi i miei panni da giardino / i sandali leggeri. Questo “leggeri” dice anche di una vita leggera, anche questo controcorrente. Quindi, non chiudetemi gli occhi, non mettetemi il crocifisso solito, ma un Cristo risorto; mettetemi i panni da giardino, cioè i panni da lavoro, i panni, gli abiti dell’amore alla terra, del rapporto con il raccolto, con gli ortaggi che, a fatica, Barsacchi nella sua vecchiaia avrà tirato su nel piccolo orto della sua casa.

I sandali leggeri: a questo aggettivo io avrei messo addirittura una dieresi – “leggieri”facendo sentire ancora di più la leggerezza di questi sandali che non servono per camminare, ma sono i sandali da giardino, quelli non pesanti, non scarponi da montagna (Don Lorenzo Milani, nel suo testamento dice: Seppellitemi con i miei stivali, con i miei scarponi da montagna, perché ho fatto il prete di montagna).

Perché i panni da giardino e i sandali leggeri? Perché questa vita che vado a vivere, bella, bellissima, non è senza collegamento con la vita che ho vissuto e, quindi, se ho trovato gioia nel lavorare nell’orto – spero che voi troviate gioia nel vostro lavoro, pur con tutte le difficoltà delle professioni – allora c’è una gioia qui che si collega con la gioia dell’“aldipiù”, più che dell’aldilà. Quindi questi panni da giardino mi dicono che c’è ancora da dissodare e che passo da un giardino all’altro (vi ricordo che “Paradiso” significa “giardino” nella letteratura orientale).

Sento che in questi versi c’è un senso di fede non detto – Suo viso, Cristo crocifisso, Cristo che risorge, panni da giardino, sandali leggeri – che ci invita a dire che questa umanità è il luogo dove la divinità risiede e – dico così in sintesi – in proporzione alla passione che abbiamo messo nell’essere uomini e donne, corrisponderà il premio; non nelle virtù o nei peccati che non abbiamo commesso, perché ne commettiamo e ne commetteremo tutti, ma nella passione che abbiamo posto nel vedere, nello scavare, nel tirare fuori anche da un orto arido dei frutti, corrisponderà poi un premio, una gioia, una pace, una messe abbondante. Magari la messe qui è sempre piuttosto in forse, per tante disavventure, ma non nell’eternità.

Ho lavorato la terra, ho zappato, ho seminato, aspetto la primavera, aspetto che fioriscano le mimose (da noi non sono ancora fiorite: fioriranno) e questa passione all’oggi, mi dice che ci sarà per me un’eternità. Quello che ho detto prima lo coniugo così: diffidate – vi sto mettendo in guardia dai prodotti non autentici –, diffidate di chi parli eccessivamente dell’eternità senza sottolineare la bellezza del tempo.

 

***

Ma quando sarò morto

non chiudetemi gli occhi

ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.

Ponetemi sul petto

l’immagine di un Cristo che risorge

che troppo l’ho veduto crocifisso.

Mettetemi i miei panni da giardino,

i sandali leggeri:

io non parto, ritorno.

Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima,

come quando si lascia un figlio

chiamato dall’amore.

 

Confesso che questi ultimi versi mi hanno commosso e mi hanno santamente agitato nei primi giorni dell’anno.

Non parto, ritorno. Sono due cose diverse, cioè non mi allontano, non sono condannato a lasciare, ma sto tornando a casa. L’immagine più bella è questa: Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima. Abbiamo tutti l’immagine del coperchio delle bare, e questi occhi fissi a rubare l’ultima immagine da imprimere. Invece non si tratta di un ultimo sguardo. Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima, cioè come se mi vedeste la prima volta perché, attraverso una trasformazione, che non smentisce quello che è accaduto prima, ma lo porta a compimento, mi vedete per la prima volta. Com’è diverso l’ultimo sguardo dal primo sguardo, l’ultima volta dalla prima volta! L’ultima volta sa di ineluttabilità: non mi vedrete più. Invece mi vedete per la prima volta, quasi che adesso sto fiorendo, sono veramente me stesso.

L’immagine conclusiva è di una bellezza infinita: Come quando si lascia un figlio chiamato dall’amore. Quelli fra voi che sono genitori possono capirmi (dico “genitori” per dire “persone che hanno a cuore altri”). Un figlio che parte, perché si sposa o perché è innamorato, è diverso, è nuovo, lo vedi per la prima volta, non l’hai visto prima: prima era un altro, adesso è fiorito, è illuminato. Quindi questo lasciarlo andare, certamente è doloroso per me padre, per me madre; ma è un lasciarlo andare per una festa, per cui questo dolore è attutito, addolcito dal sapere che è chiamato dall’amore, si è innamorato. Ovviamente, si intravede tra le righe un altro Amore, quello pieno, quello grande, ma anche quello che si riflette nei nostri poveri e feriali amori. Come quando si lascia un figlio chiamato dall’amore. Ciao mamma, vado alla festa! Non mi aspettare.

La parola “non mi aspettare” fa andare in crisi i genitori: perché non devo aspettare? che farà? dove andrà? È un figlio chiamato dall’amore e quindi lui volta le spalle volentieri, come speriamo ci accadrà, possa accaderci, a conclusione della nostra vita, ma anche in ogni morte feriale, anche quella di stasera, anche della nostra preghiera che si conclude. Anche una preghiera che finisce è una morte, anche l’ultima nota è una morte: sono tanti addii che diciamo, che celebriamo.

Mi fermo qui. Volevo farvi innamorare di questi uomini credenti che non parlano di Dio, di questi uomini innamorati dell’uomo, innamorati dell’umano, delle vicende, degli intrighi, delle dispute, delle cose materiali di cui Dio è innamorato. Turoldo, grande cantore di questa umanità, dice che Dio si è incarnato perché voleva sapere la fame, la sete, cioè era invidioso delle nostre piccole esperienze che, a guardarle dall’alto, magari sono irrilevanti; ma si è incarnato - lui dice - perché voleva sperimentare la gioia dell’amicizia, la gioia della convivialità, anche la pena o il dolore del distacco. Chiediamo questa fede radicata nella storia, nella carne, nella materia.

 

Ma quando sarò morto

non chiudetemi gli occhi

ch’io vi rifletta un poco del Suo viso.

Ponetemi sul petto

l’immagine di un Cristo che risorge

che troppo l’ho veduto crocifisso.

Mettetemi i miei panni da giardino,

i sandali leggeri:

io non parto, ritorno.

Non guardatemi l’ultima volta, ma la prima,

come quando si lascia un figlio

chiamato dall’amore.

 

 

***

 

Volevo condividere con voi una sorta di “calendario personale”: poiché ci apparteniamo, condividiamo anche i “calendari” del Vescovo. Questo giorno per me è un giorno particolare, perché nel 1999 ebbi un incidente, uno svenimento terribile a piazza San Pietro – deserta, peraltro – e mi svegliai dopo un paio d’ore credo, a pezzi, veramente a pezzi, plurifratturato, in un ospedale romano. Poi cominciò tutta una via crucis di interventi. Mi piace ricordarlo e condividerlo con voi. Ho voluto anche prendere questo pezzo sulla morte per questo motivo, ma come vedete colmo di speranza. Noi non ci saremmo mai visti, se io da quella esperienza, con tutto quello che successe nei mesi successivi, fossi stato chiamato direttamente dal Capo, e quindi il fatto che ci siamo conosciuti è questo supplemento di vita che mi è stato offerto per vostra penitenza, ovviamente.

 

Voglio anche annunciarvi – la prossima volta che ci vediamo ad “In punta di piedi” ci saranno anche i manifesti – che il 2, 3, 4 e 5 marzo, casomai siate liberi, faremo la seconda edizione di “Teatri d’Anima”, con tre spettacoli teatrali all’auditorium e una Traviata in Duomo (che mi otterrà sicuramente  una destituzione nel giro di 24 ore) da me commentata, con un reale Alfredo, Violetta e con una mini-orchestra, un direttore e con commenti per collegare le scene e per spigolare, da parte del Vescovo.

Questa esperienza di Traviata l’ho intitolata: “La Traviata: traviata?”, per generare qualche interrogativo nell’uditorio. Questa esperienza in Cattedrale sarà aperta a tutti. Ci saranno anche attori da Torino e, nell’ultimo, un’attrice che racconta la nascita della sua vocazione diciamo d’arte; poi c’è anche il testo dell’Arendt sulla banalità del male. Nel prossimo incontro di “In punta di piedi” ci sarà anche la possibilità di prendere l’abbonamento, tra l’altro abbordabilissimo, ma nel caso che non vogliate partecipare, ricordate che il 4 è aperto a tutti ed è in Cattedrale.

 

Benedizione del Vescovo

 

***

 

Grazie a Domenico, che ha superato la febbre, grazie a Maria Teresa e grazie a tutti voi. Buona serata.   

 

***

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.