“Letture del Presepe”
Incontro a conclusione della mostra “Nonsolopastori”
Chiesa dell’Annunziata - TEANO
(7 dicembre 2009 - 7 gennaio 2010)
Sabato, 9 gennaio 2010
Salone dell’Episcopio
Intervento
di
S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello
~
Mi
sono “autocandidato” ad un intervento laico. Volutamente, più volte, io scelgo
di guardare il mio mondo dall’esterno, di non difenderlo a spada tratta, in una
maniera bassa, becera, ma di guardare con l’occhio anche del “non credente”,
perché nel Presepe ci sono dei simboli. Quindi, vorrei dare brevemente questa lettura, perché anche il
“non credente” può guardare il Presepe con l’occhio - per utilizzare un termine
grosso e, ovviamente, io non sono all’altezza - dell’antropologia culturale.
Allora, decodifico alcuni simboli.
Il
primo simbolo è la notte. Attenti
che molti elementi del Presepe non hanno fondazione biblica: sono nei vangeli
apocrifi, sono nella tradizione che è andata ampliandosi man mano che scorreva
questo torrente. Per esempio, da un punto di vista biblico, non si dice nulla
della notte, se non della chiamata dei pastori; non c’è nessun fondamento
biblico che la nascita del Redentore sia avvenuta di notte, se non che “I
pastori vegliavano di notte…”. La notte è un primo simbolo che dice
“difficoltà”, dice “paura”. La notte dei bambini è il buio, e la paura dei
bambini è la paura del buio degli uomini primitivi, perché quello che noi
vediamo nell’evoluzione dell’uomo (bambino, ragazzo, adolescente, giovane, adulto,
anziano) è avvenuto e sta avvenendo anche nell’evoluzione dell’umanità. Quindi,
c’è stato un tempo in cui l’umanità era bambina e aveva paura del buio. Come
sapete, il buio che ha sempre fatto paura viene vinto, da un punto di vista di
evoluzione della cultura, dal fuoco: il fuoco tiene lontano le bestie feroci,
in qualche maniera riscalda, illumina la notte, dà un tocco di calore in una
esperienza difficile, che è l’esperienza del dormire, dell’essere sotto
qualsiasi pericolo e che è anche l’esperienza dell’incubo notturno. Quindi, la
notte è l’esperienza di buio visitata da qualcosa di positivo. Attenti che la
notte è anche - già veniva detto dal Professor Gaeta, che mi ha preceduto - nel
simbolo della grotta, che è più
presente rispetto alla stalla, perché la grotta è il grembo. Per cui questa
nascita avviene di notte, nel luogo più buio del corpo umano che è il grembo
materno. Lourdes ha il suo fascino per questo motivo: non perché c’è
un’apparizione - tra l’altro attestata dalla Chiesa - ma perché c’è una grotta.
Allora, la grotta è una sorta di simbolo, di invito a ritornare nel grembo per
recuperare una verginità perduta, per recuperare un’infanzia, per recuperare,
in qualche maniera, un essere cullati. I termini notte e grotta vanno anche
visti come il “buio in alto” e il “buio in basso”. La grotta è la notte nel
cuore della terra e, quindi, in qualche maniera, il visitatore (laico o
credente) diventa uno speleologo che va a visitare una grotta, scoprendovi un
tesoro, perché poi l’aspetto fantasioso entra nell’aspetto della grotta: il
tesoro, normalmente, nelle fiabe, nelle ricerche, è sempre da qualche parte, in
una grotta. Da un punto di vista di lettura spirituale, in questa grotta, si
trova un tesoro che si chiama Gesù.
Allarghiamo
un tantino l’obiettivo e troviamo gli animali.
Ovviamente, anche per essi non c’è alcun riferimento biblico, ma sono
iperpresenti fin dalle prime rappresentazioni (nel Presepe napoletano c’è
un’iperproduzione di animali di ogni tipo, tanto che ci sono degli artisti
specializzati). Per noi, che adesso ci fermiamo ai simboli essenziali, il bue e
l’asino costituiscono la presenza dello stato animale. C’è la dimensione
minerale, presente nella grotta, e c’è la dimensione animale, presente in
questi due rappresentanti, il bue e l’asino, a dire che l’aspetto animale non è
irredento - questa mia espressione, adesso, potrebbe essere presa e
strumentalizzata - cioè la redenzione non è solo per il mondo umano: è per il
cosmo (la stella, la notte, la grotta…), quindi, anche per il mondo animale.
Pensate anche alle profezie di Isaia o a certi brani di Virgilio che hanno
delle assonanze (Virgilio veniva letto fino a non tantissimi anni fa, tra i
testi dell’Avvento, quando si parla di una riconciliazione degli animali che,
normalmente, vivono tra loro una contesa). Il bue e l’asino stanno ad indicare
l’animalità, quindi anche una dimensione sanamente animale dell’uomo, redenta,
perché hanno cittadinanza all’interno della grotta.
Apro una
piccola parentesi, non personale, ma relativa a ciò che rappresento: quali di
questi due animali, a vostro parere, deve attirare di più l’attenzione
dell’uomo credente? Non il bue, ma l’asino, che ha una valenza – non vi
scandalizzate – cristologica, perché Gesù entra in Gerusalemme in groppa ad un
asino e c’era una profezia di Zaccaria che annunciava, in qualche maniera,
l’evento del re umile che viene cavalcando un asino. Nell’Antico Testamento,
c’è una grossa contesa tra il cavallo e l’asino (sono due simboli): il cavallo
è il capitalista della situazione, è il vincente, è il superdotato; l’asino è
quello che tira il carro. La preferenza della sensibilità ebraica va per
l’asino e non per il cavallo che invece, normalmente, è associato all’egiziano
(pensate alla notte del passaggio, ai “cavalli e cavalieri” finiti nella melma
del Mar Rosso). Quindi, qui abbiamo, non solo il simbolo del mondo animale
presente, assunto, riassunto e redento, ma abbiamo anche un messaggio in
codice, teologico, perché - adesso a voi sembrerà una bestemmia - l’asino è
Gesù: Gesù è quello che tira, è Colui che porterà il peso (l’asino porterà il
peso del Redentore nell’ingresso a Gerusalemme, ma poi Gesù sarà l’asino che
porterà la croce). Quindi, notte, grotta, mondo animale, con un occhio di
preferenza teologico-spirituale per l’asino, simbolo cristologico.
“Troverete
un bambino adagiato in una mangiatoria”: da qui è venuta la paglia e poi tutto l’“elemento stalla”.
La paglia sta per “mondo vegetale” che entra nella dimensione del Presepe,
perché è un aspetto della vita. Anche la paglia ha una “versione
teologico-spirituale”: è ciò che rimane del grano una volta vagliato, e il
grano sarà un elemento che Gesù richiamerà per autodefinirsi (Se il chicco di grano caduto in terra non
muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto). Quindi, la
paglia non è solo il materasso (magari, voi siete nati sul Permaflex, ma quelli
poveri tra noi ricordano che c’era una confusione terribile quando, da bambini,
ci mettevamo su quei materassi che avevano, all’interno, il resto delle
pannocchie: sentivamo un “crack-crack” che era anche bello). La paglia non è
solo ciò su cui si adagia il Bambino, ma è il mondo vegetale, è quello che
rimane del grano: quando il grano ha dato tutto di sé, rimane solo la paglia.
Entriamo
nei personaggi: innanzi tutto, Maria.
In questa rappresentazione dell’umanità, c’è la dea-madre: la donna. Potremmo
fare tante opere di destrutturazione di certi simboli che sono arrivati a noi
dal mondo greco, dal mondo romano e che, poi, sono stati battezzati e sono
diventati elementi della fede, ma quello che mi preme dire qui è che questa
donna è la donna nelle due stagioni fondamentali della sua vita che, mentre
nella vita concreta si escludono, nella sua sono compresenti. Non parlo da un
punto di vista dogmatico, ma da un punto di vista antropologico: è vergine ed è
madre. Queste sono le due stagioni della donna nella percezione del mondo - e
qui non leggetevi nulla che suoni come visione negativa della sessualità, altrimenti
non avremmo detto che ci sono gli animali -: c’è la vergine, nella percezione
del mondo all’insegna dell’entusiasmo, di una donna non ancora “colta” -
direbbe Erri De Luca nel suo meraviglioso “In nome della madre” - non ancora
sfiorata e poi c’è la madre, cioè colei che genera. Paradossalmente – è una mia
lettura - diventano madri e sono madri solo le vergini (qui salto
l’antropologia), cioè noi non abbiamo conosciuto - e credo che concordiate con
me - nessuna vergine come nostra madre, almeno nella nostra fantasia. La donna
è vergine e poi diventa madre; in Maria abbiamo la donna madre che è vergine,
cioè che conserva questa visione del mondo d’aurora o mattinale - che è la
verginità - nella maternità. Potrei continuare a lungo, ma do soltanto delle
macchie di colore.
Dall’altra
parte, abbiamo Giuseppe che, pur non
avendo partecipato - ci insegna la fede - all’impasto di questo bambino,
esprime una dimensione della mascolinità molto bella che è il silenzio e il
lavoro, così come, d’altra parte, abbiamo conosciuto i nostri padri. Voi avete
conosciuto già padri in jeans, padri che vestivano al modo dei figli, ma -
ahimé - non so se questa sia proprio una grande conquista. Giuseppe è il padre
silenzioso e, se ci fate caso, è il “padre napoletano”, in una lettura nostra.
Come sono stati i nostri padri?, come sono i padri di Eduardo, gli uomini del
teatro di Eduardo? Sembrano degli imbelli; in realtà, alla fine, si scopre che
sono dei sapienti. A fronte di queste donne alla “Filomena Marturano”, che tirano
le fila e manovrano tutto con le figlie e i figli, i padri ci vengono
presentati, nel teatro di Eduardo, fondamentalmente deboli, insignificanti,
imbelli, e poi scopriamo, alla fine delle commedie e tragedie di Eduardo, che
sono i poeti e i sapienti: sono quelli che non parlano mai, ma quando parlano,
sentenziano. Giuseppe è così: è l’uomo maschio, silenzioso, atto al lavoro,
custode. Penso conosciate tutti quel meraviglioso testo di Gibran sui figli ne
“Il Profeta”. “Parlaci dei figli”, dice una donna al saggio che sta per
imbarcarsi. E lui: “I vostri figli non sono i vostri figli”, cioè tuo figlio
non ti appartiene, perché tu (marito o moglie, padre o madre) sei semplicemente
un custode. Giuseppe svolge il ruolo di chi dà la paternità. Qui entrano anche le
simbologie, da un punto di vista antropologico, della differenziazione sessuale
della donna (che è “della pancia” e, quindi, dei sentimenti, dell’aspetto della
passionalità) e dell’uomo (che apre al mondo, al lavoro, alla società). Se
fosse per le mamme, noi saremmo ancora bambini; sono i nostri padri che ci
hanno aperto le porte, che ci hanno detto “vai in bicicletta, non fa niente che
torni con le ginocchia sbucciate”, cioè i nostri padri ci hanno lanciati nel
mondo, mentre le nostre mamme ci avrebbero trattenuto. Però le nostre mamme
sono maestre del sentimento, degli affetti familiari, di quell’ambiente - dice
la sociologia - dei rapporti primari; il padre, invece, è il grande educatore
della società, è colui che sembra non manifestare grande affetto nei confronti
dei figli, ma è il ponte con il mondo. Giuseppe svolgerà, nei confronti del
Bambino, il ruolo di ufficialità: “Questo è mio figlio”, anche se non è suo
figlio (come nelle meravigliose tragedie di Eduardo).
Chiudo
col Bambino che completa il quadro
familiare, ma che è il centro del mondo minerale (la grotta, la notte, le
stelle), del mondo vegetale (il grano, la paglia), del mondo animale (il bue e
l’asino), del mondo umano (uomo e donna) e dice “futuro”, dice “oltre noi”,
“oltre questo momento”: i figli sono questo grande ponte. I bambini sono quelli
che mettono in crisi le impalcature concettuali del “si è sempre fatto così”,
perché ci chiedono continuamente: “Perché?”. I bambini, chiedendo perché,
mettono in crisi le nostre certezze. Quindi, questo Bambino sta a dire
“futuro”.
Poiché
lì c’è Pulcinella, voglio chiudere con Pulcinella. Una volta, credo nel 2004,
il Vescovo di Acerra mi invitò a fare un Corso di Esercizi ai suoi preti.
Poiché Pulcinella è una maschera acerrana (almeno così si dice), dissi al
Vescovo e ai preti (facendo scandalizzare il Vescovo, per la verità): “Perché
non fate una teologia su Pulcinella?”.
Pulcinella,
che farebbe da pendant al Presepe, cos’è?
Una maschera laica? Ma il Professor Gaeta ci ha insegnato a vedere le
connessioni… Io darei questo input a qualcuno di voi che voglia approfondire
questo tema: sì, è vero che Pulcinella è il napoletano che riesce a tirarsi
fuori dagli “impicci” con le battute, ma è anche il debole. Una teologia su
Pulcinella è una teologia “alla Dostoevskij”
su “L’idiota”. Non so se avete letto questo romanzo non proprio entusiasmante
(come tanti monumenti della letteratura russa), ma “L’idiota” di Dostoevskij (che è un principe
imbelle, debole, che ha le crisi epilettiche) è, nella sua immaginazione, una
sorta di rivisitazione del Cristo. Allora, è possibile – vi lancio questa
proposta che, magari, qualcuno di voi può raccogliere - anche intorno alla
maschera di Pulcinella (quello che prende sempre le mazzate, quello a cui va
tutto storto), intessere una teologia, cioè una lettura spirituale? È possibile
che chi ha creato questa maschera, e chi l’ha messa in scena, volesse solo far
ridere? O anche far piangere? E se aveva intenzione di far piangere, forse
Pulcinella ha qualcosa da dire anche sul Bambino che adesso è piccolo, ma che
poi diventerà grande e sarà malmenato alla maniera di Pulcinella? Ma questo è
il tema di una dissertazione che qualcuno di voi potrà fare sulle maschere
napoletane.
***
Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.