“San Paride by night”

 

Meditazioni

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

 

in preparazione alla

Festa di San Paride

Cattedrale di Teano, 2-3 agosto 2010

 

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Adorazione Eucaristica

 

2 agosto 2010

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Antifona:

Oh… Adoramus Te Domine

 

Dal Vangelo secondo Matteo 14, 13-21

13 In quel tempo, avendo udito della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. 14 Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.

15 Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». 16 Ma Gesù rispose: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare». 17 Gli risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!». 18 Ed egli disse: «Portatemeli qua». 19 E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 20 Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. 21 Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

 

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Vogliamo vivere queste due serate, un po’ contemplative, in preparazione alla Festa di San Paride. Abbiamo ascoltato la proclamazione del Vangelo di oggi che, immagino, alcuni di voi avranno già avuto modo di meditare. Ci troviamo davanti a “Gesù-Pane”: pane per le folle di cui parla il Vangelo, pane per le folle pagane che ha incontrato San Paride passando per la nostra città, pane per noi, per le nostre folle affamate di oggi, anche se la fame che oggi si avverte - ma d’altra parte era così anche per la Teano pagana dell’epoca - bisogna scavarla per tirarla fuori. Se chiediamo ai nostri amici, ai nostri vicini di casa, ci diranno che stanno benissimo, che non hanno bisogno di nulla, che Gesù non apporta alcunché alla loro felicità.

Le folle che seguono Gesù lo precedono sulla sponda del lago e su questa scena vorrei fermarmi. “Egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati”. È un passaggio importante nel racconto del Vangelo: Gesù ha compassione delle folle perché si accorge che sono venute da lontano, che hanno fatto uno sforzo (forse anche alcuni di voi avranno fatto uno sforzo a venire qui a quest’ora inusitata per la preghiera).

Mi interessa mettere a fuoco la compassione di Paride che era di passaggio per Teano (non aveva intrapreso il suo viaggio per fermarsi qui). Ci sono dei viaggi che si intraprendono per una meta che non si raggiunge mai e ci si ferma per strada perché la Provvidenza così ha voluto. La tradizione non ce lo dice, noi lo leggiamo tra le righe: Paride doveva essere in pellegrinaggio per Roma. Dalla Grecia ha voluto attraversare le tappe del viaggio di Paolo e, quindi, è in cammino verso Roma e, per quelli che andavano a Roma, il passaggio per Teano (parliamo della Teano romana nel massimo fasto dell’impero) era un passaggio obbligato. Ovviamente quando si passa in un luogo, ieri come oggi, un turista, fosse anche pellegrino, si guarda intorno, ammira i monumenti; Paride avrà visto il teatro romano, altre ville, luoghi dell’amministrazione della giustizia della Teano romana e poi - dice la tradizione - vede una processione pagana che si reca verso il torrente. Paride sente compassione per quella folla, perché adorano un dio che non esiste o perché quelle persone sono soggette ad una potenza malefica che le tiene soggiogate.

Ci sono delle fedi che liberano e ci sono delle fedi che appesantiscono. Io spero, almeno per voi, che ci sia la percezione che la fede cristiana ci libera, ci fa respirare anche in questo caldo. Ci sono itinerari di fede, di altre fedi che sono oppressive. Forse noi stessi, nella nostra infanzia, nella nostra adolescenza, abbiamo impattato una Chiesa Cattolica appesantita, che ci teneva sotto una sorta di giogo (ogni fede può deperire, può entrare in una fase negativa). Quindi queste folle destano la compassione di questo pellegrino cristiano che viene dalla Grecia e va a Roma; potrebbe disinteressarsi o vedere questo spettacolo come un fatto folkloristico; potrebbe dire: Vado a vedere! Racconterò di Teano, del drago e di questa potenza malefica che tiene soggiogata la città! Racconterò di sacrifici umani, di giovani che vengono sacrificati, ma la mia meta è altrove, io sono in pellegrinaggio per Roma…

Che cosa ha mosso Paride a mettersi in questa processione, non come un osservatore, un giornalista qualsiasi, ma come un credente che, guardando la gente soggiogata da una fede negativa, vuole liberarla? Ovviamente, se vi parlo di questo, è perché noi ci troviamo nell’identica condizione. Sono passati tanti anni, tanti secoli: la Festa di San Paride torna a dirci che gli orizzonti non sono cambiati, che anche dopo duemila anni di Cristianesimo c’è tanta paganità e forse una paganità ancora più difficile perché è più facile convertire un pagano che un ex-cristiano – spero conveniate – cioè è più facile far aderire alla fede uno che non sa nulla, che è tabula rasa, che viene da un’altra tradizione di fede, che non riconvertire alla vera fede uno che ha fatto la Prima Comunione, il catechismo, la Cresima, che è passato nei nostri gruppi e poi si è allontanato. Lavorare sull’argilla duttile è più facile che rifare una statua ex novo, che sia stata già scolpita e malamente. Allora chiedo a Gesù, per me e per voi, questo sguardo di compassione; nello sguardo di Gesù rileggo anche lo sguardo di San Paride per la Teano pagana e chiedo d’avere la stessa compassione per la Teano - parlo della città, ma ovviamente estendo a tutta la Diocesi - pagana di oggi.

Quali sono i mostri che tengono lontani i nostri giovani e li svenano, li uccidono? Sono tanti. Sono molti di più e molto più insidiosi di quelli con cui ha dovuto combattere San Paride, ma questo desiderio di liberazione passa attraverso il desiderio di trarre fuori, e questo trarre fuori dalla schiavitù viene innescato dalla compassione. Se io non ho compassione di una persona, per esempio ignorante, non mi verrà mai il desiderio di educarla, di istruirla; è la compassione che mi fa nascere il desiderio dell’istruzione. Chiediamo che questi passaggi, di cui ci ha ricordato Matteo, nel Vangelo di oggi, e che sono venuti anche ai tempi di San Paride, possano accadere anche adesso.

“Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati”.

 

Canto: Quanta sete nel mio cuore

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Il nostro stare qui, Gesù, vuole essere un riconoscere in Te

la fonte, l’acqua, l’unica acqua che sazia la nostra sete più profonda.

Ogni nostro desiderio si compirà solo in Te,

solo in Te troverà la sua foce, il suo estuario, la sua piena realizzazione.

Ti chiediamo perdono per aver cercato esaudimento alle nostre arsure

in acque che, anziché togliere la sete, l’aumentano.

Ti preghiamo d’avere misericordia in questo giorno

che San Francesco ha voluto per la salvezza di tanti.

Coloro che stanno recandosi alle feste, a notti bianche,

a fonti che aumenteranno la loro sete,

possano essere raggiunti dalla nostra preghiera e dalla nostra intercessione.

 

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“Date loro voi stessi da mangiare”: su questo “invito-imperativo” di Gesù imbastiamo la seconda parte della nostra Adorazione. La parola non può restare solo parola: deve diventare anche esempio e la compassione deve tradursi in pane. Questo avviene anche nella nostra esperienza educativa nei confronti dei bambini, dei figli: i genitori ne hanno compassione. Cosa ci rende i bambini simpatici? La compassione. Abbiamo compassione della loro debolezza, andiamo loro incontro e un genitore insegna a un figlio tante cose. Alcuni di voi che hanno avuto i figli bambini che adesso sono grandi, ricorderanno l’attenzione, l’amore, la dedizione con cui si insegnava loro a camminare, a parlare; ricorderete le volte in cui hanno detto per la prima volta certe parole. Quell’insegnamento diventava anche amore, nasceva dall’amore, ma poi si concretizzava nel pane, nel cibo, nel sonno, nella difesa. Questo siamo chiamati a fare anche noi oggi; non basta parlare in questa nostra società pagana, ci insegna Paride, ci insegna Gesù, ci insegnano tutti i santi Pastori: c’è bisogno che alla parola si unisca il gesto, che alla vicinanza dello sguardo, la compassione, si aggiunga l’istruzione ma anche il cibo. Adesso “cibo” è un termine simbolico, onnicomprensivo di tutto quello che serve all’uomo, che serve a un giovane oggi, a un uomo, a una donna per sopravvivere in questa foresta, in questo continuo terremoto culturale. “Pane” significa “vicinanza”; “pane” significa: riconosco i tuoi bisogni; “pane” significa: non mi fermo a insegnarti certe cose, ma ti accompagno anche nella ricerca del sostentamento del pane.

“Pane” è un termine denso di significato. La moltiplicazione dei pani non è solo la moltiplicazione del pane materiale, ma è anche cibo, è anche casa, è anche vicinanza, è anche lenire le ferite. “Pane” è il simbolo per eccellenza dell’amore. Oggi i nostri figli hanno tante cose, ma mancano del pane; hanno tante cose inutili, ma manca loro il necessario. E quello che è vero nelle nostre famiglie, peraltro cristiane (almeno di nome), è ancora più vero e più drammatico se allarghiamo il nostro orizzonte all’intera società. Sembrano, i nostri giovani e le nuove generazioni, avere tante cose, ma manca loro il pane, per esempio il “pane del senso”. Dobbiamo ridare la fame della direzione; è una fame da insegnare, attenti: un figlio non ci chiederà per dove si va, come si diventa grandi, come si diventa uomini, come si diventa felici. Non ce lo chiederà mai così espressamente, come a noi preti, vescovi e Chiesa non ci viene mai chiesto: Insegnateci per dove dobbiamo andare, insegnateci la strada. È una fame da decodificare, ma è un pane essenziale.

Pensate anche a tutti gli anni che San Paride ha impiegato perché da quella prima liberazione si raggiungesse poi la comunità cristiana. Ci sono alcuni sacerdoti presenti e sperimentano in prima persona la fatica di fare famiglia parrocchiale, di tenere insieme le persone, di porle le une di fronte alle altre in una maniera accogliente. Questo chiede tanto tempo, chiede tanti pani, chiede tanti impasti, chiede anche tanta pazienza. “Date loro voi stessi da mangiare”, dice Gesù, cioè occupatevi voi dei loro bisogni, ve li affido. Solo chi è mosso da compassione autentica, la compassione cristiana, può capire questo invito di Gesù e può intuire gli anni della presenza di San Paride a Teano come Pastore che insegna e dà il pane, cioè che dà la Parola ma anche l’Eucarestia, che dà la Parola ma che cammina anche con la comunità, che insegna ciò che bisogna fare ma che è disposto a farsi pane per la comunità teanese. La prima comunità cristiana - e nel caso, come alcuni dicono, ci fosse già una piccola comunità cristiana a Teano ai tempi di San Paride - ha avuto bisogno a lungo di questa presenza di docenza e presenza materna.

Allora invochiamo da Gesù sacerdoti santi, maestri che non si limitino a fare lezione, ma siano essi stessi nella loro vita “la lezione”, cioè realizzino nella loro esistenza quello che dicono, come dice la liturgia dell’Ordinazione Diaconale. Chiediamo Pastori che sappiano stare con noi, che alternino l’insegnamento, la Parola, con il pane, il cibo con la direzione, che si mettano a capo di processioni, non quelle liturgiche che abbondano già, ma di quelle processioni che cercano senso, che cercano direzione, che cercano nuove modalità per essere uomini e donne oggi fedeli al Vangelo.

Come vedete – e andiamo verso la conclusione – questo brano è anche un paradigma della vita della Chiesa, e per noi, prepararci alla Festa di San Paride significa riprendere – lo dico con un termine antico – il sensus Ecclesiae, cioè il sapore della Chiesa. Oggi la gente non ha più il sapore della Chiesa, il sensus Ecclesiae che è la percezione della Chiesa, l’odore della Chiesa, il profumo della Chiesa, l’immagine della Chiesa. La Chiesa è quella tartassata dai mezzi della comunicazione sociale, è una sorta di fantoccio contro cui lanciare dei sassi e, allora, bisogna ridare questo sensus, questo sapore, questa gioia d’appartenervi. Capite che questo dipende da noi, da noi che siamo qui. Voi direte: Ma siamo pochi… Probabilmente la comunità di San Paride era molto più esigua della nostra stasera, ma poche persone convinte, amanti, diventano anche convincenti e trasformano una parrocchia, trasformano una cittadina, trasformano una diocesi. Ma questo senso, prima di poterlo trasmettere, lo dobbiamo avere noi. Allora, poiché mi sento manchevole, questa sera, rispetto a questo sapore di Chiesa, a questo profumo di Chiesa, a questa percezione della Chiesa che gli antichi ci hanno consegnato con questo sensus, lo chiedo a Gesù che è qui nel Mistero dell’Eucarestia proprio per unificare. L’Eucarestia, come dice un’antica preghiera, è fatta di tanti chicchi che si sono messi insieme e hanno costituito un pane solo: così si riunisca la Tua Chiesa. E noi diciamo a Gesù: così sia riunita la nostra Chiesa nella memoria del suo Pastore fondatore.

 

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Antifona:

Dona la pace, Signore,

a chi confida in Te.

Dona la pace, Signore,

dona la pace.  

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Serenata alla Cattedrale

 

3 agosto 2010

 

Sassofono: Antonio Graziano

Organo: Maria Teresa Roncone

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Iniziamo il nostro secondo incontro notturno, questa sera, con un concerto insolito, un matrimonio insolito (ma in musica nessun matrimonio è “fuori natura”): si tratta di sassofono e organo a canne. Già conosciamo Antonio Graziano per un concerto a “In punta di piedi in Episcopio”, oltre ai concerti a Vairano; Maria Teresa è più che di casa e, quindi, non c’è bisogno di presentarla.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

J. Brahms (1833-1897) – Preludio in sol minore

E. Bozza (1904-1991) – Aria

 

Intitoliamo questa serata-concerto “Serenata alla Cattedrale”. Si può fare una serenata alla Cattedrale come si fa una serenata ad una donna? Certo, perché la Cattedrale è una donna, perché è segno di una Chiesa, perché ci sono dei giorni in cui è come se rivivesse, giorni che sembrano normali, che appartengono al calendario ma costituiscono giorni solenni. È il caso del 3 agosto per la nostra chiesa Cattedrale che festeggia, questa sera, il suo 53° compleanno. Nel 1957, in questa giornata, veniva consacrata e dedicata la chiesa Cattedrale di Teano, dopo la distruzione ad opera delle bombe durante la seconda guerra mondiale, e rinasceva attraverso un rito battesimale, che è il rito della Dedicazione della chiesa e della Consacrazione dell’altare. Monsignor Palombella, che era stato Vescovo di Teano e da un anno, credo, era stato trasferito a Matera, presiedeva la celebrazione (Monsignor Sperandeo, nella sua bontà, volle dare al suo predecessore, che aveva avviato i lavori della ricostruzione della Cattedrale, la presidenza di quella solennissima celebrazione). Noi ci ritroviamo qui dopo 53 anni e una donna è ancora bella a 53 anni; lo è anche, per quanto concerne le chiese, dopo mille anni o dopo duemila. Tra l’altro, nella Cattedrale ricostruita, ci sono elementi della Chiesa romanica di mille e più anni prima della distruzione, come l’arco che è sul mio capo.

Perché fare una serenata alla Cattedrale? Per ritrovare un amore, per ritrovare una bellezza, per ritrovare un’appartenenza, perché se quello che ho detto vale per ogni chiesa, lo è in modo tutto speciale per la chiesa Cattedrale, che è la chiesa madre di tutte le chiese di una diocesi, che è la chiesa dove c’è la Cattedra del Vescovo (da cui prende il nome Cattedrale) e quindi la chiesa principessa, la chiesa regina di tutte le chiese. Sembrano “termini”: in realtà fanno riferimento a grandi contenuti della nostra fede, perché in un edificio si ritrova una comunità con la sua storia, con le sue radici, con i suoi Vescovi, con le sue vicissitudini, con i suoi dolori, le sue distruzioni, le sue morti, tutto qui condensato nelle colonne, nell’arco, nell’altare, nei marmi, nei capitelli... Partecipiamo, questa sera, ad un atto d’amore alla nostra chiesa. Diamo il compito ai due artisti per suonare questa serenata, forse perché l’amore è un po’ andato dimenticato e una serenata può aiutare a farlo rivivere. Speriamo che questo accada nella preghiera contemplativa di stasera.

 

T. Albinoni (1671-1750) – Adagio (trascr. Di M. Londeix)

 

Sulle note di Albinoni, in questa trascrizione dove all’oboe è stato sostituito il sassofono, probabilmente anche nella vostra mente si sono susseguite le immagini delle bombe che cadevano, della Cattedrale distrutta: fu veramente un male? Una domanda un po’ strana… Certamente sì, da un punto di vista storico, da un punto di vista della violenza che distrugge, ma a volte, come nella nostra vita, nella vita di una chiesa di pietra, i dolori sconvolgono, rimettono in cantiere le pietre. È quello che è accaduto per la nostra Cattedrale: se la guardate in alcune foto precedenti il bombardamento, barocchizzata, appesantita oltremisura, mi vien da dire - sembrerà un po’ blasfemo - “benedette le bombe”. Dico questo più per la nostra vita che non per la vita di questo edificio sacro che respira, che ha una sua storia e che ancora oggi ha bisogno d’essere rimessa in cantiere. Nella nostra vita ci sono dei momenti terribili, dei bombardamenti, dei terremoti, degli sconvolgimenti, dei lutti, dei tradimenti, delle violenze… A distanza di anni, quando rileggiamo quei momenti, ci rendiamo conto che non è stato tutto un male, anzi, che alcuni di quegli eventi hanno innescato nuove reazioni, hanno fatto in modo che noi tirassimo fuori delle energie che non pensavamo d’avere, hanno rimesso in moto una vita che rischiava di diventare standardizzata. Certamente è accaduto per questo santo edificio.

Perché “benedette le bombe”? Perché quando si è trattato di costruirla, ci si è posto l’interrogativo che gli architetti, i critici d’arte si chiedono sempre davanti ad un edificio da ricostruire: da quale punto partiamo? Quale fase vogliamo ripresentare? Da dove cominciamo?

Il buon architetto Pane, che è stato anche il ricostruttore della Basilica di Santa Chiara a Napoli, ha fatto qui quello che ha realizzato nella Basilica di Santa Chiara; ha fatto una scelta di campo (ovviamente non da solo, ma supportato dalle autorità ecclesiali e anche dello stato): riportare l’edificio a prima dell’appesantimento. Allora abbiamo riavuto l’impianto romanico e le linee semplici ed essenziali dell’architettura romanica. Questa sembrerebbe un’annotazione meramente d’arte, che potrebbe non interessarvi; invece è utile, perché questa è la nostra Cattedrale ed è bene che noi vi ritroviamo quello che è veramente antico, come  il pulpito, come l’arco trionfale, come certi capitelli lungo la navata di ville romane. Ma vi ritroviamo anche lo sforzo che la nostra Chiesa ha fatto 60’anni fa nel rimettersi in cantiere, tornando alle origini, cancellando i segni barocchi (credo che di barocco, da noi, sia rimasto il San Michele che mi fa compagnia di fronte alla Sede, come qualche altro elemento); tutto è stato riportato all’impianto e alla semplicità dell’architettura romanica. Allora fu veramente una disgrazia? E poi, più dolorosamente ci dobbiamo chiedere, pensando alle nostre disgrazie, alle nostre disavventure, ai bombardamenti della nostra vita: è stato veramente un incidente, o quel dolore, quella crisi, quel tradimento ha fatto in modo che io tirassi fuori il meglio di me? Che io mi liberassi da orpelli, da appesantimenti dovuti al ruolo, dovuti agli errori, per riprendere il cammino collegandomi ad un passato valido – passato remoto – mentre il passato prossimo forse non era dei più entusiasmanti? Ecco come la storia dell’architettura della nostra Cattedrale dice anche “storia dell’architettura della nostra vita” e poi – ma lo dirò in seguito –  “storia dell’architettura della nostra Chiesa”.

 

J. S. Bach (1685-1750) - Toccata in Re minore

J. Rodrigo (1901-1999) - Aranjuez (trascr. Di A. Maj)

 

Gli uomini si incontrano nella storia, nell’arte, nell’amore – e l’arte non è altro che amore – e, in questo momento, abbiamo visto anche realizzarsi un connubio, un matrimonio tra due brani appartenenti a due tradizioni diverse: la Toccata, che è il brano per organo in assoluto più conosciuto di Bach, e il concerto di Aranjuez con un salto di duecento anni. Non so se avete notato, ma la tonalità era la stessa; la tonalità ha richiamato, ci ha fatto fare un salto di duecento anni creando un’atmosfera dal classicismo delle opere di Bach al neoromanticismo di tradizione spagnola. Anche qui due epoche che si incontrano, che dialogano.

Bisogna che ci sia almeno la stessa tonalità, come per questo matrimonio che i nostri due artisti hanno realizzato qui davanti a noi; c’è bisogno che dialoghino le epoche, gli stili, le persone.

Vi ho lasciato, nel precedente commento, con un cantiere anche della Chiesa. Immaginate questo tempo epico - perché sarà stato così - della nostra Diocesi, quando si utilizzava la chiesa di San Francesco come Cattedrale e si attendeva che si riaprissero le porte del cuore della Diocesi. Pensate alle impalcature, pensate ai lavori (tra l’altro, forse senza le bombe non sarebbe neanche uscito miracolosamente il Crocifisso del Trecento che campeggia nell’abside della nostra Cattedrale), cioè questo fervore di operai, di architetti, del Vescovo, che probabilmente scendeva ogni giorno a fare un sopralluogo tra i lavori, e – quello che più mi interessa in questo momento – quello che poi si viveva nel cuore dei preti, nel cuore dei laici, nel cuore delle persone, delle parrocchie, preparando il giorno della riapertura che non era solo “riapriamo la chiesa Cattedrale” ma era anche “adesso siamo una Diocesi a tutti gli effetti”. È chiaro che la Diocesi come comunità è un fatto spirituale; ci si può anche raccogliere in piazza (l’importante è che ci sia il Vescovo, il presbiterio, il laicato e i religiosi), ma capite che quando manca il luogo per i momenti più solenni è come se mancasse il talamo o la stanza da pranzo nelle nostre case.

Quindi, una Chiesa che era in ebollizione. Oggi facciamo tanta fatica a pensarci così: in costruzione, in progettazione, dove anche visioni diverse di Chiesa si confrontano, dove ci si chiede: ma come vogliamo disegnare il futuro? Vogliamo che i capitelli siano uguali o siano ognuno l’uno diverso dagli altri (per dire la singolarità delle persone)? Ecco, una serie di interrogativi che probabilmente erano nella mente di Monsignor Sperandeo, dei suoi collaboratori, del presbiterio, ma immagino anche di tanti laici.

La Chiesa, se non è “in cantiere”, non è la Chiesa: è un museo, in senso di costruzione ma anche in senso spirituale, di comunità. La Chiesa è “in divenire”. Ecco perché si può ardire di porre qualche segno, da parte nostra, di novità. Qualcuno potrebbe strapparsi le vesti (e non sto facendo un’autodifesa): Ma questa cosa non c’entra! L’architetto Pane non l’aveva prevista!, come se la nostra generazione non dovesse dire la sua, non dovesse lasciare una traccia; come se il presbiterio di oggi, domani - e non lo facciamo per questo, beninteso - non dovesse essere ricordato in una statua, in un crocifisso, in un altare. Questo per dire che c’è la visione degli architetti, delle sovrintendenze, di coloro che sovrintendono ai monumenti, ma se dovessimo ascoltare loro al 100%, noi dovremmo restare ingessati e il vostro Vescovo dovrebbe parlare così, magari col collare, perché non si deve muovere, perché magari può scricchiolare la Sede fatta dai sorrentini nel 1963. Ma questa non è vita: è come dire che a casa vostra non vi mettete a letto, altrimenti si sgualcisce il cuscino, oppure non vi sedete a tavola per il pranzo altrimenti si sporcano le posate. Scusate se faccio riferimenti a cose apparentemente terra-terra ma che fanno parte della nostra vita, a dire: Io la casa la uso e, usandola, ovviamente, ci saranno delle cose che vanno cambiate; non sarà perfetta come quando siamo entrati da giovani sposi di ritorno dal viaggio di nozze (se ho un bambino, avrà anche scarabocchiato qualcosa su qualche parete e non è proprio la fine del mondo!). Si dice che “è vissuta”. Adesso, se è vissuta la casa, non dev’essere vissuta anche la chiesa? E se, man mano che cresce la famiglia, cambia anche il volto delle case - e lo sapete bene, perché il figlio adolescente ha portato il poster… - allora dobbiamo, ovviamente con equilibrio, ritenere che anche le nostre chiese debbano respirare e progredire. Poi lasciamo ai posteri l’ardua sentenza, se questo è stato un progresso, un regresso: l’importante è che sentiamo nostro questo luogo e, in quanto nostro, raccogliamo quello che viene dal passato, siamo grati, cerchiamo di custodirlo al meglio, ma vi diciamo anche la nostra parola. Ecco perché dicevo “serenata per la Cattedrale”.

Dopo 53 anni questa chiesa è la stessa di 53 anni fa? Guai se fosse così! Speriamo migliore, perché potrebbe essere anche peggiore (mi riferisco alla Chiesa di cui questa costruzione è un sacramento).

Sentiamo che, come respirano le colonne, i capitelli, le statue, i crocifissi e tutti gli elementi di questa nostra Cattedrale, così deve respirare anche la comunità, e il respiro della comunità è tradizione e innovazione, come abbiamo appena ascoltato: la tradizione dell’organo a canne è in assoluto Bach, ma l’innovazione è il concerto di Aranjuez rivisitato per sax e organo a canne e questa è novità. Credo che noi possiamo pregare anche con le note del concerto di Aranjuez. Forse quelli che hanno la mia età ricorderanno che nei nostri anni verdi, forse Gianni Morandi, se ricordo bene, tanto per tirare fuori qualcosa dal nostro album di fotografie, presentò anche una canzone su queste note che si chiamava “Fontana di Aranjuez”, tanto per dire: il motivo è quello, ci abbiamo messo un po’ di versi e abbiamo fatto una canzone.

L’antico e il nuovo; la tradizione e la novità; quello che è stato e quello che si va facendo adesso, ciò che si farà: questa è vita, e allora, fuori da questa ottica, questa non è una chiesa ma è un museo, e casa tua è una tomba.

 

A. Piazzolla (1921-1992) – Inverno Porteno

 

Forse qualcuno avrà provato a guardare la faccia di San Paride, chiedendosi: Mah!? Che ne penserà San Paride?

Invece, questo discorso che sto snocciolandovi con piccole pillole, con piccoli quadri, è in piena sintonia con la fede cristiana che San Paride ha impiantato a Teano, come dicevo ieri, e perché? Perché noi erroneamente pensiamo che la fede non si evolva, vero? Quando voi dovete dire una cosa che non cambia mai, utilizzate il termine “dogma”.

San Vincenzo di Lerins, che voi non conoscete ma che è l’ultimo Padre della Chiesa, ha scritto un’opera dove dice che anche il dogma si evolve (quindi non è quello che ha scritto l’ultimo teologo di grido che viene dagli Stati Uniti o dal Sud America). San Vincenzo di Lerins dice che anche il dogma si evolve e utilizza un’espressione molto bella: l’uomo è lo stesso del bambino ma è diverso, quello che è l’uomo c’era già nel bambino ma non si vedeva, poi è andato evolvendosi. Facendo questo esempio, parla dell’evoluzione di quella realtà che noi erroneamente riteniamo chiusa e incorniciata una volta per sempre, che si chiama “dogma”. Dunque, se anche il dogma è in evoluzione, tanto più quello che dogma non è, tanto più quelle tradizioni che sono venute ad aggiungersi al nostro bagaglio e che saggiamente dovrebbero essere riedite, ripensate. Perché vi sto facendo questo discorso? Perché Piazzolla, grande musicista argentino, l’idolo anche di tanti musicisti del Novecento, è stato un rivoluzionario. In Argentina si diceva: cambia tutto, tranne che il tango. Piazzolla ha dimostrato che non è così (ovviamente bisogna essere geni e geniali per far questo): ha introdotto nella musicalità, nelle immagini, nei colori del tango, elementi jazzistici per cui è stato un rivoluzionario, un grande rivoluzionario tanto che, anche sul piano politico, alcuni l’hanno voluto come bandiera, a dire: Dobbiamo cambiare regime; se Piazzolla è riuscito a cambiare il tango, allora si può anche cambiare modulo politico. Ma questa è stata una utilizzazione o una strumentalizzazione del grande Piazzolla.

La serenata alla Cattedrale non è la serenata ad una vecchia raggrinzita, rugosa, ma è la serenata ad una Chiesa sempre giovane che, proprio in questa evoluzione, nella fedeltà alla tradizione, manifesta la sua giovinezza; nella possibilità di appassionare dei giovani, di parlare a dei giovani, oggi la Chiesa manifesta la sua eterna giovinezza. Ecco come non dobbiamo ritenere nulla, neanche il dogma, dice Vincenzo di Lerins, codificato a tal punto da non potervi scoprire cose che sono già scritte ma che non si è stati ancora in grado di percepire. La Teologia si evolverà ancora per secoli e per millenni, e forse, quando guarderanno al nostro modo di intendere le verità della fede, tra cento anni, duecento anni, cinquecento anni, diranno: Quelli erano proprio… Stavano ancora a… Invece questo è bello, perché dice “vita”, dice “scorrere”, dice che i canoni della tradizione possono essere riassorbiti, reimpastati ed espressi in una maniera che sembra totalmente nuova, inedita. Speriamo questo per la nostra Chiesa.

 

H. Andriessen (1892-1981) – Toccata

 

Anche questa era una Toccata. Voi avrete pensato: Ma è preferibile quella in Re minore di Bach! Invece questa è una Toccata del Novecento e questo significa tanto. Vi do soltanto questa immagine: in questa Toccata dalle continue dissonanze, che è un aspetto tipico della musica del Novecento, abbiamo anche il dramma e una sorta di disorientamento dell’uomo. Questo lo comprendono anche quelli che non sono esperti: quando un accordo dissonante resta tale e non si “riposa” - come diciamo in termini un po’ volgari - su un accordo placido, noi restiamo con una sorta di angoscia. Ecco, in questa Toccata ci sono i campi di concentramento, ci sono due guerre mondiali, c’è tutto il dramma del Novecento, di una sorta di ricerca affannosa senza trovare. Voi pensate che questa ricerca sia del tutto inutile o addirittura negativa, e invece è la storia, è la nostra storia del Novecento. Quindi dobbiamo accoglierla così, come un elemento. Ma l’arte moderna non dice nulla! Le chiese di cemento armato non aiutano a pregare! Certamente una chiesa romanica ispira di più; ancora di più, una chiesa gotica invita a salire, ma certamente noi parliamo della nostra epoca e della nostra fede anche con le chiese di cemento armato, anche con i “casermoni”, anche con una sorta di oppressione che a volte sentiamo in certe strutture di preghiera. Ho voluto fare questa piccola nota artistica perché non abbiamo a riposare solo sulle Toccate famose di tempi più tranquilli; per la verità i tempi non sono mai stati tranquilli, ma certamente ci sono state epoche in cui la percezione dell’uomo era più serena, più ottimistica. Non possiamo dire che sia così quella del Novecento, il secolo che si è appena concluso.

Adesso ascoltiamo una composizione del maestro.

 

A. Graziano - Saxomania

 

Andiamo verso i due brani di Piazzolla con questi versi di Turoldo, autore del Novecento che tanti di voi conoscono, religioso, servita, ritenuto uno, anzi, il poeta religioso più importante del Novecento. Ho preso da “O sensi miei”, la raccolta di tutte le sue poesie, “Amore e morte” che vorrei commentarvi in due momenti. 

 

AMORE E MORTE

 

Ma quando da morte passerò alla vita,
sento già che dovrò darti ragione, Signore
e come un punto sarà nella memoria
questo mare di giorni.
Allora avrò capito come belli
erano i salmi della sera;
e quanta rugiada spargevi
con delicate mani, la notte, nei prati,
non visto. Mi ricorderò del lichene
che un giorno avevi fatto nascere
sul muro diroccato del Convento,
e sarà come un albero immenso
a coprire le macerie. Allora
riudirò la dolcezza degli squilli mattutini
per cui tanta malinconia sentii
ad ogni incontro con la luce.
Allora saprò la pazienza
con cui m'attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.

Ed io non riuscivo a morire.

Piangevo, mentre ti pascevi,

della mia solitudine. Mai

canto di gioia intonò il mio cuore,

stordito dalla fragranza delle creature.

Ogni voce d’amore era singulto. Invece

eri Tu che odoravi nella carne,

Tu celato in ogni desiderio,

o Infinito, che pesavi sugli abbracci.

Uno stesso tremolio – o bufera – sulla superficie

del mare come dentro le onde del calice. Eri

dovunque. E gli altri intanto

si baciavano solo sulla bocca,

ma io Ti mangiavo tutte le mattine.

E, allora, perché, perché

dunque ero così triste?

                                                                                            David Maria Turoldo

 

Questo canto, questa poesia del Padre Turoldo è una sorta di rilettura della vita a partire dall’eternità, a partire dalla morte. Il poeta pensa che domani si renderà conto d’essere stato felice senza rendersene conto, d’avere avuto Dio accanto, a portata di mano (Com’erano belli i salmi della sera e quanta rugiada spargevi con delicate mani, la notte, nei prati, non visto). Noi facciamo tanta fatica – tutti – a percepire Dio presente, soprattutto in certi momenti di assurdità. Facciamo tutti fatica a credere, a partire da me, ma quando rileggeremo la vita dalle sponde dell’eternità, rideremo delle nostre disperazioni, sorrideremo dei nostri turbamenti perché ci renderemo conto che Dio era più presente di quanto noi non ci accorgessimo. Vedete, il tempio nel quale si celebra la fede è immagine del tempio del creato dove ogni uomo può sentire Dio presente.

 

A. Piazzolla - Oblivion

 

Le note struggenti di Oblivion ben si addicono a questi versi: 

 

Allora saprò la pazienza
con cui m'attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.

Ed io non riuscivo a morire.

Piangevo, mentre ti pascevi,

della mia solitudine.

 

Sentiamo, a conclusione di questa serenata per la nostra Cattedrale, che quello che celebriamo qui, ha veramente una portata d’eternità. Qui sono riassunti i secoli passati ma anche qui c’è il germe dei secoli futuri, oltre ogni nostro desiderio e oltre ogni nostra attesa, anche la più bella, cioè Dio va facendo qualcosa in questo tempio, in questa famiglia, in questa chiesa, tra queste colonne.

Vorrei sottolineare, concludendo, questo verso che mi è carissimo: Uno stesso tremolio – o bufera – sulla superficie del mare come dentro le onde del calice. Per chi sia prete, questo verso si veste di particolari sensazioni: il tremolio che vediamo al tramonto, sul mare, con la brezza e poi queste onde nel calice, come se ci fosse un sommovimento, come se ci fosse un terremoto, un maremoto in quel poco di vino diventato Sangue di Cristo nel calice durante la Celebrazione Eucaristica.

Siate contenti d’essere amanti di questa chiesa e spero che anche questa “serenata” vi abbia lasciato quest’amore che bisogna cantare con i versi, con la musica, con le danze, con le parole, con la vita, con il cuore, con il respiro. Dice Turoldo nella poesia: Eri Tu che odoravi nella carne, cioè Dio è dovunque. Dio nelle vene, Dio nel sangue, Dio nel pulsare del cuore…

 

Compieta

 

A. Piazzolla - Libertango

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.