“San Paride by night”
Meditazioni
di
S. E. Rev.ma
Mons. Arturo Aiello
in preparazione alla
Festa di San Paride
Cattedrale di Teano, 2-3 agosto 2010
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Adorazione Eucaristica
2 agosto 2010
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Antifona:
Oh… Adoramus
Te Domine
Dal Vangelo secondo Matteo 14, 13-21
15 Sul
far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è
deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi
da mangiare». 16 Ma Gesù rispose: «Non occorre che
vadano; date loro voi stessi da mangiare». 17 Gli
risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!». 18 Ed
egli disse: «Portatemeli qua». 19 E dopo aver ordinato
alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati
gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai
discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 20 Tutti
mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi
avanzati. 21 Quelli che avevano mangiato erano circa
cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
***
Vogliamo vivere queste due serate, un po’ contemplative, in
preparazione alla Festa di San Paride. Abbiamo ascoltato la proclamazione del
Vangelo di oggi che, immagino, alcuni di voi avranno già avuto modo di
meditare. Ci troviamo davanti a “Gesù-Pane”: pane per
le folle di cui parla il Vangelo, pane per le folle pagane che ha incontrato
San Paride passando per la nostra città, pane per noi, per le nostre folle
affamate di oggi, anche se la fame che oggi si avverte - ma d’altra parte era
così anche per
Le folle che seguono Gesù lo precedono sulla sponda del lago e su
questa scena vorrei fermarmi. “Egli vide una grande folla, sentì compassione
per loro e guarì i loro malati”. È un passaggio importante nel racconto del
Vangelo: Gesù ha compassione delle folle perché si accorge che sono venute da
lontano, che hanno fatto uno sforzo (forse anche alcuni di voi avranno fatto
uno sforzo a venire qui a quest’ora inusitata per la
preghiera).
Mi interessa mettere a fuoco la compassione di Paride che era di
passaggio per Teano (non aveva intrapreso il suo viaggio per fermarsi qui). Ci
sono dei viaggi che si intraprendono per una meta che non si raggiunge mai e ci
si ferma per strada perché
Ci sono delle fedi che liberano e ci sono delle fedi che
appesantiscono. Io spero, almeno per voi, che ci sia la percezione che la fede cristiana
ci libera, ci fa respirare anche in questo caldo. Ci sono itinerari di fede, di
altre fedi che sono oppressive. Forse noi stessi, nella nostra infanzia, nella
nostra adolescenza, abbiamo impattato una Chiesa Cattolica appesantita, che ci
teneva sotto una sorta di giogo (ogni fede può deperire, può entrare in una
fase negativa). Quindi queste folle destano la compassione di
questo pellegrino cristiano che viene dalla Grecia e va a Roma; potrebbe
disinteressarsi o vedere questo spettacolo come un fatto folkloristico;
potrebbe dire: Vado a vedere! Racconterò di Teano, del drago e di questa
potenza malefica che tiene soggiogata la città! Racconterò di sacrifici umani,
di giovani che vengono sacrificati, ma la mia meta è altrove, io sono in
pellegrinaggio per Roma…
Che cosa ha mosso Paride a mettersi in questa processione, non
come un osservatore, un giornalista qualsiasi, ma come un credente che,
guardando la gente soggiogata da una fede negativa, vuole liberarla?
Ovviamente, se vi parlo di questo, è perché noi ci troviamo nell’identica
condizione. Sono passati tanti anni, tanti secoli:
Quali sono i mostri che tengono lontani i nostri giovani e li
svenano, li uccidono? Sono tanti. Sono molti di più e molto più insidiosi di
quelli con cui ha dovuto combattere San Paride, ma questo desiderio di
liberazione passa attraverso il desiderio di trarre fuori, e questo trarre
fuori dalla schiavitù viene innescato dalla compassione. Se io non ho
compassione di una persona, per esempio ignorante, non mi verrà mai il
desiderio di educarla, di istruirla; è la compassione che mi fa nascere il
desiderio dell’istruzione. Chiediamo che questi passaggi, di cui ci ha
ricordato Matteo, nel Vangelo di oggi, e che sono venuti anche ai tempi di San
Paride, possano accadere anche adesso.
“Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione
per loro e guarì i loro malati”.
Canto: Quanta sete nel mio
cuore
***
Il nostro stare qui, Gesù, vuole essere
un riconoscere in Te
la fonte, l’acqua, l’unica acqua che
sazia la nostra sete più profonda.
Ogni nostro desiderio si compirà solo in
Te,
solo in Te troverà la sua foce, il suo
estuario, la sua piena realizzazione.
Ti chiediamo perdono per aver cercato
esaudimento alle nostre arsure
in acque che, anziché togliere la sete,
l’aumentano.
Ti preghiamo d’avere misericordia in
questo giorno
che San Francesco ha voluto per la
salvezza di tanti.
Coloro che stanno recandosi alle feste, a
notti bianche,
a fonti che aumenteranno la loro sete,
possano essere raggiunti dalla nostra
preghiera e dalla nostra intercessione.
***
“Date loro voi stessi da mangiare”: su questo “invito-imperativo”
di Gesù imbastiamo la seconda parte della nostra Adorazione. La parola non può
restare solo parola: deve diventare anche esempio e la compassione deve
tradursi in pane. Questo avviene anche nella nostra esperienza educativa nei
confronti dei bambini, dei figli: i genitori ne hanno compassione. Cosa ci
rende i bambini simpatici? La compassione. Abbiamo compassione della loro
debolezza, andiamo loro incontro e un genitore insegna a un figlio tante cose.
Alcuni di voi che hanno avuto i figli bambini che adesso sono grandi,
ricorderanno l’attenzione, l’amore, la dedizione con cui si insegnava loro a
camminare, a parlare; ricorderete le volte in cui hanno detto per la prima
volta certe parole. Quell’insegnamento diventava anche amore, nasceva
dall’amore, ma poi si concretizzava nel pane, nel cibo, nel sonno, nella
difesa. Questo siamo chiamati a fare anche noi oggi; non basta parlare in
questa nostra società pagana, ci insegna Paride, ci insegna Gesù, ci insegnano
tutti i santi Pastori: c’è bisogno che alla parola si unisca il gesto, che alla
vicinanza dello sguardo, la compassione, si aggiunga l’istruzione ma anche il
cibo. Adesso “cibo” è un termine simbolico, onnicomprensivo di tutto quello che
serve all’uomo, che serve a un giovane oggi, a un uomo, a una donna per
sopravvivere in questa foresta, in questo continuo terremoto culturale. “Pane”
significa “vicinanza”; “pane” significa: riconosco i tuoi bisogni; “pane”
significa: non mi fermo a insegnarti certe cose, ma ti accompagno anche nella
ricerca del sostentamento del pane.
“Pane” è un termine denso di significato. La moltiplicazione dei
pani non è solo la moltiplicazione del pane materiale, ma è anche cibo, è anche
casa, è anche vicinanza, è anche lenire le ferite. “Pane” è il simbolo per
eccellenza dell’amore. Oggi i nostri figli hanno tante cose, ma mancano del
pane; hanno tante cose inutili, ma manca loro il necessario. E quello che è
vero nelle nostre famiglie, peraltro cristiane (almeno di nome), è ancora più
vero e più drammatico se allarghiamo il nostro orizzonte all’intera società.
Sembrano, i nostri giovani e le nuove generazioni, avere tante cose, ma manca
loro il pane, per esempio il “pane del senso”. Dobbiamo ridare la fame della
direzione; è una fame da insegnare, attenti: un figlio non ci chiederà per dove
si va, come si diventa grandi, come si diventa uomini, come si diventa felici.
Non ce lo chiederà mai così espressamente, come a noi preti, vescovi e Chiesa
non ci viene mai chiesto: Insegnateci per dove dobbiamo andare, insegnateci la
strada. È una fame da decodificare, ma è un pane essenziale.
Pensate anche a tutti gli anni che San Paride ha impiegato perché
da quella prima liberazione si raggiungesse poi la comunità cristiana. Ci sono
alcuni sacerdoti presenti e sperimentano in prima persona la fatica di fare
famiglia parrocchiale, di tenere insieme le persone, di porle le une di fronte
alle altre in una maniera accogliente. Questo chiede tanto tempo, chiede tanti
pani, chiede tanti impasti, chiede anche tanta pazienza. “Date loro voi stessi
da mangiare”, dice Gesù, cioè occupatevi voi dei loro bisogni, ve li affido.
Solo chi è mosso da compassione autentica, la compassione cristiana, può capire
questo invito di Gesù e può intuire gli anni della presenza di San Paride a Teano
come Pastore che insegna e dà il pane, cioè che dà
Allora invochiamo da Gesù sacerdoti santi, maestri che non si limitino
a fare lezione, ma siano essi stessi nella loro vita “la lezione”, cioè
realizzino nella loro esistenza quello che dicono, come dice la liturgia
dell’Ordinazione Diaconale. Chiediamo Pastori che sappiano stare con noi, che
alternino l’insegnamento,
Come vedete – e andiamo verso la conclusione – questo brano è
anche un paradigma della vita della Chiesa, e per noi, prepararci alla Festa di
San Paride significa riprendere – lo dico con un termine antico – il sensus Ecclesiae,
cioè il sapore della Chiesa. Oggi la gente non ha più il sapore della Chiesa,
il sensus Ecclesiae che
è la percezione della Chiesa, l’odore della Chiesa, il profumo della Chiesa,
l’immagine della Chiesa.
***
Antifona:
Dona la pace, Signore,
a chi confida in Te.
Dona la pace, Signore,
dona
la pace.
~ ~
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Serenata alla Cattedrale
3 agosto 2010
Sassofono: M°
Antonio Graziano
Organo: M°
Maria Teresa Roncone
~
Iniziamo il nostro secondo incontro notturno,
questa sera, con un concerto insolito, un matrimonio insolito (ma in
musica nessun matrimonio è “fuori natura”): si tratta di sassofono e organo a
canne. Già conosciamo Antonio Graziano per un concerto a “In punta di piedi in
Episcopio”, oltre ai concerti a Vairano; Maria Teresa è più che di casa e,
quindi, non c’è bisogno di presentarla.
Nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
J. Brahms
(1833-1897) – Preludio in sol minore
E. Bozza (1904-1991) – Aria
Intitoliamo questa serata-concerto “Serenata alla Cattedrale”. Si
può fare una serenata alla Cattedrale come si fa una serenata ad una donna?
Certo, perché
Perché fare una serenata alla Cattedrale? Per ritrovare un amore,
per ritrovare una bellezza, per ritrovare un’appartenenza, perché se quello che
ho detto vale per ogni chiesa, lo è in modo tutto speciale per la chiesa
Cattedrale, che è la chiesa madre di tutte le chiese di una diocesi, che è la
chiesa dove c’è
T.
Albinoni (1671-1750) – Adagio (trascr.
Di M. Londeix)
Sulle note di Albinoni, in questa
trascrizione dove all’oboe è stato sostituito il sassofono, probabilmente anche
nella vostra mente si sono susseguite le immagini delle bombe che cadevano,
della Cattedrale distrutta: fu veramente un male? Una domanda un po’ strana…
Certamente sì, da un punto di vista storico, da un punto di vista della
violenza che distrugge, ma a volte, come nella nostra vita, nella vita di una
chiesa di pietra, i dolori sconvolgono, rimettono in cantiere le pietre. È
quello che è accaduto per la nostra Cattedrale: se la guardate in alcune foto
precedenti il bombardamento, barocchizzata,
appesantita oltremisura, mi vien da dire - sembrerà
un po’ blasfemo - “benedette le bombe”. Dico questo più per la nostra vita che
non per la vita di questo edificio sacro che respira, che ha una sua storia e
che ancora oggi ha bisogno d’essere rimessa in cantiere. Nella nostra vita ci
sono dei momenti terribili, dei bombardamenti, dei terremoti, degli
sconvolgimenti, dei lutti, dei tradimenti, delle violenze… A distanza di anni,
quando rileggiamo quei momenti, ci rendiamo conto che non è stato tutto un
male, anzi, che alcuni di quegli eventi hanno innescato nuove reazioni, hanno
fatto in modo che noi tirassimo fuori delle energie che non pensavamo d’avere,
hanno rimesso in moto una vita che rischiava di diventare standardizzata.
Certamente è accaduto per questo santo edificio.
Perché “benedette le bombe”? Perché quando si è trattato di
costruirla, ci si è posto l’interrogativo che gli architetti, i critici d’arte
si chiedono sempre davanti ad un edificio da ricostruire: da quale punto
partiamo? Quale fase vogliamo ripresentare? Da dove cominciamo?
Il buon architetto Pane, che è stato anche il ricostruttore della
Basilica di Santa Chiara a Napoli, ha fatto qui quello che ha realizzato nella
Basilica di Santa Chiara; ha fatto una scelta di campo (ovviamente non da solo, ma supportato dalle autorità ecclesiali e anche dello
stato): riportare l’edificio a prima dell’appesantimento. Allora abbiamo
riavuto l’impianto romanico e le linee semplici ed essenziali dell’architettura
romanica. Questa sembrerebbe un’annotazione meramente d’arte, che potrebbe non
interessarvi; invece è utile, perché questa è la nostra Cattedrale ed è bene
che noi vi ritroviamo quello che è veramente antico, come il pulpito, come l’arco trionfale,
come certi capitelli lungo la navata di ville romane. Ma vi ritroviamo anche lo
sforzo che la nostra Chiesa ha fatto 60’anni fa nel rimettersi in cantiere,
tornando alle origini, cancellando i segni barocchi (credo che di barocco, da
noi, sia rimasto il San Michele che mi fa compagnia di fronte alla Sede, come
qualche altro elemento); tutto è stato riportato all’impianto e alla semplicità
dell’architettura romanica. Allora fu veramente una disgrazia? E poi, più
dolorosamente ci dobbiamo chiedere, pensando alle nostre disgrazie, alle nostre
disavventure, ai bombardamenti della nostra vita: è stato veramente un
incidente, o quel dolore, quella crisi, quel tradimento ha fatto in modo che io
tirassi fuori il meglio di me? Che io mi liberassi da orpelli, da
appesantimenti dovuti al ruolo, dovuti agli errori, per riprendere il cammino
collegandomi ad un passato valido – passato remoto – mentre
il passato prossimo forse non era dei più entusiasmanti? Ecco come la storia
dell’architettura della nostra Cattedrale dice anche “storia dell’architettura
della nostra vita” e poi – ma lo dirò in seguito – “storia dell’architettura della nostra
Chiesa”.
J. S. Bach (1685-1750) -
Toccata in Re minore
J. Rodrigo (1901-1999) - Aranjuez (trascr. Di A. Maj)
Gli uomini si incontrano nella storia, nell’arte, nell’amore – e
l’arte non è altro che amore – e, in questo momento, abbiamo visto anche
realizzarsi un connubio, un matrimonio tra due brani appartenenti a due
tradizioni diverse:
Bisogna che ci sia almeno la stessa tonalità, come per questo
matrimonio che i nostri due artisti hanno realizzato qui davanti a noi; c’è
bisogno che dialoghino le epoche, gli stili, le persone.
Vi ho lasciato, nel precedente commento, con un cantiere anche
della Chiesa. Immaginate questo tempo epico - perché sarà stato così - della
nostra Diocesi, quando si utilizzava la chiesa di San Francesco come Cattedrale
e si attendeva che si riaprissero le porte del cuore della Diocesi. Pensate
alle impalcature, pensate ai lavori (tra l’altro, forse senza le bombe non
sarebbe neanche uscito miracolosamente il Crocifisso del Trecento che campeggia
nell’abside della nostra Cattedrale), cioè questo fervore di operai, di
architetti, del Vescovo, che probabilmente scendeva ogni giorno a fare un
sopralluogo tra i lavori, e – quello che più mi interessa
in questo momento – quello che poi si viveva nel cuore dei preti, nel cuore dei
laici, nel cuore delle persone, delle parrocchie, preparando il giorno della
riapertura che non era solo “riapriamo la chiesa Cattedrale” ma era anche
“adesso siamo una Diocesi a tutti gli effetti”. È chiaro che
Quindi, una Chiesa che era in ebollizione. Oggi
facciamo tanta fatica a pensarci così: in costruzione, in progettazione, dove
anche visioni diverse di Chiesa si confrontano, dove ci si chiede: ma come
vogliamo disegnare il futuro? Vogliamo che i capitelli siano uguali o
siano ognuno l’uno diverso dagli altri (per dire la singolarità delle persone)?
Ecco, una serie di interrogativi che probabilmente erano nella mente di
Monsignor Sperandeo, dei suoi collaboratori, del presbiterio, ma immagino anche
di tanti laici.
Dopo 53 anni questa chiesa è la stessa di 53 anni fa? Guai se
fosse così! Speriamo migliore, perché potrebbe essere anche peggiore (mi
riferisco alla Chiesa di cui questa costruzione è un sacramento).
Sentiamo che, come respirano le colonne, i capitelli, le statue, i
crocifissi e tutti gli elementi di questa nostra Cattedrale, così deve
respirare anche la comunità, e il respiro della comunità è tradizione e
innovazione, come abbiamo appena ascoltato: la tradizione dell’organo a canne è
in assoluto Bach, ma l’innovazione è il concerto di Aranjuez
rivisitato per sax e organo a canne e questa è novità. Credo che noi possiamo
pregare anche con le note del concerto di Aranjuez.
Forse quelli che hanno la mia età ricorderanno che nei nostri anni verdi, forse
Gianni Morandi, se ricordo bene, tanto per tirare fuori qualcosa dal nostro
album di fotografie, presentò anche una canzone su queste note che si chiamava
“Fontana di Aranjuez”, tanto per dire: il motivo è
quello, ci abbiamo messo un po’ di versi e abbiamo
fatto una canzone.
L’antico e il nuovo; la tradizione e la novità; quello che è
stato e quello che si va facendo adesso, ciò che si farà: questa è vita, e
allora, fuori da questa ottica, questa non è una
chiesa ma è un museo, e casa tua è una tomba.
A. Piazzolla (1921-1992) –
Inverno Porteno
Forse qualcuno avrà provato a guardare la faccia di San Paride,
chiedendosi: Mah!? Che ne penserà San Paride?
Invece, questo discorso che sto snocciolandovi con piccole
pillole, con piccoli quadri, è in piena sintonia con la fede cristiana che San
Paride ha impiantato a Teano, come dicevo ieri, e perché? Perché noi
erroneamente pensiamo che la fede non si evolva, vero? Quando voi dovete dire
una cosa che non cambia mai, utilizzate il termine “dogma”.
San Vincenzo di Lerins, che voi non conoscete ma che è l’ultimo
Padre della Chiesa, ha scritto un’opera dove dice che anche il dogma si evolve
(quindi non è quello che ha scritto l’ultimo teologo di grido che viene dagli
Stati Uniti o dal Sud America). San Vincenzo di Lerins dice che anche il dogma
si evolve e utilizza un’espressione molto bella: l’uomo è lo stesso del bambino ma è diverso, quello che è l’uomo c’era già nel
bambino ma non si vedeva, poi è andato evolvendosi. Facendo questo esempio,
parla dell’evoluzione di quella realtà che noi erroneamente riteniamo chiusa e
incorniciata una volta per sempre, che si chiama “dogma”. Dunque, se anche il
dogma è in evoluzione, tanto più quello che dogma non
è, tanto più quelle tradizioni che sono venute ad aggiungersi al nostro
bagaglio e che saggiamente dovrebbero essere riedite, ripensate. Perché vi sto
facendo questo discorso? Perché Piazzolla, grande musicista argentino, l’idolo
anche di tanti musicisti del Novecento, è stato un rivoluzionario. In Argentina
si diceva: cambia tutto, tranne che il tango. Piazzolla ha dimostrato che non è
così (ovviamente bisogna essere geni e geniali per far questo): ha introdotto
nella musicalità, nelle immagini, nei colori del tango, elementi jazzistici per cui è stato un rivoluzionario, un grande rivoluzionario
tanto che, anche sul piano politico, alcuni l’hanno voluto come bandiera, a
dire: Dobbiamo cambiare regime; se Piazzolla è riuscito a cambiare il tango,
allora si può anche cambiare modulo politico. Ma questa è stata una utilizzazione o una strumentalizzazione del grande
Piazzolla.
La serenata alla Cattedrale non è la serenata ad una vecchia
raggrinzita, rugosa, ma è la serenata ad una Chiesa sempre giovane che, proprio
in questa evoluzione, nella fedeltà alla tradizione, manifesta la sua giovinezza;
nella possibilità di appassionare dei giovani, di parlare a dei giovani, oggi
H.
Andriessen (1892-1981) – Toccata
Anche questa era una Toccata. Voi avrete pensato: Ma è preferibile quella in Re minore di
Bach! Invece questa è una Toccata del Novecento e questo significa tanto.
Vi do soltanto questa immagine: in questa Toccata dalle continue dissonanze,
che è un aspetto tipico della musica del Novecento, abbiamo anche il dramma e
una sorta di disorientamento dell’uomo. Questo lo comprendono anche quelli che
non sono esperti: quando un accordo dissonante resta tale e non si “riposa” - come diciamo in termini un po’ volgari - su un
accordo placido, noi restiamo con una sorta di angoscia. Ecco, in questa
Toccata ci sono i campi di concentramento, ci sono due guerre mondiali, c’è
tutto il dramma del Novecento, di una sorta di ricerca affannosa senza trovare.
Voi pensate che questa ricerca sia del tutto inutile o
addirittura negativa, e invece è la storia, è la nostra storia del Novecento.
Quindi dobbiamo accoglierla così, come un elemento. Ma l’arte moderna non dice nulla! Le chiese di cemento armato non
aiutano a pregare! Certamente una chiesa romanica ispira di più; ancora di
più, una chiesa gotica invita a salire, ma certamente noi parliamo della nostra
epoca e della nostra fede anche con le chiese di cemento armato, anche con i
“casermoni”, anche con una sorta di oppressione che a volte sentiamo in certe
strutture di preghiera. Ho voluto fare questa piccola nota artistica perché non
abbiamo a riposare solo sulle Toccate famose di tempi più tranquilli; per la
verità i tempi non sono mai stati tranquilli, ma certamente ci sono state
epoche in cui la percezione dell’uomo era più serena, più ottimistica. Non
possiamo dire che sia così quella del Novecento, il secolo che si è appena
concluso.
Adesso ascoltiamo una composizione del maestro.
A. Graziano - Saxomania
Andiamo verso i due brani di Piazzolla con questi versi di
Turoldo, autore del Novecento che tanti di voi conoscono, religioso, servita,
ritenuto uno, anzi, il poeta religioso più importante
del Novecento. Ho preso da “O sensi miei”, la raccolta di tutte le sue poesie,
“Amore e morte” che vorrei commentarvi in due momenti.
AMORE E MORTE
Ma quando da morte passerò
alla vita,
sento già che dovrò darti ragione, Signore
e come un punto sarà nella memoria
questo mare di giorni.
Allora avrò capito come belli
erano i salmi della sera;
e quanta rugiada spargevi
con delicate mani, la notte, nei prati,
non visto. Mi ricorderò del lichene
che un giorno avevi fatto nascere
sul muro diroccato del Convento,
e sarà come un albero immenso
a coprire le macerie. Allora
riudirò la dolcezza degli squilli mattutini
per cui tanta malinconia sentii
ad ogni incontro con la luce.
Allora saprò la pazienza
con cui m'attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.
Ed io non riuscivo a
morire.
Piangevo, mentre ti
pascevi,
della
mia solitudine. Mai
canto
di gioia intonò il mio cuore,
stordito
dalla fragranza delle creature.
Ogni voce d’amore era
singulto. Invece
eri
Tu che odoravi nella carne,
Tu celato in ogni
desiderio,
o
Infinito, che pesavi sugli abbracci.
Uno stesso tremolio – o
bufera – sulla superficie
del
mare come dentro le onde del calice. Eri
dovunque. E gli altri
intanto
si
baciavano solo sulla bocca,
ma
io Ti mangiavo tutte le mattine.
E, allora, perché, perché
dunque
ero così triste?
David Maria Turoldo
Questo canto, questa poesia del Padre Turoldo è una sorta di
rilettura della vita a partire dall’eternità, a partire dalla morte. Il poeta
pensa che domani si renderà conto d’essere stato felice senza rendersene conto,
d’avere avuto Dio accanto, a portata di mano (Com’erano belli i salmi della sera e quanta rugiada spargevi con
delicate mani, la notte, nei prati, non visto). Noi facciamo tanta fatica –
tutti – a percepire Dio presente, soprattutto in certi momenti di assurdità.
Facciamo tutti fatica a credere, a partire da me, ma quando rileggeremo la vita
dalle sponde dell’eternità, rideremo delle nostre disperazioni, sorrideremo dei
nostri turbamenti perché ci renderemo conto che Dio era più presente di quanto
noi non ci accorgessimo. Vedete, il tempio nel quale si celebra la fede è
immagine del tempio del creato dove ogni uomo può sentire Dio presente.
A. Piazzolla - Oblivion
Le note struggenti di Oblivion ben si
addicono a questi versi:
Allora saprò la pazienza
con cui m'attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.
Ed io non riuscivo a
morire.
Piangevo, mentre ti pascevi,
della
mia solitudine.
Sentiamo, a conclusione di questa serenata per la nostra
Cattedrale, che quello che celebriamo qui, ha veramente una portata d’eternità.
Qui sono riassunti i secoli passati ma anche qui c’è il germe dei secoli
futuri, oltre ogni nostro desiderio e oltre ogni nostra attesa, anche la più bella, cioè Dio va facendo qualcosa in questo tempio,
in questa famiglia, in questa chiesa, tra queste colonne.
Vorrei sottolineare, concludendo, questo verso che mi è
carissimo: Uno stesso tremolio – o bufera
– sulla superficie del mare come dentro le onde del calice. Per chi sia prete, questo verso si veste di particolari sensazioni:
il tremolio che vediamo al tramonto, sul mare, con la brezza e poi queste onde
nel calice, come se ci fosse un sommovimento, come se ci fosse un terremoto, un
maremoto in quel poco di vino diventato Sangue di Cristo nel calice durante
Siate contenti d’essere amanti di questa
chiesa e spero che anche questa “serenata” vi abbia lasciato quest’amore che
bisogna cantare con i versi, con la musica, con le danze, con le parole, con la
vita, con il cuore, con il respiro. Dice Turoldo nella poesia: Eri Tu che odoravi nella carne, cioè Dio
è dovunque. Dio nelle vene, Dio nel sangue, Dio nel pulsare del cuore…
Compieta
A. Piazzolla - Libertango
***
Il testo, tratto
direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.