Preghiera-Giovani
guidata
da
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
“Tutto passa, l’amore resta”
Teano,
28 ottobre 2011
Chiesa
Cattedrale
~
Canto iniziale: Dio è
Amore
Nel
nome del Padre…
È così facile perdere l’orientamento nella vita,
per tutti, anche per noi adulti, tanto più per voi giovani: perdere
l’orientamento è perdere il sorgere della luce e quindi essere al buio
(“orientamento” viene da “oriente”). Tra l’altro, a proposito di Oriente, è
bello che questa sera preghino con noi due giovani di Nazareth; vengono da
lontano a portarci “il sole che viene dall’alto” – dice il canto del Benedictus
– e “il sole che viene dall’alto” è Gesù, il Sole che viene dall’Oriente.
Quindi è bello anche il ponte con la Terra Santa, la Terra di Gesù.
L’orientamento lo perdiamo all’atto in cui,
davanti a un dolore, ad una difficoltà, ad una delusione, ad una malattia,
diciamo: E Dio dov’è? cosa fa? perché non si occupa di me? Aver cominciato – ed
è anche il tema della nostra Preghiera – con il canto “Dio è Amore” è metterci
subito nella direzione dell’Oriente, riorientandoci, facendo in modo che la
luce ci raggiunga in volto, ci illumini, ci ridía tono, tonalità, rimetta in
circolazione il sangue, in modo tale che riprendiamo l’armonia del nostro vivere.
Rit. Dio
è Amore…
Padre Santo, Tu
leggi nel nostro cuore, vedi i nostri traviamenti,
i nostri
disorientamenti ancor prima che noi ce ne accorgiamo.
Ti ringraziamo per
averci convocato qui,
per la nostra
consueta e sempre nuova
esperienza d’incontro
con Te
e, in Te, d’incontro
tra noi.
Varie parrocchie
della nostra Diocesi, nei loro giovani, si incontrano,
riescono a fare in
questa Preghiera quello che gli adulti fanno tanta fatica a compiere:
convergono.
Grazie perché siamo
qui.
Grazie perché Tu ci
sei.
Grazie perché sei
Amore.
Dal
Vangelo di Luca (10, 25-37)
25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova:
«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli
disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 27 Costui
rispose: «Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e
con tutta la tua mente e il prossimo
tuo come te stesso». 28 E
Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 29 Ma quegli, volendo
giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30 Gesù
riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che
lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un
sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra
parte. 32 Anche
un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un
Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe
compassione. 34 Gli
si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo
sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno
seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di
lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di
questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei
briganti?». 37 Quegli
rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’
lo stesso».
***
Riprendiamo questa sera un tema - sperando
che la Domenica andiate a Messa - che avete già assaggiato, incontrato Domenica
scorsa o qualche Domenica fa nella Liturgia della Parola dove c’era il problema
del comandamento più importante. Cosa è veramente importante? – chiedono a
Gesù, perché la legislazione ebraica prevedeva un’infinità di norme, di leggi,
di comportamenti, di atteggiamenti da assumere, di cose da fare e da non fare.
Quindi ci si perdeva in quella legislazione e si chiede un “bignami” (spero che
questa parola per qualcuno richiami un ricordo scolastico). Non è sempre utile
percorrere la scorciatoia dei “bignami”, cioè dei riassunti (anziché leggermi
il libro intero, mi leggo un piccolo riassunto della letteratura, della storia,
in modo tale da avere le date più importanti ed evidenziare gli aspetti
salienti). Qui più che un “bignami” nel senso negativo del termine, si chiede a
Gesù: Ma alla fine cosa conta?
E per noi “cosa conta?” si può scrivere
anche in un'altra domanda: Ma alla fine che cosa rimane? che rimane della mia
vita? che rimarrà della tua vita, delle nostre vite? Ing. Dott. Prof. Cav.
Ecc.? No! Non sono i titoli che contano, neanche se abbiamo avuto tanti soldi o
pochi, se abbiamo avuto uno stipendio
da nababbi o abbiamo fatto fatica a giungere a fine mese, un lavoro
prestigioso o un lavoro umile, se avremo vissuto molto o poco (a volte si ha
compassione per coloro che vivono solo quarant’anni, solo cinquant’anni, come
se vivere cent’anni fosse di per sé un pregio…). Non sono queste le cose che
contano. Allora chiedono a Gesù: Cosa è importante? qual è il più grande
comandamento? a che cosa devo far riferimento sempre, in qualsiasi scelta della
mia vita, in modo tale da non sciupare questa opportunità che mi viene data?
Gesù risponde con un testo molto caro alla
tradizione ebraica che è Deuteronomio 6. Il Deuteronomio è un testo dell’Antico
Testamento, dei primi 5 libri della Bibbia, la Torah, e questa preghiera viene recitata più volte
dall’osservante, come per noi, tanto per intenderci, l’Angelus - non per voi -
come per i nostri nonni.
Ascolta,
Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il
Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le
tue forze - e poi in altra parte - e il prossimo tuo come te stesso.
Queste parole, che vengono da lontano,
dall’Antico Testamento, sono assunte da Gesù, qualificate, poste sul candelabro
e indicate come la “quinta essenza” della sapienza, come ciò cui bisogna fare
attenzione sempre e comunque: amore per Dio e amore per gli altri. Le due cose
sono collegate, perché è facile dire “amo Dio” che non mi “pesta i calli”…
Invece, è così difficile per il vicino di banco, per il collega universitario,
per la vicina di casa che puntualmente spazza mentre io faccio il bucato di
sotto (problemi che conoscete bene). Diventa difficile poi, nel concreto, voler
bene, amare gli altri.
Gesù utilizza il termine “prossimo”. Non lo
ha inventato, perché questo termine era già nell’Antico Testamento (…e il prossimo tuo come te stesso).
Ovviamente chi interroga Gesù, nella versione che abbiamo letto, più completa
di quella ascoltata Domenica scorsa, per rilanciare a Gesù la domanda - perché
è stato già inchiodato a questi due comandamenti fondamentali - dice: Ma chi è
il prossimo? E dalla fantasia di Gesù, nasce una parabola. Gesù aveva una
grande fantasia, perché quelli che parlano, quelli che insegnano, devono avere
sempre una grande fantasia. Senza fantasia un insegnante dev’essere messo da
parte: puoi scrivere un libro, non insegnare, perché devi trovare l’immagine,
devi trovare il modo giusto, devi trovare, giorno per giorno, volta per volta,
situazione per situazione, l’immagine, la sensazione, la parola che sia
illuminante in quel momento.
Se noi andiamo a consultare un vocabolario
qualsiasi, il prossimo è colui che è accanto, colui che è vicino. Allora il
prossimo di Michela è Andrea (guarda caso è suo marito, ma in questo momento è
anche “geograficamente” il suo prossimo). Ma Gesù non si ferma al vocabolario,
quasi a dire: Guarda chi sta vicino a te. Guardate com’è il vostro vicino:
bello, simpatico, sconosciuto… Sta lì: è il tuo prossimo? è quello il tuo
prossimo? Gesù dice di no e lo dice con una parabola, con una storia. Qualcuno
dice che noi dobbiamo tornare a raccontare le storie, che le storie sono
importanti per educare, anche per trasmettere la fede: la fede è una storia, e
quando i preti, i catechisti, i genitori, gli educatori smetteranno di
raccontarla, la fede finirà. La fede è legata alla trasmissione, al raccontare
una storia e il miglior “cantastorie”, inventore di storie è Gesù, il quale,
anziché rispondere – ed è il senso della parabola – che il prossimo non è colui
che fisicamente ti sta più vicino, racconta la storia del buon samaritano, che
comincia con una tragedia.
C’è un uomo incappato nei briganti, in una
strada ancora oggi – e lo sanno bene i nostri amici di Nazareth – che ha un
dislivello enorme, da Gerusalemme a Gerico, di diverse centinaia di metri sotto
il livello del mare (oggi la percorriamo in auto, ma abbiamo il senso della
salita; nel caso della parabola è una discesa). Duemila anni fa, potete
immaginare come fossero le strade: dietro ogni curva, dietro ogni ansa della
strada, può esserci un’imboscata.
Ci sono ancora oggi delle navi, in alcune
zone, attaccate dai pirati. Noi magari sui pirati abbiamo fatto le nostre
storie fantasiose da bambini, ma i pirati sono tornati di moda. C’è, per
esempio, un giovane di Piano di Sorrento che da mesi è stato catturato dai
pirati, insieme con tutta la nave: i pirati arrivano con dei motoscafi
velocissimi, accerchiano la nave, vi salgono su, sono armati e… I “pirati” del
tempo di Gesù non avevano motoscafi veloci, ma bastava avere qualche bastone.
Il pellegrino è solo, forse è un mercante,
svolge i suoi traffici, quindi porta con sé del denaro o una mercanzia nel suo
zaino e viene non solo derubato, ma anche malmenato e lasciato – dice Gesù –
sul ciglio della strada mezzo morto: una tragedia. Tra l’altro questa è una
strada solitaria; non passa mai nessuno, ma si trovano a passare, dice Gesù, un
levita e un sacerdote. I leviti sono ad esempio i nostri seminaristi (i nostri
seminaristi, ogni venerdì in cui ci riuniamo, vorrebbero chiedere ai loro
Rettori di venire alla Preghiera, e invece restano prigionieri nei loro
seminari, perché anche questa lontananza fa loro bene, ma adesso sono iniziate
le vacanze dei Morti, dei Santi, a seconda
di come vogliamo definirle, in negativo o in positivo, e quindi sono
qui). Il levita è quello che si prepara ad essere sacerdote, è un incamminato.
Passa un sacerdote, guarda quest’uomo (non
si sa neanche se sia un uomo): è vivo ancora? Forse è già morto… Non si vuole
immischiare, non vuol perdere tempo, ha un appuntamento, forse fa il senso
inverso: sta salendo a Gerusalemme, luogo del Tempio, per svolgere un’azione di
culto (è un prete che ha una messa da celebrare, è un Vescovo che…) e allora
non può fermarsi. Tra l’altro potrebbe essere un imbroglio… Lo pensiamo anche
noi quando vediamo per strada un incidente. La prima cosa che ci viene in mente
- ed è terribile - è: Ma sarà un incidente vero o è un trucco? A volte succede
anche che si finge un incidente per fermare un’auto, derubarla e lasciare il
proprietario a piedi. Quindi mettiamoci nei panni di questo sacerdote senza
condannarlo eccessivamente, perché, vuoi per motivi di tempo, vuoi perché ha
paura lui stesso, vuoi perché questa strada è sempre piena di imprevisti (ci
sono tanti che sono incappati in trappole), lo guarda, potrebbe avvicinarsi,
dire una parola, offrire un aiuto, potrebbe chiamare il 118 (non c’era allora),
sta di fatto che passa oltre.
Poi arriva il seminarista, il levita: deve
andare in seminario, ha la borsa, lo zaino, la chitarra, la cotta e la talare
nella borsa. Anche il levita guarda, teme, viene preso da mille pensieri e
passa oltre.
Per quest’uomo non c’è speranza (voi sapete
che la possibilità di sopravvivenza, dopo certi incidenti, dipende dalla
tempestività degli aiuti, dal tempo che passa dall’incidente all’ingresso in pronto soccorso), stanno
passando delle ore: il sangue scorre e a quest’uomo, per la pressione sempre
più bassa, forse gli si comincia ad annebbiare la vista.
Ma ecco che in groppa ad un asino, ad un
cavallo, scende un altro signore: è un samaritano. A noi queste cose non dicono
molto, ma i samaritani erano dei “perduti”, erano appartenenti ad una categoria
non accetta all’ebraismo puro, erano degli eretici. Quindi dire “samaritano”
nel Vangelo, è come dire un impuro, uno da tenere alla larga. Proprio
quest’uomo – non il sacerdote, non il seminarista – il samaritano, che vive lo
stesso tormento dei primi due (mi avvicino o non mi avvicino? sarà vero o non
sarà vero? ho degli impegni: riuscirò a mantenerli, ad arrivare a casa, ad
arrivare al Tempio, a tornare in seminario?), che è attraversato da questi
pensieri negativi - dice Gesù - ne ebbe compassione e gli si avvicinò. Questi
due verbi sono di grande importanza: ne
ebbe compassione e gli si avvicinò,
perché per avvicinarsi ad una persona malata è importante che tu entri in
questo stato di compassione.
“Compassione” significa: il patimento
dell’altro diventa mio e lo patiamo insieme (cum patire=compatire, soffrire insieme). Il tuo dramma è anche il
mio, il tuo problema diventa mio, lo soffro come se fosse il mio dolore. Questo
accorcia le distanze, perché se soffriamo insieme, allora siamo fratelli,
allora possiamo darci una mano, possiamo piangere insieme. Forse la mia vi
sembrerà una soluzione poetica, ma è bellissima; a volte la compassione può
produrre solo questo: piangere insieme i nostri dolori. Il tuo dolore si
specchia nel mio e le tue lacrime chiamano le mie.
Noi dobbiamo avere compassione gli uni degli
altri, altrimenti non saremo mai vicini, anche se siamo marito e moglie, anche
se dormiamo nello stesso letto, anche se siamo amici per la pelle, anche se
siamo scout di antica data. Ma è compassione? Con “compassione” noi utilizziamo
anche il verbo “muovere”: muoversi a compassione. Che significa? La compassione
commuove e muove, cioè mette in azione; dove non c’è compassione, non c’è
movimento, e non c’è possibilità di incontrarsi. Vedete quanti insegnamenti?,
anche nelle sfumature, nei verbi, nelle immagini che Gesù usa e che rimbalzano
qui come raccontate da Lui, adesso dalla povera voce del vostro Vescovo, a
dire: Ma tu pensi di salvarti da solo?
Ricordate quelle fiabe del re che stava da
solo a corte e che non rideva mai? della principessa bellissima che era stata
chiusa nella torre più alta del castello perché fosse irraggiungibile? Quando
gli psicologi leggono queste fiabe, ce le rimandano con tante altre riletture.
Per esempio, il re che sta a corte e non ride mai è un uomo chiuso in se
stesso. Anche la principessa, su cui abbiamo versato lacrime amare da bambini
perché, poverina, è stata chiusa nella torre più alta del castello, in realtà è
chiusa in se stessa, nella sua bellezza: si autocontempla. Ma un uomo così, una
donna così non può essere felice, perché non scoccherà mai la scintilla
dell’amore, che è anche la scintilla della compassione! L’altro, chiuso in
questo castello, in questa torre, mi commuove e, allora, cerco di raggiungerlo
salendo, aggrappandomi con le unghie, come si fa in uno sport, per raggiungere
l’unica imboccatura della torre e poter vedere negli occhi questa principessa
bellissima.
Cari giovani, a voi sembra di stare insieme
(andate alle feste, vi incontrate, andate da un appuntamento all’altro), ma forse
anche voi state chiusi dentro di voi come in un guscio, siete chiusi in voi
stessi e non c’è amore. E quello che chiamiamo amore è un'altra cosa, perché
l’amore mette in moto: l’amore fa incontrare, l’amore - vi lascio con questa
immagine - sporca le mani. Le vostre mani sono pulite o sono sporche? Quando
eravamo bambini – almeno la mia generazione – siamo stati ossessionati da
quegli insegnanti che volevano vedere le mani. “Le mani!” - ed erano sempre
sporche… Non riuscivamo mai ad utilizzare le prime penne biro della storia
senza che sbavassero un po’ e quindi le mani dei bambini erano sempre sporche.
Poi siamo diventati grandi e le mani sono diventate pulitissime. È un
progresso? No, non è un progresso. A voi sembra che per salvarsi bisogna avere le
mani pulite. No, per salvarsi c’è bisogno d’avere le mani sporche. Il sacerdote
ha le mani pulite, il levita le ha pulitissime; il samaritano le ha sporche di
sangue (sangue intanto raggrumato), di fango, fango e sangue. Cerca di
sollevare quest’uomo e non può farlo con i guanti, ma a mani nude; non è
attrezzato, non è l’infermiere di oggi e quindi si sporca le mani. L’amore,
cari giovani, ci sporca le mani, quello vero. I tuoi genitori si sono sporcati
le mani con te e tu non vuoi sporcarti le mani, vuoi avere le mani pulite,
candide.
Come sono le vostre mani? Guardatevele un
po’, mentre ci fermiamo un attimo e Maria Teresa ci aiuta con la sua arte.
Guardiamoci le mani: sono mani che sono entrate nella storia, nella vita degli
altri, ovviamente sporcandosi? - noi non ci possiamo toccare senza sporcarci -
o sono mani linde, pulite? Che tragedia…
***
Come hai trovato le tue mani?
Alla fine di questa storia, dove oltre alla
compassione, oltre al commuoversi che ha mosso il samaritano, accorciando le
distanze tra sé e il malcapitato nei briganti (l’uomo è sul ciglio della
strada), Gesù dice che lo carica sul suo giumento e lo porta in una locanda
(non c’è un ospedale), dove dopo il primo soccorso (dice la parabola che gli
versa sulle ferite quello che ha da viandante, olio e vino, un po’ per
disinfettare le ferite), lo carica sul suo giumento. Pensate a quest’uomo da
solo che compie questi gesti e poi va nel paese, nel villaggio più vicino e lo
affida al locandiere dicendo: “Prenditi cura di lui; quello che pagherai di più
te lo rifonderò al mio
ritorno”, dopo avergli dato un anticipo.
Starete pensando: è una fiaba… No, è
l’amore! È la fiaba dell’amore che avviene ogniqualvolta noi accorciamo le
distanze. Ecco perché dicevo che Gesù, con questa parabola, va contro l’idea
che il prossimo sia quello che mi sta più vicino: chi è il tuo vicino di casa?
chi è il tuo vicino di banco? chi è la persona con cui stai più tempo? quello è
il tuo prossimo? No, non è questa la risposta di Gesù, perché questo “prossimo”
è come se il samaritano se lo fosse andato a cercare. Andarsi a cercare un
prossimo, cioè uno che possa diventare prossimo: come? Approssimandosi. Ad
esempio, lì c’è Lello che si è seduto beatamente nel posto dove solitamente
siede Don Tommaso. C’è una distanza tra noi due. Io posso guardarlo: Lello si è
seduto nel presbiterio e vuole stare più attento. Lui sta lì ed io resto qui.
Ma, all’atto in cui lo guardo e mi immedesimo, Lello, che viene da Napoli ed è
sposato a Vairano Patenora, come sta? che gli è rimasto - mi verrebbe da
chiedergli - del pellegrinaggio in Terra Santa? Quanto di quello che abbiamo
visto, meditato, ancora lo agita e lo anima? Com’è andata la giornata di Lello?
è andata bene, è stata deludente, noiosa? Tutte queste cose è come se mi
avvicinassero a lui; io mi approssimo a Lello e, andandogli vicino, in
quell’istante Lello diventa il mio prossimo, perché io l’ho eletto, io l’ho
scelto. Noi abbiamo questa meravigliosa e terribile possibilità di escludere
una persona dalla nostra vita o di invitarla. Noi possiamo fare questa riga tra
i buoni e i cattivi, tra i simpatici e gli antipatici, tra quelli che frequento
e quelli da cui mi tengo lontano, quelli che fanno parte del mio gruppo
facebook e quelli a cui io non do l’amicizia. All’atto in cui io dico sì,
faccio questo movimento: vado pian piano verso Lello e l’approssimarmi a lui me
lo rende prossimo. Sicché non esiste prossimo senza una scelta, non esiste! Ma
quello ti è vicino di casa! Ma quella è tua moglie, è tuo marito! No, lo scelgo
io. Io scelgo di far entrare questa persona nel mio salotto virtuale – non ci
troverete mai il Vescovo, lo sapete bene – di facebook: entra e accede alle mie
foto, accede a quello che io scrivo, entra nel novero dei miei amici, ma lo
scelgo io! Sono io che rendo prossimo Lello a me. Questa è la grande scommessa
che avete in mano voi giovani. Ce l’abbiamo tutti, anche noi adulti, ma voi,
che vivete questa stagione effervescente, dove “vorrei che fossero tutti miei
amici”, ve le sporcate le mani nella vita dei vostri amici o li scaricate nel
cestino? Questa persona non mi va più e
allora la cestino, mi ha indisposto! Forse, se Lello ti ha indisposto, è
per chiederti aiuto perché a volte, noi trattiamo male le persone che amiamo di
più, e soprattutto i bambini hanno questa modalità: per attirare l’attenzione
dei genitori fanno i capricci. Da un punto di vista di chiarezza intellettiva è
una cosa assurda: com’è possibile attirare l’attenzione facendo i capricci, se
tua mamma si innervosisce? No, il bambino per attirare l’attenzione vuole un
ceffone; piangerà, ma è contentissimo quando il papà glielo darà perché dirà:
“Finalmente si è accorto che io ci sono!”. Tante parole, anche dure, che noi
utilizziamo tra noi in momenti di tensione, nascono dall’affetto.
Perché questo discorso di stasera non fosse
troppo aereo ho invitato anche Giorgia. Vediamo cosa ci racconta.
È
l’amore che conta
(Giorgia)
Di
errori ne ho fatti
ne
porto i lividi
ma non
ci penso più
ho
preso ed ho perso
ma
guardo avanti sai
dove
cammini tu
di me
ti diranno che sono una pazza
ma è
il prezzo di essere stata sincera
è
l’amore che conta
non
solo i numeri, e neanche i limiti
è una
strada contorta
e non
è logica, e non è comoda
nell’attesa
che hai
nell’istante
in cui sai
che è
l’amore che conta
non ti
perdere, impara anche a dire di no.
Di
tempo ne ho perso
certe
occasioni sai
che
non ritornano
mi fa
bene lo stesso
se la
mia dignità
è
ancora giovane
di me
ti diranno che non sono ambiziosa
è il
prezzo di amare senza pretesa
è
l’amore che conta
non
solo i numeri, e neanche i limiti
è una
strada contorta
e non
è logica, e non è comoda
nell’attesa
che hai
nell’istante
in cui sai
che è
l’amore che conta
non ti
perdere, impara anche a dire di no
no,
no, no
no a
questo tempo
d’ira
e di cemento
no,
no, no, no
è
l’amore che conta
non
solo i numeri, e neanche i limiti
è una
strada contorta
e non
è logica, e non è comoda
nell’attesa
che hai
nell’istante
in cui sai
che è
l’amore che conta
non ti
perdere, impara anche a dire di no
***
Guardiamo un attimo anche questo testo, che
è una versione più vicina a voi di quanto Gesù ci ha già detto in una maniera
appassionata, aderente alla realtà.
Spesso – ed è la prima strofa – ci fermiamo
alle delusioni dell’amore. Ci sono persone che dicono addirittura: Non so se mi
innamorerò più! - oppure - Chissà se mai potrò far credito ad una persona dopo
quello che ho vissuto, dopo la delusione
cocente di cui porto ancora i lividi!
Di errori ne ho
fatti
ne porto i lividi
ma non ci penso più
ho preso ed ho perso
ma guardo avanti
Cari giovani, non s’impara ad amare in un
attimo: ci vogliono trent’anni (minimo!). Nessuno di voi che non abbia amato
per trent’anni può dire: Lo so, lo so fare (e non quello che state pensando
voi). Ci vogliono trent’anni: i primi quadri di Picasso, di Gherardo delle Notti, di
Michelangelo Merisi certamente non erano delle opere d’arte come la loro
maturità, ma hanno cominciato e non si sono fermati. Il nostro problema è che
davanti ad un primo tentativo, uno sgorbio, subito liquidiamo. C’è Filippo, per
esempio, che è un pittore (lo vedo appoggiato ad un muro della Cattedrale):
Filippo sta progredendo nell’arte pittorica, per gli studi che sta facendo, per
i maestri che dicono che una curva dev’esser più dolce, quel colore più tenue,
quell’incarnito più roseo… Attenti a fermarsi ai primi fallimenti: bisogna
continuare. So anticipatamente che voi potreste raccogliere questo messaggio
dicendo: il Vescovo ci sta dando la patente per passare da una storia
all’altra! No, non è proprio quello che avevo in mente di dirvi. Sto
semplicemente dicendovi che il primo solco non è un solco - dice un proverbio
napoletano - perché il primo solco è sempre un po’ obliquo. Anche le suore
filippine dell’Episcopio hanno imparato questo proverbio e lo dicono in
perfetto napoletano quando qualcosa non va proprio bene: per esempio, un dolce.
Suor Annie ha fatto qualche esperimento questa settimana e la parola
“sapienziale” del Vescovo è stata: ‘U
primm sulc non è sulc, cioè il primo solco non viene bene. E abbiamo
liquidato la cosa, ma Suor Annie diventerà una pasticcera d’eccezione. Quindi
attenti a ripiegarci sugli errori che abbiamo fatto dicendo: “Non sono adatto”.
Tenta e ritenta.
È una
strada contorta
e non è
logica e non è comoda.
È bello che questo venga da una vostra
compagna di giovinezza. C’è una strada difficile, come la strada che scendeva
da Gerusalemme a Gerico, piena di curve, di pericoli. Non è logica, perché se tu stai sempre compos tui, non avrai mai compassione di un altro, non renderai mai
prossimo Lello, perché dirai: Ma forse non mi conviene… Forse non è il momento…
Chissà se ricambierà…
E non
è comoda;
anzi, spesso, quello che per voi sembra una strada comoda non è amore. L’amore non
è comodo: è scomodo perché ti scomoda! Il buon samaritano è stato tolto dal
viaggio, ha dovuto fare una sosta, si è sporcato le mani, ha pagato di persona,
ha perso tempo. E tu sei pronto a questo? ed io sono pronto a questo? cioè ad
entrare in questa dinamica dell’amore che non è logico, a volte è contorto
secondo gli schemi umani e non è una strada comoda?
Nell’attesa
che hai
nell’istante
in cui sai
che è
l’amore che conta
non ti
perdere,
impara
anche a dire di no.
Su questo dirò qualcosa alla fine.
Se la mia dignità
è ancora giovane
di me ti diranno che non sono ambiziosa
è il prezzo di amare senza pretesa.
Qui si dice, “gratuità”. Diciamo la verità,
ma a questo buon samaritano chi glielo fa fare di fermarsi, di sporcarsi le
mani, di caricarsi sul giumento il malcapitato? Chi glielo fa fare di
medicarlo, di portarlo alla locanda, di pagare, dare l’anticipo e poi tornare
per saldare il conto? È scemo uno così! No, è uno che ama, perché l’amore è
gratuito (amare senza pretese). Per
esempio, una delle pretese più ossessive dell’amore, che rendono l’amore
malato, è pensare di cambiare l’altro: “Adesso è così, ma quando si sposerà
vedrai, sarà un agnellino! Adesso è così, però poi lo cambio!”. Questa è una
pretesa sull’altro: vuoi dominarlo, vuoi cambiargli i connotati, vuoi che
quella persona non sia più se stessa. Invece l’amore che conta è un amore senza
pretese, è piena perdita, è un darsi senza limiti, nella follia. Per questo non
è logico.
Chi te lo fa fare? Me lo fa fare la
compassione; me lo fa fare l’amore – imparate questo – che è premio a se
stesso, cioè l’amore non ha un premio fuori di sé (ti amo e allora ottengo…),
come quando i genitori vi dicono: “Se fai il bravo, se studi, se fai gli esami
all’università, allora…”. Questo è una sorta di ricatto. Non c’è un se, l’amore
vuole bene e basta, anche se tu non rispondi, anche se tu rispondi picche,
anche se tu continui a ferirmi.
È
l’amore che conta
(Giorgia)
***
Grazie a Tony, che è di ritorno da uno stage dai paesi scandinavi di incontro di culture. Gli
ho chiesto di interpretare, di dare una coreografia a questa canzone. Avete
visto come ha interpretato “impara a dire
di no”: lo ha espresso con rabbia, giustamente.
No a
questo tempo d’ira e di cemento. Penso ai nostri giovani di Nazareth, che
vengono da una terra incendiata, adesso un tantino più pacifica, ma sotto c’è
fuoco. Penso anche alle nostre strade, a quello che è accaduto a Roma, dove
quest’ira prende poi forme anche di violenza. Devo imparare a dire di no,
perché fa parte della legge dell’amore, a me stesso. Il verso più bello, più
espressivo e più carico di significato è: impara
anche a dire di no, perché l’amore non è dire di sì sempre, perché l’amore
va contro me stesso.
Impara
anche a dire di no:
se il levita, se il sacerdote avessero avuto questa prontezza a dire di no alle
loro paure, alla loro fretta, al loro non volersi implicare, il malcapitato
sarebbe stato soccorso prontamente, ma sono passate delle ore perché alcuni non
sanno dire di no. Questa è un po’ una malattia che voi avete. La malattia anche
dei vostri genitori - e quindi quelli della mia età - è di non aver insegnato
l’arte del no. Impara anche a dire di no:
no ad un bisogno immediato, no a una gratificazione che mi sembra importante
sul momento, ma che potrebbe demolire.
Perché finiscono certe storie? Perché poi si
sono inseriti altri nel mio salotto di facebook e sono venuti a creare…
Devo dire no. Innanzi tutto devo imparare a
dire di no a me stesso, altrimenti, cari amici e figli - permettetemi questa
parola un po’ romantica - che mi ascoltate, voi non imparerete mai ad amare.
L’amore è saper dire di no per difendere l’amore: difenderlo non solo dai
nemici esterni, ma anche da me, cioè io devo difendere questa storia d’amore -
immagino due di voi che stanno insieme - e la devo difendere sicuramente dai
nemici esterni, ma da te e da me, direi soprattutto da me che potrei entrare
come un elefante tra i cristalli in questa storia. Impara anche a dire di no: questo mi sembra il messaggio più
importante di questa sera, prima di volgere alla conclusione.
Ma guardo avanti sai
dove cammini tu
Che è questo “tu”? Per Giorgia sarà l’uomo che lei ama e per cui è disposta a
dire di no ad altri uomini, ma per noi questo “tu” è il Gesù che abbiamo
incontrato stasera e che ci ha raccontato questa storia. Guardo avanti dove
cammini Tu che mi apri la strada e che mi insegni a vincere i miei egoismi, che
mi insegni a dire di no, che mi insegni ad accettare di sporcarmi le mani,
mentre sento una ritrosia a farlo.
Oggi - pochi di voi lo sapranno, ma è un
modo per dare gli auguri a Simone - è la festa dei Santi Apostoli Simone e
Giuda (Simone era uno zelota, cioè un rivoluzionario). Ti faccio così gli
auguri, Simone: possa tu diventare uno zelota, come il santo di cui porti il
nome, cioè un rivoluzionario, uno che accendeva la voglia di libertà in un
popolo che si era rassegnato. Quando entriamo in questa dinamica d’amore e
diciamo no a noi stessi, operiamo una rivoluzione. E il mondo ne ha bisogno!
Noi non abbiamo bisogno di auto bruciate, come è accaduto a Roma. Non è questo
che risolve. È vero, c’è un no a questo tempo d’ira e di cemento, perché è come
essere tutti ingessati, ma non sarà una rivoluzione nel senso violento, quanto
la rivoluzione dell’amore. Ecco, il Vescovo vi augura questo, stasera:
tornarvene a casa chiedendovi se le vostre storie rientrano in questa
dimensione d’amore che conta, che resta.
Il titolo della Preghiera è: “Tutto passa,
l’amore resta”, parafrasando un’espressione di San Paolo nella I Lettera ai
Corinzi (capitolo 13). Chiediamoci, tornando a casa: La nostra è una storia
vera? è una storia dove ci stiamo approssimando l’uno all’altro? dove io sto
uscendo da me stesso per venirti incontro, per capirti, per mettermi nei tuoi
panni, per entrare nel tuo passato, nella tua famiglia, nelle tue sofferenze? o
il nostro è un egoismo a due, è un patteggiamento, perché stiamo bene insieme?
Ma questo non è amore: l’amore è contorto, è gratuito, ti sporca le mani, ti fa
pagare di persona.
Ringrazio Marco che mi ha suggerito questa
canzone (tra l’altro mi dicono che è appena uscita, appena edita, quindi per
qualcuno di voi la Cattedrale è anche il luogo dove conosciamo le ultime
produzioni dei cantautori italiani). Spero che i due giovani di Nazareth non si siano sentiti… Ma che fanno in Italia con queste preghiere
e con i ballerini che si dimenano? È un modo per rendere aderente la fede
alla vostra età, alla vostra giovinezza, che è un patrimonio così grande che il
vostro Vescovo darebbe qualsiasi cosa purché non vada perso. E, ricordatevi,
andrà perso se diventerete nemici di quell’amore che conta, che può sorgere, ma
che voi reprimete, perché volete restare nella torre, come la bellissima
principessa chiusa nella torre più alta del castello.
Diciamo insieme: Padre nostro…
Benedizione del Vescovo
Facciamo arrivare, attraverso Peppe e
Angela, il nostro abbraccio ad Elisabetta e anche i nostri auguri a Marco, che
si è laureato questa settimana. Questo ragazzo, Marco, che sta partecipando in
tutto, 24 ore su 24, alle vicende di salute sempre difficoltose della sua girl, è riuscito, nonostante tutto
questo, anche a laurearsi. Facciamo giungere sia all’una sia all’altro, non
solo la benedizione del Vescovo, ma anche il nostro incoraggiamento: è l’amore
che conta, e l’amore fa fare cose grandi.
Canto: Dio è Amore
Facciamo un applauso a Tony per la sua
disponibilità. Quando invito Tony, riesce sempre a trovare 4 o 5 ballerine che
si preparano con lui e, puntualmente, lo lasciano a piedi… La cosa bella è che,
nonostante tutto, lui si presenta! Mi piace questa grinta, Tony: continua ad
averla!
Per noi, alla prossima! Buona serata!
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Il
testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.