San Paride by night
Incontri
di preghiera guidati da
S. E. Rev.ma Mons. Arturo
Aiello
in
preparazione alla Solennità di San Paride
Patrono
della Diocesi di Teano-Calvi
Teano,
2-3 agosto 2011
Chiesa
Cattedrale
~
Teano,
2 agosto 2011
adorazione
eucaristica
“Amata
e abbandonata per crescere: la Patria”
Canto iniziale: Quanta sete nel mio
cuore
Vogliamo
vivere quest’ora di preghiera in adorazione davanti a Gesù Eucarestia. Facciamo
innanzi tutto un atto di fede sulla Sua presenza. Diciamo al Signore: Tu sei
qui, Gesù, tu sei qui per me; Tu mi parli, voglio farTi compagnia. È lo stesso
che ha parlato a San Paride, che San Paride ha annunciato, che i santi hanno
amato. Non c’è aiuto che essi abbiano ricevuto che non sia anche a nostra
disposizione, e quindi vogliamo entrare nel mistero della santità, che parte da
Gesù e investe le persone e le trasforma. Questo vale anche per quelli fra noi
che sono più scoraggiati sulla propria vita morale: Non ce la farò mai… Non riuscirò ad eguagliare, non dico i campioni, ma
neanche gli ultimi della classe… Gesù può trasformare anche il più
depravato di noi, questa sera, in un santo, senza sforzo, per pura grazia.
Abbiamo
iniziato con il canto che parla di una sete. C’è una sete nel cuore di ciascuno
di noi che solo Dio può saziare. Signore,
ci hai fatti per Te - dice Agostino nelle sue Confessioni - e il nostro cuore è inquieto finché non
riposa in Te.
***
Marco 3, 31-35
31 Giunsero sua madre e i
suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto
attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e
le tue sorelle sono fuori e ti cercano». 33 Ma egli
rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». 34 Girando
lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i
miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è
mio fratello, sorella e madre».
Vogliamo
riflettere insieme e pregare insieme, a partire da questo brano che conosciamo e
che vogliamo leggere alla luce della partenza di San Paride dalla sua patria,
dalla Grecia (San Paride viene dalla terra della sapienza e ha dovuto lasciare
la sua patria). Vogliamo meditare un po’ insieme su questo aspetto, a partire
dal Vangelo che avete appena ascoltato, dove Gesù prende le distanze dalla sua
famiglia d’origine. Quando nelle nostre famiglie qualcuno fa carriera, si fa
strada, allora si è orgogliosi di lui: è stato così anche per Gesù. Quando un
figlio eccelle, un genitore, un padre, una madre godono di luce riflessa,
perché dicono: Questo è mio figlio!
Quello che vedi lì, che sta ballando, quella che fa la valletta in quello
spettacolo - non è una cosa di grande onore, per la verità, ma so che per
voi è motivo di orgoglio - quel musicista
che sta eseguendo quel concerto è mio figlio! Si vuole, in questa maniera,
riappropriarsi di ciò che è partito da noi, perché il figlio viene da noi,
viene dalle nostre viscere, è cresciuto, si è formato nella nostra famiglia, e
dunque pensiamo di poter esercitare un potere su di lui, soprattutto quando è
diventato importante. È un deputato, è il sindaco, è un senatore, è un
direttore di banca e allora diciamo: “È mio figlio!”. È successo così a Gesù,
perché la Sua fama si diffondeva e quindi arrivava l’eco a Nazareth, per cui si
forma questa delegazione. Ho sempre immaginato che Maria vi fosse un po’
trascinata (Maria di Nazareth non amava i primi posti), perché i parenti,
quando si organizzano, è difficile fermarli: hanno preso un pullman, si sono
attrezzati per una merenda fuoriporta e dunque trascinano anche la Madre.
Quando giungono laddove Gesù è accampato con i Suoi e sta predicando, pensano –
è questa la presunzione – che Egli smetta, sospenda per un attimo per andare a
onorare i Suoi parenti (Scusate, fermi
tutti! C’è mia madre!). Ma Gesù ha una risposta durissima: “Chi è mia
madre? Chi sono i miei fratelli?”. E poi, volgendo lo sguardo ai Suoi
ascoltatori, e facendo il gesto che adesso faccio io: “Ecco mia madre, ecco i
miei fratelli”, a dire: “Non c’è più nulla che ci accomuni”. In un altro
momento Gesù dice: “Che c’è tra me e te, o donna?”. Alcuni leggono anche
quell’espressione, alle nozze di Cana, come una sorta di presa di distanza.
Vorrei
parlarvi della madre, del padre e della patria come luoghi umani da amare e da
abbandonare. Innanzi tutto da amare, perché l’abbandono non avrebbe merito, non
sortirebbe tutti quegli effetti di crescita che comporta, se non fossero, in
precedenza, persone e luoghi amati. Immaginiamo anche il nostro San Paride,
alla cui festa ci prepariamo, che avrà avuto affetto per sua madre, per suo
padre, per la sua patria: il suo distaccarsi è un gesto violento, ma ha merito
nella misura in cui prima c’è stato un legame. Non ci si distacca da persone
indifferenti, non costa nulla, anzi, qualche volta addirittura può essere un
bene; invece dalla madre, dal padre, dalla patria (e padre e patria hanno in
qualche maniera una stessa radice), ci si distacca all’atto in cui si è legati.
Parlo in una maniera un po’ paradossale come sempre, cioè prima bisogna legarsi
e, all’atto in cui ci si è legati, si può partire. È una strana legge, è una
legge scritta nella natura, prima che nella cultura, perché il bambino si
stacca dalla madre, dal corpo della madre con cui è tutt’uno, ma si stacca
perché è legato: il cordone ombelicale è un simbolo di vita, il cordone
ombelicale ad un certo punto bisogna tagliarlo e sappiamo che, se non si
taglia, c’è pericolo di morte per la madre e per il bambino. Allora il titolo
di questa nostra Adorazione è: “Amata e abbandonata per crescere: la Patria”,
ma potremmo anche dire: il padre, la madre, la famiglia. A volte anche una
piccola comunità, un gruppo, può costituire, può assolvere a questo ruolo
materno nella nostra vita e noi ci dobbiamo legare con tutta la forza della
nostra passionalità a quel luogo, a quella casa, a quella voce, a quei volti, a
quelle consuetudini, a quella lingua (Paride parlava un’altra lingua, la sua
lingua natale era un’altra, non è quella che ha trovato in Italia, a Teano).
Probabilmente,
soprattutto per quelli fra voi più giovani, questa mia riflessione apparirà
strana: perché legarsi ad una cosa che sappiamo di dover lasciare? Non sarebbe
meglio non legarsi, in modo tale da non soffrire? Ma è proprio il distacco
doloroso il luogo della crescita, è proprio il distacco dalla persona che ami
che ti fa crescere, dal luogo che ami che ti fa crescere, che ha fatto crescere
Paride, che avrà pianto le sue lacrime più amare, come le Clarisse
dell’Immacolata ci hanno descritto nella meravigliosa Vita a fumetti, che spero
abbiate già ricevuto o che potete prendere gratuitamente alla fine della nostra
Adorazione. Ma quelle lacrime l’hanno fatto crescere. Allora, se leggiamo così
la Parola di Gesù – “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?” – non vi
leggiamo solo la durezza di chi voglia tagliare, ma anche la dolcezza di chi
ricordi cos’ha fatto Maria per Lui, cosa hanno fatto gli altri (qui i fratelli
sono quelli della famiglia; noi, in dialetto napoletano, fino a quarant’anni
fa, indicavamo così i cugini: fratelli cugini).
Quindi,
chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli? Chi sono queste persone? Sembra una
parola dura; in realtà, è una parola dolcissima. Riconosco la mia Patria,
riconosco mia madre, riconosco i miei amici, riconosco i miei amici di
infanzia, di adolescenza, di giovinezza, riconosco questi luoghi dolcissimi,
ameni: vi tornerei subito, ma sarebbe come regredire in uno stadio di vita
infantile, precedente. Invece la vita è evoluzione; la vita non è regressione:
la malattia è regressiva. La vita, nel suo svolgersi, è invece evolutiva, di
giorno in giorno, di stagione in stagione, di tempo in tempo. E quello che è
accaduto, rientra nei ricordi, nella memoria, ma non può essere un luogo, una
dimensione a cui tornare.
Intravedo
tra di voi, ad esempio, i genitori, i parenti di qualche monaca di
Pietravairano: il desiderio qual è? che mia figlia torni a casa? È umano, non
dovete vergognarvi di questo desiderio, ma al tempo stesso dobbiamo dirci: ma
se mia figlia tornasse a casa… (è quello che a volte desidero, in certi
momenti: d’averla a portata di mano, d’averla nella sua stanza, laddove ci sono
ancora le cose della sua giovinezza, della sua adolescenza, le foto…), se mia
figlia tornasse - dico una parola molto dura - dovrei non farla entrare, perché
sarebbe come regredire.
Ci
sono anche i genitori di una coppia che celebrerà il Matrimonio Domenica
prossima. Ecco, forse è più forte questa parola per voi: se Antonio e Simona
tornassero a casa, tra un mese, tra un anno, che reazione avreste, oltre quella
del dispiacere?
Abbiamo bisticciato: mamma, vengo a
dormire da te! La risposta che un
genitore dovrebbe dare è: “Mi dispiace, questa non è più casa tua”. È durissima
questa parola, magari non riuscireste a pronunciarla, ma sarebbe la parola
vera: Non puoi entrare, perché qui hai dimorato in un altro tempo; adesso non è
più il tempo di stare con me, anche se, come madre, come padre, questa cosa
potrebbe gratificarmi.
Spiego
così e, credo, diventa anche più chiaro quello che voglio dire: Chi è mia
madre? Chi sono i miei fratelli? Allora la Patria, la madre, il padre, la
giovinezza - e qui i temi potrebbero essere tanti, che si intersecano in questo
nostro dire - sono luoghi da amare, persone da amare, e all’atto in cui si è
realizzata una vera intesa, all’atto in cui diciamo: “Sì, voglio vivere per te,
con te”, in quel momento dobbiamo andar via. C’è un ragazzo qui, per esempio,
che ha un tatuaggio nascosto sotto la camicia (non diciamo chi, tanto nessuno
di voi lo vede). Ha scritto una frase che dovrebbe far fare salti di gioia ad
una madre. In spagnolo ha scritto: “Mamma, anche se un giorno incontrassi la
mia principessa, tu resterai sempre la mia regina”. Voi donne impazzireste,
come mamme, se un figlio si facesse tatuare una frase del genere. È una cosa
meravigliosa! Invece, alla luce di quello che sto dicendo, se mi stai
ascoltando, comprendi come questa frase bellissima, poetica, forse non è
giusta. L’abbiamo pensata, scritta e ce l’abbiamo fatta tatuare in un momento
di esaltazione materna, ma la madre amata dev’essere anche lasciata. Ci
chiediamo adesso, in questi istanti di silenzio, chi amo, quale luogo amo e chi
debbo lasciare. Lo chiediamo a Gesù: Gesù, Tu mi conosci, Tu sai, conosci il
mio cuore più di quanto io non riesca a leggerlo chiaramente, e allora guidami
per capire come questa Parola si attualizza, diventa concreta nella mia vita
adesso. E guardando Paride, che parte e lascia Atene, lascia la Grecia per un
luogo che non sa, forse anch’io debbo intraprendere un viaggio, perché il
viaggio è un tema evocativo di tutta una vita.
***
C’è qualcosa da cui non
bisogna fuggire? o c’è qualcosa o qualcuno da cui è impossibile scappare? Il
salmo 138, che adesso ascoltiamo recitato, esprime questa fuga inutile. Ci sono
delle fughe utili, perché dobbiamo crescere, ci dobbiamo evolvere, perché certi
luoghi diventano stretti per noi; ci manca l’aria anche in certe relazioni, in
certe amicizie grette, anche se importanti in un tempo precedente, in una
stagione precedente, ma non così nel rapporto con Dio, dove siamo invitati a
cercare e a sentirci, come dice il salmo, dolcemente accompagnati. Anche se dovessi prendere le ali dell’aurora
per abitare le estremità del mare, anche là - dice il salmista - mi guida la Tua mano, mi afferra la Tua
destra. Neanche l’esperienza del peccato diventa lontananza da Dio: è il
senso di questo versetto del salmo 138 che ora cantiamo.
Questa notte non è più notte davanti a
Te!
Il buio come luce risplende!
Salmo 138
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
2 tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
3 mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
4 la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.
5 Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
6 Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.
7 Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
9 Se prendo le ali dell'aurora
per abitare all'estremità del mare,
10 anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11 Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
12 nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
13 Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14 Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15 Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16 Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17 Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18 se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
19 Se Dio sopprimesse i peccatori!
Allontanatevi da me, uomini sanguinari.
20 Essi parlano contro di te con inganno:
contro di te insorgono con frode.
21 Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano
e non detesto i tuoi nemici?
22 Li detesto con odio implacabile
come se fossero miei nemici.
23 Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
24 vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.
C’è qualcosa, dunque, di
definitivo nella nostra vita? La risposta è sì. C’è qualcosa che non cambia,
nonostante il mutare delle mode, delle stagioni, dei gusti, del sentire. È Dio
Colui che dall’inizio alla fine ci accompagna. Per cui, lasciare la Patria è
non abbandonare il padre, paradossalmente, anche se a volte non è uno sforzo,
avviene naturalmente per quelle ribellioni adolescenziali che abbiamo vissuto
tutti, allo scoccare di una stagione, in una tempesta ormonale. Paride non
tornerà più in Grecia, Paride morirà qui, anziano, a servizio di una Chiesa
rimessa su (e non parlo della chiesa-costruzione, ma della Chiesa comunità). E
proprio questa realtà, che non si disincaglia, è ciò che stasera deve
commuoverci e per cui Gesù è qui a dire: Tu farai i tuoi cammini, tu
attraverserai tanti deserti, tu dovrai tagliare tanti cordoni, ma ricordati -
il salmo 138, da questo punto di vista, è un capolavoro - tu tornerai a me. A
volte il peccato stesso - e vi sembrerà una bestemmia - cioè l’esperienza della
debolezza, viene utilizzata da Dio per riconquistarci, perché noi abbiamo ad
appoggiarci al Suo petto.
C’è
una poesia di un poeta inglese, Herbert,
che dice che Dio distribuisce tanti doni all’uomo nel creato, ma poi, temendo
che quest’uomo possa andar via definitivamente, andare lontano da Lui, dice:
Voglio donargli anche la stanchezza, perché possa tornare e appoggiare il capo
sul mio petto.
Dio
è ciò verso cui andiamo, anche quando sbagliamo, anche quando paradossalmente
pensiamo di allontanarci da Lui, anche quando diciamo: Non ne voglio più sapere! Basta, ho chiuso con Te! Anche in quel
momento noi stiamo camminando verso di Lui.
Vorrei,
questa sera, consegnarvi un messaggio dolcissimo. Lo dico in particolare a voi
genitori, che sentite i figli lontani perché non vengono in chiesa, non
frequentano come quand’erano bambini, come quando facevano i chierichetti, gli
leggevate le fiabe… Adesso invece sono ribelli... Questo figlio ribelle
tornerà, questa figlia che sembra irrecuperabile tornerà e non perché tu,
madre, tu, padre, siate particolarmente bravi, ma perché Dio ha posto nell’uomo
questa voglia, questo desiderio di ritorno, questa nostalgia. Chi è mia madre?
Chi sono i miei fratelli? - dice Gesù, ma con questo, mentre afferma una
distanza, racconta anche una nostalgia: la nostalgia della casa, la nostalgia
della famiglia, la nostalgia dell’essere insieme. Queste nostalgie, anche
umane, sono sacramento di una nostalgia più grande che è quella di Dio, e
allora sentirla dentro, ma anche avvertire che ci sarà un’ora per mio figlio,
per quella persona che ritengo perduta, per quel giovane, che seguivo e che
adesso è scomparso, ci dà tanta consolazione. Tua figlia tornerà, tuo figlio
tornerà, noi torneremo, anzi, siamo già di ritorno, e non solo noi che siamo
stasera qui, nonostante il caldo, in Cattedrale seguendo questo invito un po’
strano, ma vale per tutti, anche per quelli che in questo momento sono
fisicamente lontani dalla Chiesa, dalla liturgia, dalla preghiera, da una vita
di amicizia, di relazione con Gesù. In silenzio assaggiamo questa dolcezza,
questa speranza che affonda le radici nella nostra fede e che dice che, se ci
allontaniamo dalla Patria, è perché possiamo nutrire una nostalgia che ci
faccia tornare. E questa nostalgia non è più una nostalgia per il padre, per la
madre, per la Patria, ma è la nostalgia di Dio. I santi, cari amici, sono i
monumenti a questa nostalgia, perché ci dicono che anche da regioni lontanissime
si può tornare.
Oggi
la Chiesa ha un ricordo particolare per Francesco d’Assisi, perché come sapete
è il giorno del Perdono di Assisi. Anche Francesco ha vissuto un tempo, nella
sua vita, di lontananza, di giovinezza un po’ scapestrata, diremmo noi. Ebbene,
anche per lui c’è stato un richiamo, c’è stata una voce, c’è stato lo sguardo
di un Crocifisso, c’è stata una piccola Chiesa da ricostruire. Dunque chiediamo
anche la sua intercessione, in questo giorno del Perdono di Assisi, per aprirci
a questa grande speranza del ritorno. Non so dove sto andando – potrebbe essere
questa la parola conclusiva di stasera – ma una cosa è certa: sto di
ritorno.
Antifona
Dona
la pace, Signore, a chi confida in Te.
Dona
la pace, Signore, dona la pace.
Viviamo
questi ultimi minuti, prima della benedizione, chiedendo il dono della pace per
noi, per quelli che vediamo e sentiamo inquieti, per i contestatori di turno.
Abbiamo bisogno di questa pace, che solo Gesù può dare.
Dona
la pace…
***
Ti
raccomandiamo, Signore, tutti coloro che sono particolarmente inquieti in
questa notte: gli ammalati, i disperati… Fa’ sorgere per essi una luce nella
notte.
Dona
la pace…
Canto: Adoriamo il Sacramento
Benedizione eucaristica
Canto finale: Resta con noi, Signore, la
sera
***
Teano,
3 agosto 2011
serenata
alla cattedrale
Soprano: Clara Vitale
Organo: Maria Teresa Roncone
L’incontro
di questa sera si intitola “Serenata alla Cattedrale”, perché oggi ricorre il
54° compleanno della nostra Cattedrale. In preparazione alla festa di San
Paride, nel 1957, fu consacrata la Cattedrale, che era stata ricostruita dopo i
bombardamenti. Quindi questo concerto è una serenata a un luogo, probabilmente
a una persona, perché questo luogo è un sacramento, è sacramento di qualcosa di
più grande, come avremo modo di dire durante questo percorso che, com’è
consuetudine, è fatto di contemplazioni estetiche e di piccole riflessioni.
Diamo
il benvenuto a Clara Vitale. Maria Teresa è di casa da noi.
Ci
apprestiamo a vivere questo momento in grande raccoglimento e, per questo,
facciamo anche un segno di croce, perché questa contemplazione artistica possa
essere pienamente una preghiera, sia per loro che eseguono, sia per noi che
ascoltiamo.
Nel
nome del Padre…
S. Karg, Elert - “Praise the
Lord with drums and cymbals” per organo
W.
A. Mozart - Ave Verum
Mozart
ha musicato questo brano che è una sintesi di fede eucaristica; dinanzi
all’Ostia consacrata riconosce che in quel cerchio bianco c’è il Vero Corpo,
nato da Maria Vergine. Vorrei partire da qui per il nostro piccolo itinerario
di “Serenata alla Cattedrale”, perché il Corpo di Cristo è il corpo nato da
Maria Vergine, il Corpo di Cristo è l’Ostia consacrata. Quando voi venite a
riceverla e il sacerdote dice: “È il Corpo di Cristo”, voi potreste dire: “Ma è
un’ostia, un pezzo di pane!” e invece è il Corpo di Cristo.
Ma
c’è una terza scansione dell’espressione “Corpus Christi” e riguarda la Chiesa. Il Corpo di Cristo è la
Chiesa, siamo noi, la Chiesa universale, la Chiesa universale che vive nelle
Chiese particolari, e questo Corpo, che per noi che vi apparteniamo è la
comunità diocesana di Teano-Calvi, ha bisogno di un segno che la renda
visibile, perché come si fa a dire la Chiesa di Teano-Calvi? dov’è? È impossibile
che si riunisca tutta insieme, non abbiamo un luogo, non sarebbero tutti
puntuali, non risponderebbero all’invito, da Presenzano a Pastorano, da
Pietramelara a Sparanise - per indicare alcuni punti cardinali - fino al Nord,
a Mignano. Allora questo Corpo di Cristo, che è la Chiesa, la Chiesa Diocesana,
trova nella Chiesa Cattedrale il suo sacramento. Per cui, quando voi entrate
qui, non entrate in una qualsiasi chiesa: entrate nella chiesa Cattedrale. Lo
ripeto, anche se per alcuni dovrebbe essere già chiarissimo: Cattedrale viene
da “cattedra”, cioè il luogo da cui il Vescovo insegna, presiede le
celebrazioni. Quindi altre chiese potrebbero anche essere – e non ce ne sono –
più belle, ma la chiesa Cattedrale ha la sua dignità sacramentale, che un’altra
chiesa non ha, perché è il cuore e anche il sacramento, cioè il segno che rende
visibile una realtà invisibile, che è la comunità diocesana. Immaginate che
nella seconda guerra mondiale questa comunità diocesana fu defraudata della sua
Cattedrale a causa dei bombardamenti; si riteneva che qui ci fossero delle
munizioni, fosse depositato chissà quale armamentario, e quindi anche la nostra
Cattedrale ricevette la sua buona e terribile razione di bombe. Quindi
immaginate la nostra Diocesi, che è stata per alcuni anni senza cuore. È
chiaro, il Vescovo dell’epoca trasferì le celebrazioni nella chiesa di S.
Francesco, ma si sentiva il bisogno di riavere il cuore, di riavere il
sacramento. È come dire: c’è l’Eucarestia, ma non vedo l’ostia; c’è Gesù
presente, ma non vedo l’ostia; oppure: c’è il Battesimo, ma non vedo l’acqua;
c’è la Cresima, ma non c’è il crisma. Noi abbiamo bisogno di vedere, di
toccare, e quindi di entrare in questa chiesa e toccare la nostra Chiesa
Diocesana, che è invisibile, perché neanche la riunione di tutti i credenti di
tutte le parrocchie la renderebbe visibile, perché la nostra Chiesa riguarda
anche i Vescovi, i sacerdoti, i laici defunti: quelli fanno parte della nostra
Chiesa come, in qualche maniera, ne fanno parte, nel mistero, quelli che
verranno dopo di noi. Quindi è impossibile visualizzare una Chiesa e allora, a
partire da questa impossibilità, nasce l’esigenza del sacramento. Partiamo così
nel nostro itinerario: 54 anni fa ci veniva ridonata la nostra chiesa. Immagino
la commozione di Monsignor Sperandeo, di Monsignor Palombella, suo
predecessore, che fu chiamato a svolgere, a presiedere il ruolo della
consacrazione, e dei sacerdoti presenti, di Monsignor Leonardo, che è la nostra
memoria vivente (era già stato nominato Vescovo, anche se non ordinato), il
giorno in cui, 54 anni fa, fu consacrata la Cattedrale. Immaginate l’emozione
delle persone che dicevano: “Finalmente riabbiamo il cuore”.
P. Magri – Cor Jesu
F. Schubert – Ave Maria
Cosa
significa che questo tempio è sacramento della Chiesa? Significa che gli
elementi che compongono la costruzione rimandano ad altre realtà. Stamattina,
per i seminaristi e i preti che hanno fatto l’Ufficio delle Letture con il
Comune della Dedicazione della Chiesa, c’era un testo meraviglioso di
Sant’Agostino, dove il Vescovo di Ippona, proprio commemorando la festa di una
Dedicazione, dice: Guardate, qui ci sono delle pietre e c’è del legno (sono gli
elementi con cui, ieri come oggi, venivano costruite le case, le chiese, ancora
di più nell’antichità, con una forte presenza anche del legno). Dov’era il
legno? Era negli alberi. Dov’erano le pietre? Erano in una cava. Poi sono stati
portati via: gli alberi tagliati, le pietre estratte e poi forgiate. Finché
erano separati, questi elementi non costituivano ancora il tempio, erano
materiale da costruzione.
Poi
dice: Che cosa rende legno e pietra tempio? La malta, che ha messo insieme
questi elementi. Agostino, parlando alla sua comunità, dice: Attenti, che la
malta è la carità, cioè è l’amore che tiene insieme gli “elementi
architettonici” di una Chiesa, come il cemento, come la malta, come la colla,
come tutto quanto utilizziamo, unisce capitelli, colonne, archi. Allora la
Chiesa ha bisogno continuamente di ritrovare l’unità e questa chiesa Cattedrale
è un sacramento di unità, perché non ce n’è un’altra: la Concattedrale di Calvi
si chiama Con-cattedrale, perché la Cattedrale è questa, perché la cattedra è
una sola e non possono sorgere altre chiese che possano vantare il pregio della
chiesa Cattedrale, perché dobbiamo convergere in unità, perché, anche se
costruissi una basilica a Sparanise o in qualsiasi altro angolo della Diocesi,
sarebbe la chiesa architettonicamente più bella, ma non il centro, perché noi
abbiamo bisogno di un cuore e il cuore sovrintende in qualche maniera alla
vita, alla vitalità di tutto il nostro organismo. Il cuore della Chiesa
Diocesana è la Cattedrale, ma tutto questo rimane astratto e freddo se non
percepiamo che c’è bisogno di sangue da far giungere in tutte le parrocchie,
c’è bisogno di amore che tenga insieme uomini, donne, laici consacrati,
Vescovi, diaconi, presbiteri, religiosi, religiose… Com’è difficile! Lo vedete
già nella vostra famiglia. Com’è difficile stare insieme! Com’è difficile
andare avanti in armonia! Com’è difficile non bisticciare! Questo succede anche
nella Chiesa. Se, in questo momento, cominciassero a bisticciare gli elementi
architettonici della nostra Cattedrale – non succederà, state tranquilli – ci
piomberebbe addosso, moriremmo sotto le macerie. Quindi l’assenza della carità
demolisce la Chiesa.
Mentre
vi dico questo, vi invito a pregare, perché la Chiesa universale e la nostra
sia una Chiesa vincolata. “Vincolata”, per la sovrintendenza, significa altro;
invece “vincolata” significa “legata da un vincolo” e questo vincolo è l’amore;
non sono delle verità (non è “metterci d’accordo”). No, è un’altra cosa: è un
dono di Dio, è lo Spirito Santo che è l’anima, perché è la malta - diceva
Agostino – che tiene insieme le pietre, che tiene insieme le capriate, che sono
di legno, con il resto della costruzione. Allora chiediamo, in questa serenata
alla Cattedrale, che la carità sia abbondante, che non venga meno, che non si
creino delle lesioni, delle separazioni - di più - delle contrapposizioni, perché
la contrapposizione non ci appartiene. Veniamo in Cattedrale in alcuni momenti
solenni dell’anno, in particolare nella Messa Crismale, per ritrovare l’unità
della carità.
Tarquini
– O Jesu mi dolcissime
Bach
– Gounod – Ave Maria
Questa
sera vogliamo anche esprimere sentimenti di riconoscenza nei confronti di
Monsignor Michele Lamberti, a cui appartengono sia la poesia, che adesso vi
leggerò, sia le incisioni che vedete sulla vostra brochure. È un sacerdote che
non ho conosciuto, partito per l’eternità qualche anno prima della mia venuta
qui, ma che ha lasciato un’eco nel cuore di molte persone. Già nel 2007,
iniziando il Giubileo della Cattedrale, che purtroppo, come Don Tommaso
ricorderà, fu un flop (ci sono anche dei flop nella Chiesa, lo ricorda bene anche
Don Pasqualino: ad un certo punto il Vescovo non volle più presiedere tutte le
celebrazioni messe in programma, perché c’erano poche persone, a dire anche
questa appartenenza debole, perché quello fu il momento in cui tastare il polso
del sensus Ecclesiae delle nostre comunità, anche dei nostri
preti), alla fine dell’omelia, io ricordo - io sì, ma voi probabilmente no -,
lessi questa poesia di Monsignor Lamberti, che si intitola così: Colloquio con
la Cattedrale.
Monsignor
Lamberti appartiene a quei preti che avevano vissuto l’assenza della
Cattedrale, quindi trovarla, riaverla, per loro, fu motivo di grande gioia.
Quindi nei versi, nell’erudizione di Monsignor Lamberti, convergono anche i
sentimenti di tanti sacerdoti, forse più semplici, che sentivano, senza poter
esprimere in una maniera alta, come nel caso di questo testo, i loro sentimenti
nei confronti di questo luogo. È bello anche aderire alla fede dei sacerdoti
che ci hanno preceduto, perché in loro c’era questo sensus Ecclesiae che noi rischiamo di perdere.
È proprio un parlare con queste mura, con il luogo che ci ospita questa sera.
T’hanno ridato le austere forme
che a te donò Pandulfo e l’agile arco
del pio Goffredo e fuga di materne
braccia distese all’umano dolore.
T’hanno ridesta dal crudele sonno
delle macerie; e la tua pietra viva,
che aveva udito gemere Teano
tra l’urlo saraceno, come in grembo
ancora accoglie l’onda rediviva
dell’organo che a te diede Sertorio.
E s’addolcisce nella salmodia
l’aspra voce del prode Fortiguerra,
né morte reca più il truce Papone.
Hai vinto il tempo: i tuoi cimeli e
l’urne
di vescovi e guerrieri e i grigi marmi
or si fan riso d’angeli e madonne.
Tu vivi perché vivo è in te l’Eterno.
E noi a te cerchiamo stanchi il pane
che dà la vita; dalle buie strade
veniamo a udir di Paride la voce
e pace al Crocifisso d’Oderisio
chiediamo ancora. Tu, se la tempesta
è greve sulla carne e attorce il cuore,
veglia su noi, o nostra Cattedrale.
Di
questo testo vorrei, innanzi tutto, mettere in evidenza il condensarsi, nei
capitelli, negli archi, nelle colonne della Cattedrale, di epoche storiche.
Ovviamente qui non abbiamo il tempo e non è neanche il luogo giusto, adatto,
per far riferimento a tutti gli eventi e ai personaggi a cui Don Michele fa
riferimento in questa composizione, che è una sintesi di storia della nostra
Diocesi di Teano in particolare, ma anche sintesi d’arte. Quello che è
importante è capire che questo luogo, già di per sé vivissimo da un punto di
vista sacramentale, è anche un luogo civico, è anche un luogo dove la storia si
è data convegno; ci sono i segni del passaggio di epoche: pensate a questo arco
medioevale, una delle poche cose rimaste in piedi sotto l’urto e la violenza
delle bombe; pensate al pulpito come ad altri elementi poi rimessi, ricostruiti,
reimpastati nella nuova impostazione della Cattedrale ad opera dell’architetto
Pane e sentite che qui respira anche la storia. Quindi non c’è solo la fede, ma
c’è anche la storia. Attenti, saremmo tentati di pensare che sono due cose
diverse, e invece no, perché la fede e la storia convergono, coincidono. Noi
cristiani dovremmo essere fieri di questo, cioè d’essere seguaci di un Dio che
si fa storia, che si fa carne, si fa concreto, e quindi attraverso la fede
delle diverse epoche, dove ciascuno ha cercato di lasciare un’orma, un cimelio,
un capitello, un arco, la chiesa Cattedrale, diventa anche il luogo dove
sentiamo e tocchiamo la storia che ha un suo spessore. Dice Don Michele: “Hai
vinto il tempo”, perché il tempo ha il potere di distruggere, ma la Cattedrale
l’ha vinto, e lo dice lui, dopo: “Tu vivi perché vivo è in te l’Eterno”. Questi
elementi e le vicende qui adombrate, anche di violenza, come “il truce Papone”,
hanno trovato come una sorta di rifugio in un luogo che è al limitare tra il
tempo e l’eterno. Quando entro in una chiesa, tanto più nella chiesa
Cattedrale, io varco una soglia, passo dal tempo all’eterno, e questi due
elementi non sono più contrapposti, cioè l’eterno come la fine del tempo o il
tempo senza tempo, ma riesco a trovare una sintesi meravigliosa tra le vicende
storiche di ieri ma anche quelle di oggi e Dio, e il Suo sguardo di
benevolenza, di misericordia sulle vicende umane. In questo memento, della
composizione di Don Michele sottolineiamo: “Tu hai vinto il tempo”. Tu,
Cattedrale: è come se si rivolgesse alla madre, si rivolgesse alla Chiesa; non
una composizione architettonica, ma un elemento vivente. “Tu hai vinto il
tempo”, e prova ne è la ricostruzione, perché molti probabilmente avranno
detto: “No, è impossibile costruire la Cattedrale! Ne faremo una nuova, faremo
più in fretta, risparmieremo… Sarà economicamente più fattibile!”. Invece il
risorgere di queste mura è una vittoria sul tempo ed è una vittoria sulla
violenza degli uomini. “Tu hai vinto il tempo”.
G.
Donizetti – Grande offertorio per organo
G.
F. Haendel – “O mio Signor” Largo
Ascoltate
come Monsignor Lamberti legge questa fuga di archi: “E fuga di materne braccia
distese all’umano dolore”.
Quando
si entra in una chiesa - e questa chiesa è stata pensata da un architetto
credente - ci si sente abbracciati. Dev’essere questa la sensazione in ogni
chiesa, a qualsiasi stile essa appartenga: uno deve sentire come un abbraccio.
In una maniera più plastica, pensate a piazza S. Pietro e al Colonnato del Bernini:
ecco, quello è un abbraccio, è l’abbraccio della Chiesa. Monsignor Lamberti
legge questo abbraccio nella fuga degli archi che sono “fuga di materne braccia
distese all’umano dolore”. E questo dolore è dolore delle macerie, ma anche il
dolore dei bombardamenti che sarebbero venuti dopo, magari non così evidenti
come quelli del secondo conflitto mondiale che distrusse la Cattedrale; meno
evidenti, ma non meno drammatici negli esiti. Ci sono bombardamenti continui
cui veniamo sottoposti; le coppie resistono con tanta difficoltà, le famiglie,
la fede, i valori… Allora c’è bisogno che questo dolore, che nasce da tanti
bombardamenti, possa trovare accoglienza nelle braccia materne della Chiesa.
Attenti che questi bombardamenti, questo dolore, che ovviamente noi viviamo con
difficoltà, è anche rivelativo. Ho sempre detto che le bombe, che caddero a
grappoli sulla nostra Cattedrale e la distrussero al 70-80%, furono senz’altro
una disgrazia, ma da quella disgrazia nacque una grazia. La grazia è ritrovare
la Cattedrale, le sue linee romaniche, che non c’erano più. Se vedete qualche
foto dei primi decenni del ’900 dite: Ma
questa è la nostra Cattedrale? Era la stessa, ma era stata appesantita,
barocchizzata, per cui quelle bombe furono violente, provocarono distruzione,
macerie, ma poi la Cattedrale, che è risorta dalle macerie, è senz’altro più
bella di quella che fu distrutta, perché noi abbiamo il potere terribile di
appesantire le cose, di ammantarle; allora viene un bombardamento, che può
essere una crisi nella tua vita personale o di coppia o di fede, che è
dolorosissima, viene un terremoto che scuote tutto, ma forse rimane in piedi
quello che veramente conta, ma forse nella ricostruzione ritrovi degli elementi
che avevi perduto. Uno fra tutti: pensate al Crocifisso medioevale, emerso
misteriosamente dalle macerie. Non se ne ha notizia prima, cos’era? Forse
doveva essere, facciamo un’ipotesi, legata al ritrovamento di una famosissima
icona in Russia (è un famosissimo volto di Cristo, anche se incompleto): era
diventata la pedana di un gradino. Si ruppero i gradini di una scala di legno
e, dovendoli ricostruire, sotto cominciò a emergere qualcosa: era un’immagine,
era un’icona. Così è accaduto anche per il nostro Crocifisso, che - dice
Monsignor Lamberti - di Oderisio; è una delle attribuzioni. Certamente, come vi
ho detto altre volte, è l’opera in assoluto più bella e più di valore che si
custodisce in questo scrigno, che è la nostra Cattedrale. Il Crocifisso di
Oderisio sarebbe stato ritrovato senza i bombardamenti? No, sarebbe rimasto da
qualche parte, in qualche scantinato, dietro una tavola su cui era stata
dipinta in secondo tempo una Madonna. Ecco, vedete come dal male, Dio sa trarre
sempre il bene; come da una crisi, da un bombardamento, un terremoto, che
sembra distruggere tutto, poi viene su qualcosa di più lineare. Noi godiamo
della linearità, dell’austera eleganza della nostra Cattedrale, tornata
romanica com’era all’origine - dobbiamo dirlo - grazie alle bombe. Allora
questo umano dolore, che “la fuga di materne braccia” accoglie, è il dolore che
ci fa soffrire, che ci fa piangere, che ci fa dire: Sarebbe stato meglio che
non fosse mai accaduta questa cosa. Ma poi, in una rilettura di fede, anche
quel terremoto, anche quella guerra, quella crisi, anche quel momento di buio è
servito: ti ha fatto ritrovare un volto più lineare, senza appesantimenti. Ha
buttato via, ha fatto cadere tanti orpelli; è rimasta questa colonna, è rimasto
questo capitello, sono rimaste le cose più preziose. È accaduto così anche per
la nostra Cattedrale.
G.
Verdi – La Vergine degli angeli
Stradella
– Aria di chiesa
Vi
confesso che, da giovane prete – e non è un peccato –, ho fatto una lotta
contro questo brano[1]. È bellissimo, ascoltato
così, ma ho fatto una lotta per toglierlo dalla celebrazione esequiale, perché
era un modo per drammatizzare il dramma, perché le persone già stavano
addolorate, tutte piangenti… Poi arrivava la preghiera di Stradella ed era la fine.
Spero che i musicisti non se ne dolgano. Era una lotta per dire: Cantate tutto,
tranne Stradella, perché, come avete visto, ha un suo andamento da melodramma.
Ma
torniamo al testo di Monsignor Lamberti.
E noi a te cerchiamo stanchi il pane
che dà la vita; dalle buie strade
veniamo a udir di Paride la voce
(chissà
se ancora qualcuno vorrà ascoltarla questa voce!)
e pace al Crocifisso d’Oderisio
chiediamo ancora. Tu, se la tempesta
è greve sulla carne e attorce il cuore,
veglia su noi, o nostra Cattedrale.
Questa
chiusa è bellissima. Innanzi tutto ci sono le “buie strade”. Allora, da un
lato, c’è la Cattedrale piena di luce, e poi c’è il mondo, la profanità, c’è il
dramma delle persone, i vicoli oscuri, da cui le persone arrivano grondanti
dolore, come abbiamo ascoltato dalla composizione di Stradella. Quindi c’è
questa contrapposizione tra la luce della Cattedrale - non lo dice, ma lo
leggiamo in filigrana - e le strade buie, da cui questi uomini oppressi
arrivano cercando il Pane, per “udir di Paride la voce”. Speriamo, Don Tommaso,
che qualcuno voglia sentire la voce di Paride. “Per udir di Paride la voce”,
cioè venire qui perché ci sono le ossa di San Paride (qui si custodisce la
memoria del Santo Vescovo, Padre della nostra Chiesa Diocesana) e “pace al
Crocifisso d’Oderisio chiediamo ancora”. Perché si chiede pace a un Crocifisso?
Perché è un Crocifisso medioevale e i crocifissi medioevali danno pace;
raccontano un dolore, ma già superato, già circonfuso di gloria, già
riverberante Risurrezione. Quindi quelli che vengono chiedono pace.
Poi
la conclusione è di una bellezza, ma anche di una drammaticità uniche.
Tu (Cattedrale), se la tempesta
è greve sulla carne e attorce il cuore,
veglia su noi.
E
qui c’è l’umanità - non l’ho conosciuto, ma emerge da questi versi - di
Monsignor Lamberti, la sua e quella della gente che ha incontrato come prete,
che è gente naufraga. Siamo tutti naufraghi di tempeste. “Se la tempesta è
greve sulla carne”: qui c’è sia l’aspetto doloroso, ma anche l’aspetto della
tentazione, cioè la tempesta che sconquassa, che sconvolge, che fa scomparire i
punti di riferimento. Questo è il verbo più bello - “attorce” il cuore - cioè
un cuore pressato e torchiato. Siamo così noi, e la Cattedrale è un porto, è un
porto per questi naufraghi; ce ne sono tanti a Teano e nella nostra Diocesi, ma
purtroppo non sanno attraccare al porto giusto, perché questo attorcigliarsi,
questo torchiarsi del cuore magari cerca altri approdi. Direi a Monsignor
Lamberti, che è in Paradiso: Purtroppo, Don Michele, le tempeste sono le stesse
dei tuoi tempi; cambiano i nomi, ce ne sono di più misteriose che ai tuoi tempi
non avvenivano, via internet, via cavo, ma sono le stesse, solo che le persone
cercano altri approdi. “Veglia su noi, o nostra Cattedrale”.
Andiamo
verso la conclusione. Io spero che, almeno per voi che siete venuti, questa
riflessione, ma anche questo
“largo” nel cuore, che i brani che abbiamo ascoltato ci hanno procurato,
questa sorta di lago in una serata afosa di agosto, questa serata possa avervi
offerto un’affezione ulteriore per la chiesa Cattedrale che oggi compie 54
anni.
G.
Caccini – Ave Maria
L.
Wèly – Bolèro de concert per organo
Si
fa una serenata a una donna, ma la Cattedrale è una donna? La Chiesa è una donna,
madre, vergine, giovane, avanti negli anni. Spero - almeno è stato così per me
- che abbiate goduto di questa Serenata, che entra nelle mura, è entrata nelle
mura, ha svegliato e ha fatto fremere le ossa dei Vescovi nelle urne. Anche a
queste urne fa riferimento Monsignor Lamberti nel “Colloquio con la Cattedrale”
e - non vi sembri presuntuoso, ma non parlo di me, certamente parlo degli
artisti - ha dato un supplemento di grazia. Dopo questa sera, a partire da
domani, quando vi entrerete e anche quelli che non sanno che siamo stati qui a
fare la serenata alla Cattedrale, sentiranno un profumo di incenso, un aroma,
una fragranza, vestiranno una
patina sui marmi, sui capitelli, che prima non c’era; questo valga per ogni
preghiera, in particolare per ogni Eucarestia, che viviamo qui, che va ad
aumentare il potenziale di grazia, che nei secoli passati e poi, per questa
conformazione architettonica, da 54 anni va aumentando qui, in queste navate,
in questa “fuga di braccia materne”, in questo incontro di gente che viene dal
buio e trova la luce, di tempeste che torcono il cuore e trovano approdo.
Vi
ringrazio. Ringraziamo Maria Teresa, ringraziamo Clara della possibilità che ci
hanno dato di poter pregare con l’arte.
L’ultimo
brano, Canto mistico – magari è una
sorpresa per Don Vincenzo e Don Luca – è di Don Salvatore Vitale, il fondatore
della Congregazione della loro famiglia religiosa. Forse molti di voi non sanno
che Don Salvatore, oltre ad essere parroco, era anche compositore e ha lasciato
non poche Messe, inni e composizioni varie, che sono entrate anche nell’uso,
almeno della nostra provincia. Quindi concludiamo con questo brano dal sapore
nostrano, perché composto da chi, a Francolise, è venuto tante volte a
guardare, a visitare, a creare un’opera ancora presente, perché la fede genera
delle opere e dalla Cattedrale partono tanti fiumi di grazia che vanno a
irrigare campi aridi e a portare frutto in tanti luoghi, anche lontani.
S.
Vitale – Canto mistico
***
Il testo, tratto direttamente
dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.