Preghiera-Giovani
guidata
da
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
“C’era una volta…”
Teano,
25 novembre 2011
Chiesa
Cattedrale
~
Canto
iniziale: Te, al centro del mio cuore
Nel nome del Padre…
Come
sempre, facciamo uno sforzo perché la preghiera è anche uno sforzo (le cose
belle non sono spontanee, nonostante quello che credono i giovani e cioè che
bisogna fare quello che “mi viene”): a volte non “mi viene” di pregare e forse
la Preghiera di oggi ha un tema - “C’era una volta…” - che è un po’ pieno di
fiaba e che ci aiuta a capire come non tutto avviene subito; quello che
desideriamo forse bisogna conquistarselo e dunque anche la preghiera che,
dicono gli autori, è respiro dell’anima, è vero, ma richiede anche uno sforzo,
perché a volte cerco di mettermi in sintonia, cercando la linea giusta per
parlare con Gesù e non la trovo, la connessione è a intermittenza, faccio
difficoltà. Allora stasera vorrei chiedere al Signore, con voi o per voi, di
condurci per mano per capire come questa difficoltà non è un ostacolo alla
fede, alla preghiera, ma può diventare un incentivo. Questa è un po’ la sfida
che il Vescovo ha avuto in mente, facendo l’orditura di questa ora di preghiera
stasera.
Iniziamo
da un brano del Cantico dei Cantici che parla appunto di una difficoltà.
Dal Cantico dei Cantici (5, 2-8)
2 Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! È il mio diletto che bussa:
«Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».
3 «Mi sono tolta la veste;
come indossarla ancora?
Mi sono lavata i piedi;
come ancora sporcarli?».
4 Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio
e un fremito mi ha sconvolta.
5 Mi sono alzata per aprire al mio diletto
e le mie mani stillavano mirra,
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
6 Ho aperto allora al mio diletto,
ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa.
L'ho cercato, ma non l'ho trovato,
l'ho chiamato, ma non m'ha risposto.
7 Mi han trovato le guardie che perlustrano la città;
mi han percosso, mi hanno ferito,
mi han tolto il mantello
le guardie delle mura.
8 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate il mio diletto,
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d'amore!
Parola di Dio
***
Per
alcuni di voi o per tanti di voi non è scontato dire “Parola di Dio” dopo
questo brano che parla di amore, di ricerca, di un nicchiare da parte di lei quando
lui bussa, di un profumo che è la mirra, che cola dal chiavistello della stanza
di lei dove lui vuole entrare, di lei che finalmente si desta, ma quando apre,
lui se n’è andato. Dov’è andato? Lo troverà? Si incontreranno? Vivranno felici
e contenti?
Comincio
così, a partire dal Cantico (non ne parlerò più, ma è l’orizzonte della nostra
Preghiera): un incontro che vorremmo realizzare, ma a fatica, perché lui, a
volte, all’appuntamento non viene o mi lascia un bigliettino o dice: “Ci
vediamo in quell’altra celebrazione”, mi dà appuntamento altrove.
Vorrei
partire da una cosa che mi ha colpito durante la Messa che abbiamo celebrato
dalle Monache un’ora fa. Alcuni di voi vengono a fare la comunione da
mendicanti - ed è bello - cioè ponendo la mano del mendicante che chiede
l’elemosina, e ovviamente il prete o il Vescovo guarda anche le vostre mani
(attenti, non guardiamo se sono pulite o sporche). È venuta una ragazza e aveva
scritto “Michelangelo” a penna; poi è venuto un ragazzo e aveva scritto “Maria”.
È successo veramente, non me lo sono inventato, tant’è che ho chiesto ai
giovani di Ischia se era con loro la coppia, ma Michelangelo e Maria non
stavano nel loro gruppo; probabilmente erano due ragazzi di Teano che hanno
trovato il modo più classico e più antico di cercarsi per riconoscersi senza
perdersi. Voi dite che sarebbe facile scrivere il nome dell’amato nel palmo
della mano per non perderlo, ma è un modo antico quanto il mondo per non
dimenticarlo (speriamo di trovare questi due, così gli diamo un premio; erano
due adolescenti, quindi non sarà stato un grande amore, magari finirà domani),
ma io ho letto chiaramente “Michelangelo” nella mano di lei. Che ci fa il nome
di un ragazzo, scritto a penna nel palmo della mano di una ragazza? Ovviamente il
messaggio è chiaro; forse l’ha scritto lui: Non
mi dimenticare, non ci perdiamo! Ma a volte ci si perde di vista, anche con
Dio. Allora questo brano, bellissimo, che potrei commentarvi in tante maniere,
ho pensato di commentarvelo facendo il pendant
con una fiaba. Infatti il titolo è “C’era una volta…” e io vi racconto una
fiaba. Molti di voi questa fiaba la conoscono o la riconosceranno per averla
sentita da bambini.
C’era
una volta una regina incinta, felicissima d’avere finalmente un erede, e negli
ultimi giorni della sua gestazione, mentre passeggiava per il giardino, si
affacciò oltre il recinto della reggia e vide un povero mendicante,
bruttissimo, maleodorante, che le chiedeva qualcosa da mangiare: Regina, mi dia un tozzo di pane!
Vai via, sporco! - disse la regina indignata - Sembri un porco! Disse proprio così e, di rimando, il povero disse:
Ti possa nascere un figlio così! Una
maledizione… Sta di fatto - dice la fiaba - che, al momento del parto, c’erano
i lini e tutti i giullari erano pronti per far divertire la regina in un
momento di sofferenza, ma non nacque un bambino. Nacque un maialino: un
maialino nella culla piena di pizzi, nella sala piena di marmi per questo
principe erede.
I
genitori, come dice un proverbio napoletano, finiscono col voler bene anche ad
uno scorpione, perché per la mamma - dice il proverbio napoletano - è bello
anche il figlio che è brutto. Questa donna, a malincuore, dovette rassegnarsi a
tenere in casa, nella reggia, un maialino che cresceva, che sporcava i marmi, i
tappeti provenienti dalla Persia, che azzannava le argenterie: insomma, un
disastro. Ma il disastro più grande avveniva nel cuore del re e della regina,
che ne morivano di dolore. Intanto questo maialino cresceva, era pimpante,
scorazzava… Come avviene nelle fiabe, non era un maiale e basta: era un
maialino che diventò un maiale che parlava e discuteva. Ma era un maiale e
quindi si comportava da maiale (infatti la fiaba si chiama “La fiaba del re
porco”).
Il
problema nacque quando il re adolescente, diventato giovane, cominciò a
guardare le ragazze (i problemi cominciano sempre lì) e ovviamente voleva
sposarsi; guardava delle belle ragazze e andava loro dietro a quattro zampe e
ovviamente le ragazze lo scansavano: Sei
bruttissimo! Vai via! Sei un porco! Ad un certo punto si innamorò di una
delle tre figlie, tutte e tre bellissime, di un dipendente della reggia, e il
re dovette piegarsi a chiedere la mano di questa figlia per il suo “principe
porco”. Immaginate questi genitori che si sentivano rivolgere una domanda del
genere: Come? Nostra figlia?! Bellissima,
bionda, con gli occhi azzurri, che deve andare a dormire insieme con un
maiale!?
Il
re è re, è così nelle fiabe, e ha potere di vita e di morte su tutti i suoi
sudditi. Sta di fatto che questo contadino, sia perché doveva obbedire al re,
sia perché il re pagava questo sacrificio a monete sonanti, d’oro, accolse
questo desiderio.
Si
fece una grande festa alla reggia, perché il principe porco sposava la
bellissima figlia del contadino. Ovviamente il problema - lo state immaginando
- sarebbe nato a fine banchetto: che sarebbe accaduto nella stanza nuziale? La
sposa, sotto il suo corpetto - dice la fiaba - aveva un pugnale. Ovviamente la
ragazza si era premunita, istruita dalla madre che non l’avrebbe mandata a
letto con un porco. Ma il principe maiale vide il balenio di questo pugnale
nell’oscurità, l’aggredì e la uccise. Che tragedia! Dolore a corte e dolore
nella famiglia del contadino…
Passato
il lutto, il porco si impose di nuovo: Voglio
sposarmi e voglio sposare la seconda figlia bellissima che è mia cognata! Ma
non è possibile, già abbiamo chiesto una volta! E così di nuovo le
contrattazioni: anche la seconda dovette piegarsi e, anziché portare un
pugnale, portò del veleno con sé. Quindi, terminati i banchetti, le danze e i
suoni, quando si spensero tutti i candelabri nella reggia e si fece buio, ecco
che aveva pronto il veleno da far mangiare al principe maiale per ucciderlo,
perché non poteva diventare la moglie del principe porco. Ma anche questa volta
l’astuto principe maiale, prima che sua moglie gli desse in pasto il veleno,
l’aggredì e la divorò. Morì anche la seconda (questa storia sembra una
tragedia, ma non lo è).
Dopo
i “funerali di stato”, il principe tornò alla carica: Voglio sposare la terza figlia! Potete immaginare a quale grado di
dolore e disperazione fossero sottoposti i genitori innanzi tutto della
ragazza, ma poi anche i genitori del re che, pian piano, andando avanti negli
anni, morivano di dolore per questa tragedia accaduta a causa di un tozzo di
pane non concesso.
Secondo
voi, con quale espediente la terza ragazza, la più bella, la più piccola, la
più luminosa, entrò nella stanza da letto? Senza nessuna arma, perché nella sua
bontà ebbe compassione di questo principe nato come un maiale e pensò di
abbracciarlo. All’atto in cui lo abbracciò, le venne in mano la pelle di questo
maiale, come un travestimento, e ne uscì un principe bellissimo. Ecco il premio
dell’amore.
Questa
ragazza, nella sua ingenuità, nella sua poesia, abbracciando il maiale, ruppe
l’incantesimo, ma alla condizione - disse il “principe azzurro” uscito fuori
dal suo travestimento d’incantesimo - di far rimanere questa cosa tra lui e
lei, che è la cosa più difficile da chiedere ad una donna, come sapete: Io resterò il tuo principe bellissimo di cui
tu ti sei innamorata, ma questa cosa non deve saperla nessuno (le donne non
si offenderanno se dico che uno dei sacrifici più grandi è chiedere loro
l’impegno di un segreto). Forse non fu la voglia di andare a spifferare in giro
la gioia che ovviamente le si leggeva negli occhi, ma per consolare la madre di
lui, afflitta, che ancora pensava d’aver sposato non il principe meraviglioso
ma un principe porco, che portò la giovane a raccontarle: Guarda che è bello, è bellissimo! Vieni la sera, nasconditi dietro le
tende e vedrai che tu non partoristi un porcello, ma un uomo bellissimo!
Ovviamente la regina non se lo fece dire due volte: si appostò dietro le tende
per vedere questo miracolo dell’incantesimo finalmente sciolto ma, ahimè, come
succede sempre nelle fiabe, la rottura di questo patto - Non devi dirlo a nessuno! - fece andar via il principe
meraviglioso: la madre lo vide una volta sola e morì.
Se
vuoi avermi ancora - dice la fiaba - devi camminare e cercarmi per 7 anni,
consumare 7 paia di scarpe di ferro, riempire 7 bottiglie di lacrime e
consumare 7 bastoni di ferro in questo andare. E pian piano si allontanò
inesorabilmente fino all’orizzonte e sparì.
A
volte succede così nella vita: quando ti sembra d’aver raggiunto la felicità,
la felicità ti sfugge di mano per una disattenzione, perché non hai osservato
appieno le regole, perché non hai mantenuto la parola. Allora immaginate questa
principessa che con la sua dolcezza aveva tirato fuori dal maiale l’uomo,
esaltandolo, portandolo alla sua bellezza - è questo anche il compito arduo di
tutte le donne - e che adesso lo vede allontanarsi per sempre. Voi cosa avreste
fatto? Io cosa avrei fatto? Questa ragazza innamorata, che ha visto solo due
volte l’uomo che ha sposato nella sua bellezza, si mette a camminare per sette
anni, consumando sette paia di scarpe di ferro, versando lacrime ogni notte,
perché non trovava l’“amato del suo cuore”, come dice il Cantico dei Cantici, e
consumando nel suo andare la punta di sette bastoni di ferro. Domanda - e ci
fermiamo un attimo in silenzio - : Lo troverà? Lo ritroverà? Sarà premiata? o è
un’illusa che ha perso definitivamente e inesorabilmente? Come la sposa del
Cantico, che Carmen ha letto così bene, troverà l’amato del suo cuore, colui
che per un indugio non è riuscita ad avere a portata di mano? Mentre ci
pensate, ciascuno di voi cerchi nei ricordi della sua infanzia il finale della
storia, lunghissima, ma che io adesso abbrevio nella seconda parte. Chiedetevi
quanto siete disposti a pagare per un amore e quanto siete disposti a soffrire
per un sogno. Può essere una realizzazione professionale: sto all’università,
studio, ma mi sembra una cosa così
lontana! Ma ancor più in una relazione con una persona che mi sembra essere
la persona più degna di starmi accanto e più bella con cui vivere il resto
della mia vita. Ma devo anche chiedervi: quanto siete disposti a pagare per la
vostra fede? quante scarpe siete disposti a consumare per raggiungere Dio, per
incontrare Gesù di Nazareth? quante lacrime ci vogliono? Dice una vecchia
canzone di Joan Baez: Quante strade deve
percorrere un uomo per diventare un uomo?
Fermiamoci
un attimo su questi interrogativi e guardiamo questa donna stanca, piangente,
consunta, che per sette anni, come si dice nelle fiabe, cammina e cammina…
***
Guardate
un attimo queste rose che hanno accompagnato tutta la mia settimana: sono
bellissime. Mi sono state portate domenica da Raffaele Farina: sono fiorite nel
suo giardino (strano in novembre). Ovviamente Raffaele non ha il pollice verde,
ma ce l’ha sua madre, perché qui c’è tanta femminilità. Quindi queste non sono
rose comprate dal fioraio e per questo hanno resistito (chiedo perdono a Maria
che dirà: Allora le rose che porto io?!).
Le rose nate in giardino sono più forti di quelle nate in serra. Queste rose
hanno accompagnato la settimana del Vescovo perché questo vaso stava in
Episcopio e ho detto a Liberato di
portarlo giù perché potesse essere anche questo un segno di una forza femminile
nel far fiorire in novembre le rose. Voi direte: Ma non ci ha pensato il sole? Non basta: c’è bisogno anche
dell’attenzione, dell’amore, del chiamare per nome le rose, altrimenti non
fioriscono (ricordatevi la rosa del Piccolo Principe). Torniamo alla nostra
fiaba che, ripeto, è molto lunga, per cui l’abbrevio (l’andrete a scaricare da
internet per quelli che non la conoscono).
In questo cammino questa donna incontra, non
senza difficoltà, le case dei venti che sono un po’ come le passioni, in una
lettura psicanalitica della fiaba; entra nelle case dei venti (il vento di
Ponente, il vento di Levante) e superando delle difficoltà, riceve dal vento di
Ponente, di Levante, una nocciola e una
mandorla che al momento opportuno la aiuteranno. Non vi dico come, ma
attraverso tante peripezie questa donna, per sette anni, insegue il suo amato e
lo trova, perché uno dei venti dice: L’ho
visto in un’altra reggia con un’altra donna. E cammina, cammina, cammina,
finalmente trovò l’amato del suo cuore (ripeto, vi risparmio le vicende che
andrete a leggere o a rileggere da voi, sperando che conserviate qualche libro
della vostra infanzia). Le fiabe insegnano tante cose, più che la morale della
fiaba anche le storie, perché anche la trasformazione di un principe maiale in
un uomo intriga anche oltre quello che racconta, cioè dice della vita.
Il
fatto che questa donna con forza, con caparbietà, abbia consumato sette paia di
scarpe di ferro nel suo andare a piedi, è segno che se io non mi rassegno, se
io con grinta porto avanti un mio sogno, anche se questo sogno mi è sfuggito di
mano per una disattenzione, questo sogno si realizzerà. Adesso il Vescovo deve
fare una grande fatica con voi giovani per dirvi che questa non è solo una
fiaba. Ogni fiaba ha questi due elementi inclusivi: “C’era una volta…” e
“vissero felici e contenti”, ma tra “c’era una volta una regina che aspettava
un bambino…” e “vissero felici e contenti” passa il mare! Ci sono degli anni,
delle prove da superare (le prove di Ercole), ci sono delle difficoltà, ci sono dei pericoli, ci
sono delle vecchie che portano una mela avvelenata, ci sono dei sortilegi,
degli incantesimi, c’è un sonno che prende le persone… Anche nella nostra fiaba
c’è un sonno, ma artificiale, perché la donna con cui sta il “principe porco”
di una volta, per permettere a questa ragazza di stare con il suo amato una
notte, due notti, tre notti, lo riempie di sonniferi, di oppiacei, in modo tale
che non succeda niente, e intanto lei si prende i gioielli, gli abiti
attraverso quella mandorla fatata, quella noce fatata, con cui la ragazza è
riuscita ad attirare l’attenzione di quella donna. Quello che è importante per
noi, stasera, è capire che si può attraversare un muro di piombo che abbiamo
avanti. Lo dicevo agli adulti ad “In punta di piedi” l’altro ieri: la mia
generazione non vedrà la soluzione della crisi economica in atto, ma voi sì, la
vedrete, perché avete vent’anni, al massimo trenta, e probabilmente in 20,
30’anni - mi sembra che i termini siano questi - bisogna aspettare e preparare
la fine di questo incubo nel quale siamo entrati e dal quale a voi sembra che
non si uscirà mai ed è una cosa gravissima, perché se non avete la speranza
voi, cari giovani, noi ci dobbiamo suicidare in massa! Se voi pensate che ce la
faremo, ovviamente dandovi da fare, versando lacrime nell’otre (le mie
lacrime nell’otre tuo raccogli - dice il salmista), consumando le
paia di scarpe di ferro, facendolo questo cammino, voi vedrete l’alba. Io
stasera la voglio annunciare. Adesso vi parlo della crisi economica, perché è
l’orizzonte nel quale adesso tutte le nostre storie e tutte le nostre vite si
pongono, alcune in una maniera rassegnata (Non
c’è niente da fare! Saremo ridotti alla fame! Tutti a chiedere l’elemosina!);
altri si rimboccheranno le maniche, cercheranno di darsi da fare, inventeranno
qualcosa e metteranno dei motori positivi in questa economia che è in
metastasi. Io ci credo, ma non basta che ci creda io o qualcuno della mia
generazione, che non vedrà l’alba (io mi sono rassegnato nel senso bello del
termine), ma voglio che i miei giovani la vedano! Così quelli fra voi che sono
genitori, che si intrufolano nella Preghiera-Giovani - e fanno bene - dicano: Non la vedrò io, ma mio figlio vedrà la
conclusione di questo momento buio! Lo stesso valga per le difficoltà che
dobbiamo affrontare sul piano dello studio, sul piano affettivo, sul piano
della fede, perché noi vorremmo pagare su ogni mercato, ma non mi si dica che per fare il corso della Cresima bisogna fare tot
incontri! - Ecco, non vuoi pagare! - Ma
non mi si dica che poi il Signore non mi risponde alla prima telefonata!
Succede
anche nella preghiera. Anche io faccio il numero: Pronto, Gesù?... L’utente di
cui ha digitato il numero non è al momento raggiungibile. È duro,
sapete, per un Vescovo non avere la linea diretta con Gesù. Voi pensate che il
Vescovo alzi il telefono e Gesù: Pronto,
Vescovo Arturo, cosa ti serve? No, è tutto difficile! Ma questa difficoltà
non è una difficoltà, perché questa difficoltà aumenta il desiderio. Questo
vorrei trasmettervi stasera: la
dilazione dell’incontro nel Cantico dei Cantici. Non c’è, non è più qui,
Gesù ha lasciato solo il profumo sul chiavistello della porta, ha lasciato solo
la Parola, ha lasciato solo la presenza reale dell’Eucarestia. Ma dov’è? Voglio
vedere! Aspetta, cammina, cammina… Non è
qui, è risorto, andate in Galilea - dicono gli angeli alle donne il giorno
di Pasqua.
Ho
l’impressione che anche Cocciante si sia interessato a questa fiaba...
Fiaba (Cocciante)
Sette stelle dell'Orsa
tra i capelli portava
Sette note nel vento
ogni giorno cantò
Sette bianche colombe
lui per lei liberò
Sette furono gli anni
ma poi lei se ne andò
Sette paia di scarpe
consumò per cercare
Sette lacrime amare
ogni notte versò
Sette volte il suo nome
ogni giorno chiamò
Poi l'autunno tornava
ma lei non ritornò
Ma ora tutto è passato
troppo amore ho sprecato
troppo tempo ho buttato
io mi fermerò qui
stringerò la tua mano
non sarai mai più sola
ma ora dormi felice
veglierò su di te.
La
cosa più bella di questo testo è l’ultimo passaggio dal minore al maggiore.
Anche Maria Teresa, nel brano che forse ha inventato sul momento per noi, a
commento della fiaba, quando mi sono fermato la prima volta, ad un certo punto,
ha chiuso in maggiore (spero che almeno la distinzione tra accordo minore e
accordo maggiore vi sia nota). Tutta la canzone è in minore e poi, alla fine,
l’arpeggio di pianoforte si conclude con l’accordo in maggiore. Attenti che la
distinzione, anche musicale, tra maggiore e minore è semplicemente un semitono.
Un semitono rende un accordo maggiore: è il passaggio, il salto, il poggiarsi
su un semitono successivo. Mi è piaciuto questo testo di Cocciante, drammatico,
come tutte le cose; ovviamente ognuno canta quello che è, ricordatevelo, e
quindi Cocciante riesce bene nelle cose tragiche. La sua migliore realizzazione
è stato il Gobbo di Notre Dame,
perché era la sua storia: lui è riuscito lì perché è bassino. La prima volta
che sono andato ad un concerto di Cocciante - l’unica e sola volta - ero
seminarista e ho detto: Dio mio, è così
basso? Voi starete pensando: Ma tu
mica sei… D’accordo, ma Cocciante è bassissimo! Quando uno ne ascolta le
canzoni e poi vede il cantante in concerto - sto parlando degli anni ’70 - che
entra e sembra un nano, dite: Forse era
meglio non averlo mai visto e fermarsi solo alle canzoni! Quindi Cocciante
è riuscito bene nel Gobbo di
Notre Dame de Paris, musical eccezionale, perché è la sua storia:
brutto, piccolo, con queste donne irraggiungibili, come nel testo che forse
conoscete del musical. Allora nelle parti disperate è quanto di meglio ci sia
ancora oggi nel panorama della canzone.
Cosa
ha fatto Cocciante? Ha preso la stessa fiaba che vi ho raccontato e ha cambiato
alcune cose. Innanzi tutto ha cambiato i personaggi, li ha invertiti, dove chi
cerca è lui perché lei teneva un diadema con le stelle dell’Orsa Maggiore tra i
capelli, che cantava meravigliosamente; lui libera colombe, un bel gesto di
gioia… Tutto questo idillio è durato 7 anni, ma poi lei se n’è andata. Allora
comincia la ricerca: 7 paia di scarpe
consumò per cercarle, 7 lacrime amare ogni notte versò, 7 volte ogni giorno il
suo nome chiamò, poi l’autunno tornava ma lei non ritornò. Quindi,
dovendolo cantare, lo ha ridotto al maschile e dunque chi cerca adesso è
l’uomo. Volendo fare una critica testuale, non era quello che il Vescovo si
aspettava, perché - mi è sembrato di capire - ad un certo punto lui si ferma da
qualche altra parte, perché ha trovato un nuovo amore, ma questo cancellatelo
dalla vostra memoria (utilizzo i testi, ma poi li “allargo” a modo mio).
Ma ora tutto è passato
troppo amore ho sprecato
troppo tempo ho buttato
io mi fermerò qui
stringerò la tua mano
non sarai mai più sola
ma ora dormi felice
veglierò su di te.
Attenti,
veglierò su di te, ma veglierò anche su di me! Non devo vegliare solo su di te,
perché poi te ne scappi di nuovo, ma veglierò anche su di me perché non mi
abitui a questo amore, perché anche se ti ho trovato, possa cercarti ancora.
Sant’Agostino dice a Dio: Fa’ che dopo
averti trovato, io ti cerchi ancora. Ricordate voi, che siete fidanzati o
sposati: il vostro amore è sano, cioè gode di ottima salute se ancora vi
cercate. Ma perché dobbiamo cercarci se dormiamo nello stesso letto? Vi dovete
cercare ancora, perché niente è scontato, nulla è assodato per sempre! E, come
nell’amore, così anche sul piano della fede.
Spero
che questa cosa non faccia calare l’attenzione: anche Carducci si è interessato
a questa fiaba, nella poesia che nessuno di voi mai e poi mai avrà studiato in
vita sua, che è “Davanti San Guido”. Ve ne ho riportato solo l’ultima parte e
una parte però ve l’ambiento.
(Salutiamo
i ragazzi di Ischia e Don Mariano che devono andare a prendere il traghetto.
Grazie per il vostro coraggio! Da Ischia arrivate fin qui, dando uno schiaffo
ai nostri giovani).
Quest’uomo,
diventato grande, letterato (adesso sa il greco e il latino), ormai è diventato
famoso, e quando torna in treno, in una locomotiva, una delle prime, gli
vengono incontro i cipressi di San Guido, alti, schietti, in duplice filar. Gli vengono incontro e gli parlano della sua
infanzia, cioè lui sembra che sia arrivato, diventato un letterato, sa scrivere
di greco e di latino, ma ahimè comprende - ed è bellissimo, anche se poi c’è
una lettura laica, d’altra matrice, di questo testo - che è come se questi
cipressi gli dicessero: Guarda che la felicità che tu stai cercando andando in
giro per il mondo, sta qui, nella tua infanzia. E questo glielo dice la nonna
che lui vede scendere dal cimitero del suo paese.
Canora discendea, co 'l mesto accento
de la Versilia che nel cuor mi sta,
dome da un sirventese del trecento,
piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
quand'ero bimbo! ditemela ancor,
ditela a quest'uom savio la novella
di lei che cerca il suo perduto amor!
Sette paia di scarpe ho consumate
di tutto ferro per te ritrovare:
dette verghe di ferro ho logorate
per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
e il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
Deh come bella, o nonna, e come vera
è la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
ove non penso di posarmi più:
forse, nonna, è nel vostro cimitero
tra quegli altri cipressi ermo là su.
(Giosuè Carducci – Davanti San Guido)
Non
è un richiamo alla morte: la verità non sta nella morte, ma nelle cose piccole,
in quello che avevo già. Molti autori, anche Vecchioni, raccontano in vario
modo di persone che sono partite da un posto, hanno girato il mondo e alla
fine, lontano lontano, gli hanno detto: Quello
che tu cerchi era sotto il tuo letto, da bambino, quando sei partito.
Fiaba (Cocciante)
***
Carmen
ci rilegge il brano del Cantico così concludiamo. Ci apparirà in una nuova
veste, dopo aver fatto questo cammino di gente che va, che consuma, che si
dispera, che deve conquistarsi un amore perduto.
Dal Cantico dei Cantici (5, 2-8)
***
Signore,
vogliamo innanzi tutto ricordarTi Elisabetta, che sta facendo veramente un
cammino difficilissimo attraverso le chemio, sempre più dure, ridotta sempre più
allo stremo. Lei, che con Marco era seduta qui alla mia destra, ora non ha più
la forza di alzare la voce a Te e ha riempito tante fiasche di lacrime, ha
consumato nel suo andare di dolore tante paia di scarpe: la affidiamo a Te.
Voglio
affidarti questa sera, davanti a questi giovani, anche Marcello, Oscar e
Raffaele, che questa settimana hanno iniziato l’anno previo che è come un primo
passo: da lontano si sono messi in cammino verso un sogno che forse domani, ma
non tra qualche istante, tra sei anni li farà preti. Quanto cammino e quanta
stanchezza dovranno affrontare! Te li raccomandiamo, come ti raccomandiamo i
nostri 14 seminaristi del Seminario Maggiore, che contano i giorni, che a volte
si scoraggiano, che vorrebbero essere alla Preghiera ma i loro Rettori,
giustamente, li tengono lontani da questo luogo d’incanto. Ti preghiamo per
loro, perché sappiano conquistarsi il dono che Tu vuoi fare loro.
Ti
preghiamo per tutte le persone scoraggiate che sono venute stasera: che possano
uscire da questa Preghiera con l’idea che le fiabe succedono ancora, se si ha
grinta di camminare, di piangere, di penare senza calare nella speranza.
Su
tutti noi, Signore, che siamo qui, infondi forza, coraggio, per affrontare
questo tempo di crisi così lungo, ma che pure avrà il suo esito. Si uscirà da
questo tunnel, non ne vediamo ancora la fine, ma fa’ che ci sosteniamo a
vicenda dicendo: Io non ci sarò, ma tu godrai, tu canterai alleluia, tu
canterai vittoria.
Ci
teniamo per mano e diciamo insieme: Padre
nostro…
Benedizione del Vescovo
Canto
finale: Vivere la vita
***
Il
testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.