La Confessione di un Curato”

UNO SPETTACOLO TEATRALE DI CLAUDIO DI PALMA E ANGELO MAIELLO

MUSICHE ORIGINALI ESEGUITE DA GIOVANNI PANOZZO

 

Intervento di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

in occasione della prima nazionale

 

Auditorium Diocesano

 

Teano, 21 marzo 2010

  

 

Buonasera e buona primavera. Questa sera, in prima nazionale, assistiamo a “La Confessione di un Curato”, una realizzazione che speriamo, ci auguriamo e sogniamo che possa avere un seguito, frutto di un incontro di artisti - e non solo - intorno al testo di Bernanos. Alcuni di voi erano anche presenti alla lettura corale che abbiamo fatto prima di Natale e, quindi, non sono del tutto a digiuno del testo e di questa sorta di “parto”, per il quale hanno collaborato in tanti. Questa sera la collaborazione è anche vostra, perché in qualche maniera siete il primo pubblico a cui questo testo, nella riduzione teatrale, viene offerto. È importante la comprensione, il respiro, la tensione che si realizzerà, per dire che il lavoro di Claudio Di Palma, il lavoro di Angelo Maiello e il lavoro di Giovanni Panozzo come musicista, messi insieme, hanno creato qualcosa di buono e che parli, perché il teatro parla. Mi va di spendere anche, per i giovani, una parola a favore del teatro, rispetto a quello che consumano continuamente, e cioè la produzione filmografica. Il film, ovviamente, ha il suo fascino, ma ha il difetto d’essere falso. Voi direte: ma anche il teatro lo è! Non è così, perché come per quelli che lavorano sul trapezio al circo, il teatro è senza rete; vale a dire che c’è un rapporto immediato di sensazioni tra un attore - è il caso di questa sera - un musicista, un regista e il pubblico. Non c’è possibilità di correggere, non c’è possibilità di rifare una scena che non è venuta perfetta, per cui il teatro è la vita, è nella vita, rappresenta la vita e la rimanda allo spettatore. In questo senso, il teatro palpita, è una realtà vivente e, quindi, è bello anche che questa prima avvenga il giorno di primavera.

Solo qualche parola per introdurre chi fosse del tutto a digiuno del romanzo, che è alla base della riduzione teatrale a cui stiamo per assistere. È un romanzo che viene dalla cultura, dal cattolicesimo francese ed è scritto da Bernanos, un laico che è riuscito ad entrare nelle pieghe del cuore di un prete, come neanche noi preti siamo mai riusciti a fare. Un laico, da credente e da artista, guardando i preti agire, pensare, progettare, pregare, o anche non vedendoli, perché un prete vale anche quando non lo si vede (forse, soprattutto quando non siamo in relazione visiva con lui), è riuscito a scrivere questo “Diario di un Curato” che è un vero trattato di vita spirituale. Claudio Di Palma, che si è avvicinato a questo testo per la prima volta, se n’è innamorato, e mi dice che si potrebbero, dal materiale contenuto nel Diario, tirare fuori tanti lavori teatrali, a dire che le parole sono limate fino all’inverosimile e costituiscono, ciascuna, un trattato (ovviamente, questo è importante per la visione e poi, spero, per la lettura, per quelli tra voi che non si sono ancora avventurati nella lettura del romanzo). Quello che avviene, avviene nel paesaggio dell’anima e, quindi, è tutto sul filo del racconto di una interiorità. Dentro di noi ci sono delle tempeste, dei terremoti, degli eserciti che si affrontano in maniera drammatica più di quanto non avvenga fuori di noi, e Bernanos, come avviene nei grandi romanzieri francesi come Mauriac e altri, ha portato alla ribalta, sul piano letterario, il mondo dell’interiorità, dove si combattono grazia e male, grazia e peccato. Il curato parla della sua parrocchia, ma forse questa piccola parrocchia di nessuna importanza (La mia parrocchia è uguale a mille altre parrocchie è l’incipit del romanzo) è una parrocchia interiore e, in questo scontro di forze, questo grande protagonista, che è un piccolo, esile, giovane curato di campagna, avverte d’essere ìmpari. Allora, secondo lo schema dei vinti, è un vinto, non è un vincente, e ha sempre la percezione di non essere all’altezza, che quello che gli viene chiesto è oltre le sue possibilità (sono sensazioni che abbiamo anche noi). Ebbene, in questo racconto – permettetemi il termine più tecnico – di “inanità”, che è forse la parola che meglio di tutte esprime, dalla prima all’ultima sillaba, quello che è nel romanzo e quello che sarà nel lavoro teatrale a cui stiamo per assistere, in questa inanità, cioè percezione d’essere ìmpari, scende la grazia e fiorisce un santo. Dietro il Diario di Bernanos e nel background spirituale dell’autore, ci sono due santi francesi (quindi suoi connazionali): mi riferisco al Curato d’Ars, di cui ricorre l’anniversario della morte e che il Papa Benedetto ha posto come esempio per i preti di tutto il mondo, di tutta la Chiesa, e Santa Teresa di Gesù Bambino. L’uno e l’altra, come il protagonista, hanno vissuto esperienze in un piccolissimo angolo della Terra (la piccola Teresa, addirittura, in un monastero di clausura), ma hanno spaziato e – attenti – hanno spaziato perché non sono andati lontani da sé, ma sono sprofondati nella percezione del proprio essere e di questi fondali dell’anima di cui purtroppo, oggi, siamo pessimi conoscitori. Ecco perché quest’ora sarà di grande tensione e - ormai conosco tanti di voi e vedo, dalle vostre facce, che il pubblico è all’altezza di quello che sta per essere proposto - ha bisogno anche di una platea e di un pubblico attento e teso su questo racconto dell’anima, dove un perdente - perché alla fine il curato muore e gli sembra d’essere stato un pessimo prete - è un santo. Questo pubblico, scelto per verificare la fattibilità di quest’opera, riceve in dono, per la prima volta, questa riduzione teatrale. È un dono per noi, è un dono che è nato qui. Buona visione.

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.