“Teano chiama Barbiana”

DUE GIORNI

SU

Don Lorenzo Milani

A cura

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

~~~

 

“Quando un prete fa storia”

Teano, 21 Gennaio 2009

Auditorium Diocesano

 

   Innanzi tutto vi saluto, vi accolgo, ci accogliamo, visto che questa è casa nostra, non appartiene ad una persona ma alla comunità. Salutiamo Mons. Leonardo che, benché non abbia nulla da imparare, ci dà lezione di umiltà, venendo ad ascoltare; saluto tutti voi per questa due-giorni, due sere, spero stimolante, nella riscoperta di questo personaggio ispido, scomodo, come chi lo conosce già sa, e come gli altri scopriranno nel corso di questo nostro “pellegrinaggio”. È come se volessimo metterci in ascolto di Don Lorenzo Milani, della sua esperienza, ma ovviamente in questa due-sere vogliamo anche cercare degli addentellati: forse che Barbiana sia una esperienza conclusa? C’è una lezione? Adesso pongo una serie di interrogativi che possano stimolare la nostra attenzione: quello che è accaduto in quegli anni a Don Lorenzo e a Barbiana, come luogo geografico e luogo affettivo, luogo umano, ha qualcosa da dire, oggi, a noi, qui?, ha qualcosa da dire alla scuola? Vedo anche diversi insegnanti, che credo siano venuti con la loro professionalità, ma quello che più mi preme è chiedermi e chiederci se ha qualcosa da dire alla Chiesa. Lo ha detto alla Chiesa del suo tempo, negli anni ’50-’60: forse il suo messaggio ha qualcosa da dire anche alla nostra Chiesa di Teano-Calvi. Benché siano cambiate tante cose, siano maturati tanti percorsi, siano cambiate delle prospettive, l’uomo rimane lo stesso, con gli interrogativi che in una maniera radicale, e ripeto, graffiante, Don Milani ha posto.

Ho voluto che ci fosse anche Aldina, qui alla mia sinistra, oltre il Vicario Generale, perché l’Azione Cattolica merita un posto d’onore nella nostra Chiesa e ho pensato di visualizzarvi in questa maniera: non sta qui a fare la “bella statuina”, ma a dire che il Vescovo tiene all’AC e ovviamente il Presidente rappresenta l’intera associazione.

Iniziamo questo nostro cammino che avrà, come sapete, due sere: una un po’ discorsiva e legata alla comunicazione, speriamo non inducente al sonno, del Vescovo e domani sera, invece, c’è un approccio teatrale al personaggio Don Milani, attraverso un monologo che utilizza solo testi “milaniani”: per tre quarti d’ora, l’attore Angelo Maiello terrà banco, come vedrete.  Allora iniziamo, e poiché questa non è una conferenza (non ho la presunzione d’essere in grado di farne una), procediamo su vari livelli, come oggi si ama dire, utilizzando anche qualche scena della realizzazione televisiva su Don Milani che qualche anno fa è stata realizzata. Quindi ci saranno tre spot dal “Don Milani” di Castellitto e poi il Vescovo interloquisce (e speriamo, a un certo punto, anche voi). Buon ascolto.

 

***

Queste immagini che hanno aperto il nostro incontro, come ho già detto all’inizio, fanno parte della riduzione televisiva della vita di Don Milani. Possono aiutarci queste immagini, come le foto che, man mano che parlo, scorreranno. Ovviamente il televisivo ha utilizzato degli attori, invece qui abbiamo le foto autentiche, quelle poche foto in bianco e nero che sono residuo visibile e sensibile della vita e dell’avventura di Don Lorenzo Milani. Lo abbiamo visto arrivare a Barbiana e ovviamente dobbiamo fare un po’ di passi indietro per sapere perché questo sacerdote è stato relegato in una parrocchia inesistente, di quale colpa in qualche maniera si era macchiato o quale passo falso aveva fatto per indurre la Curia di Milano a riaprire per lui (perché è così storicamente) quella che era una parrocchia da anni chiusa e che viene risuscitata ad hoc – adesso utilizzo anch’io delle espressioni  un po’ graffianti, ma solo perché non abbiate ad addormentarvi – per mandare al confino un sacerdote scomodo. Guardiamo per un attimo l’arco della vita di Don Lorenzo Milani: io, per ovvi motivi, devo essere semplice e dare anche le cose essenziali presupponendo che alcuni di voi, per la prima volta, soprattutto i giovani, si imbattano in questa figura; quindi chiedo scusa a coloro che arrivano qui, giustamente, già con un bagaglio culturale, rispetto alla vicenda e rispetto alla letteratura, che la scuola di Barbiana ha originato in seguito e quindi potrebbero ricevere un tantino di fastidio dalle mie semplificazioni; ma poiché voi che siete più esperti, siete maestri e insegnanti, per lo meno apprezzerete lo sforzo didattico.

Facciamo conto che abbiate dimenticato tutto quello che ho detto fino adesso e diamo le coordinate temporali della vita di quest’uomo. 1923-1967: 44 anni di vita. In questo arco di 44 anni si svolge l’avventura umana (innanzi tutto Don Milani è un uomo), ma anche l’avventura del popolo italiano, che in quegli anni, attraversa il periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale ed il periodo della ricostruzione, che interessa, abbraccia e interagisce anche con un tempo della Chiesa. 1923-1967: nato e morto. Di questa lunga fetta - per la verità breve, perché io ho 54 anni e ho già vissuto dieci anni più di lui e forse anche alcuni di voi hanno alle spalle più anni, anche se dobbiamo dire, almeno io, non voi, a confronto con quello che Don Milani ha prodotto, mi sento un pigmeo, nonostante io abbia vissuto di più - di questo arco di anni, dobbiamo tagliare i primi venti. Quindi 1923-1943: sono gli anni che Don Milani definirà del suo “cammino nelle tenebre”. Don Milani appartiene ad una famiglia dell’alta borghesia fiorentina, quindi nasce in un tempo dove i ricchi erano pochi, dove questo bambino, poi ragazzo, poi adolescente, ha la possibilità di tanti agi che gran parte dei suoi coetanei non possono permettersi (è importante questo background familiare e della classe sociale da cui proviene Don Milani). Quindi è un ricco che ha scelto, che sceglierà poi la causa dei poveri. Ma non solo è un ricco. Mi viene sempre da ricordare, parlando della ricchezza della famiglia Milani, che nella Firenze degli anni Venti-Trenta, c’erano poche auto: ben due appartenevano alla famiglia Milani, per dire il reddito alto di questa famiglia. Non solo proviene da una famiglia aristocratica, nel senso dell’alta borghesia, ma anche da una famiglia fondamentalmente agnostica: la madre è di radici ebraiche, il padre è un “lontano” e il Battesimo dei figli viene deciso, come accadeva tante volte in quegli anni, per un’emergenza. Si profilava, in qualche maniera, all’orizzonte, il pericolo della persecuzione per gli ebrei, quindi l’antisemitismo, e molti, anche senza grosse motivazioni, ricorrevano al Battesimo per mettersi sotto l’ombrello della Chiesa e della fede. Quindi è un battezzato, ma è come se non lo fosse. Certamente la Grazia del Battesimo agisce in lui nel 1943 (questa data ricordatevela), vent’anni dopo la nascita, ma ha avuto un lungo periodo di latenza e questo periodo abbraccia un ventennio. Quindi i primi vent’anni della vita di Lorenzo sono stati anni di lontananza.

Come si ha questa conversione? Non c’è un fatto decisivo, eclatante, ma ci sono due scene che vale la pena ricordare. Una è ambientata a Milano, quando il giovane Lorenzo era anche alunno della scuola di Brera: Don Lorenzo Milani è stato, da giovane, anche da un maestro pittore, poi si è iscritto alla scuola di Brera. Contro quanto andrà a fare nella vita (il maestro), è stato un pessimo alunno. Succede a volte così: un pessimo alunno – questo lo dico a conforto degli insegnanti presenti – può diventare domani un grande maestro. Pessimo alunno, lo capite per quali motivi: perché aveva la vita facile e quindi non si dedicava allo studio. È degli anni in cui è a Milano, questa scena di Lorenzo che va bighellonando per le strade dei poveri, anzi non si accorge neanche di essere in un quartiere povero, e sta sbocconcellando un pane bianco (per chi abbia una certa età, pane bianco e pane nero hanno un significato), cioè un pane doc, un pane che era sulla mensa dei ricchi e si sente rimproverare da una madre (evidentemente i suoi figli stavano a guardare questo signorino che mangiava senza voglia questo pane bianchissimo): “Non si mangia il pane dei ricchi nelle strade dei poveri!”. È un flash, non riguarda il cammino di fede, ma dice dell’affacciarsi di Lorenzo rispetto ad una realtà, ad una situazione, che è quella di gran parte della gente, che è la condizione dei poveri. Chi sia nato in una famiglia ricca, benestante, chi ha avuto tutti gli agi - come la regina, nel raccontino (non si sa se storico, ma senz’altro “fiorito”) precedente la Rivoluzione Francese, che vedendo le folle che stavano a fare sciopero perché non avevano pane, dice: “Beh, mangino brioches!” - chi è negli agi, non si rende conto che l’altro può avere un problema di vita o di morte. Questa potrebbe essere la scena di una conversione rispetto al suo stato sociale, rispetto alla classe sociale da cui proviene, da cui ha ricevuto tanti benefici. L’altra scena invece, più inerente il vissuto di fede, riguarda proprio Don Benzi (lo avete visto qui nel televisivo mentre commenta la decisione della Curia di Milano che ha deciso di mandarlo lontano dalla parrocchia dove per dieci anni Don Lorenzo è stato, noi diremmo, vice-parroco, a Calenzano). Don Benzi comincia a stabilire con questo giovane un dialogo. Già qui avremmo tanto da dire e da dirci: non ci sono persone così lontane da non poter essere interlocutrici del Vangelo, anzi con i sacerdoti presenti (che ringrazio per la presenza affettuosa), forse dobbiamo dire che coloro che in questo momento sono lontani, probabilmente possono avere un’attenzione maggiore al Vangelo di quello che le persone, che frequentano normalmente le nostre parrocchie, offrono come attenzione, come coinvolgimento. Don Lorenzo, anzi Lorenzo, è un lontano. Questo sacerdote, Don Benzi, si interessa ai giovani, ne raccoglie alcuni attorno a sé, c’è una sorta di – come dire? -  salotto “cultural-spirituale” e il giovane Lorenzo si avvicina alla fede attraverso quel prete che lo accompagnerà fino alla morte: sarà il suo Padre Spirituale anche nell’arco dei vent’anni del suo presbiterato. E qual è la scena? (Vi ho lasciato con un po’ di suspense fino adesso). È che Lorenzo ha un appuntamento con Don Benzi, ma all’atto in cui si presenta, il sacerdote è un tantino preoccupato, se non sconvolto, perché dice a Lorenzo: “Non ti posso ascoltare. C’è un mio figlio, giovane prete, che è in pericolo di vita”. Allora Lorenzo si accompagna a Don Benzi e, quando arrivano a casa di questo giovane sacerdote, lo trovano già morto. Immaginate questa scena: un giovane che viene dall’agnosticismo, che si sta avvicinando alla fede, accanto al cadavere di un giovane prete. È il contatto con la morte, ma è anche la percezione che questo giovane avrebbe potuto fare del bene che non potrà più fare. Sono finiti i suoi giorni ante diem e nel cuore di Lorenzo nasce un proposito: “Prenderò il suo posto”. Comincia così la storia vocazionale di Lorenzo Milani: da lontano, a credente, a presbitero. Il passaggio è la celebrazione del Sacramento della Confermazione, dove Don Benzi è il suo padrino e da padrino diventerà di più: diventerà Padre Spirituale del seminarista e del presbitero. Questi sono i vent’anni della lontananza, i vent’anni del buio: Lorenzo è stato anche fidanzato, ha vissuto negli agi, è stato superficiale nel suo impegno scolastico. Adesso dà una sterzata alla sua vita, non solo convertendosi, perché è una reale conversione, ma entrando in seminario. Attenti che questo binomio, avvicinamento alla fede da parte di chi sia stato un lontano, con la scelta radicale di una Consacrazione, non è un caso sporadico nella storia. Capite anche perché: chi viene dal buio desidera la luce e desidera diventare a sua volta un faro per gli altri. Potrei fare tante citazioni di vite parallele a questa, dove chi si converte non solo diventa un fervente credente, ma si chiede anche: “Io cosa posso fare per gli altri?”.

Dopo i vent’anni, ci sono i quattro anni di Lorenzo Milani come seminarista. Abbiamo, nel seminario di Firenze, delle testimonianze della vita seminariale di Don Lorenzo, o del futuro Don Lorenzo, che già parlano di una radicalità. Ho chiesto al Cardinale Piovanelli personalmente, che ricordo avesse di questo suo compagno di seminario e di Ordinazione e mi ha risposto: “Già allora, già in seminario, era di una durezza e di una radicalità…!” e mi ha fatto anche un esempio. Il Cardinale Piovanelli dice che allora - non vi scandalizzate, nei seminari ci sono tante norme che poi cambiano -  c’era anche la norma di non varcare la soglia della stanza del compagno e su questo, mi diceva il Cardinale Piovanelli, Lorenzo non ammetteva eccezioni e quindi parlava con i suoi compagni, ricevendoli sulla soglia della sua stanza. Sembrano aneddoti, ma già dicono della radicalità e dell’aspetto decisionale, decisivo, che accompagnerà tanti aspetti della vita di Don Lorenzo Milani.

Vent’anni nelle tenebre, quattro anni di seminario: a ventiquattro anni, Lorenzo Milani è ordinato, insieme col Cardinale Piovanelli (ancora in vita, Vescovo Emerito di Firenze). Si pone il problema di una collocazione pastorale e il Cardinale che lo ha ordinato, Della Costa, al parroco di Calenzano che gli chiede: “Io avrei bisogno di un vice-parroco ma non ho come mantenerlo” (tutto il mondo è paese e i problemi di ieri sono anche i problemi di oggi), dice: “Guarda, ho uno che fa per te: un seminarista, un giovane appena ordinato, amante dei poveri, rigido, austero, che non ti costerà neanche una lira”. Così cominciano dieci anni di vita, insieme con Don Pugi (si chiamava così questo parroco), che sono anche gli anni in cui Don Milani si è sentito appoggiato, perché c’era questo sacerdote anziano, ovviamente di idee diverse dalle sue, ma molto paterno nei suoi confronti. Credo che sia la stagione un po’ più “equilibrata”, rispetto agli estremismi che vedremo in seguito, dovuti probabilmente proprio a questa presenza di Don Pugi. (Ho dimenticato di dirvi che oltre alle foto, sullo schermo, di tanto in tanto, compariranno delle frasi che magari potrete ricordare più di tutte le cento parole che ha utilizzato il vostro Vescovo; ovviamente sono tutte tra virgolette perché sono tutte parole “milaniane”.)

A Calenzano, Don Milani comincia come qualsiasi vice-parroco, utilizzando gli strumenti che si avevano a disposizione allora. Quelli un po’ più avanti negli anni tra voi, ricorderanno (perché sono più o meno i nostri anni, quando eravamo ragazzi) che le parrocchie erano munite di sale-giochi, di ping pong, di flipper (allora c’erano i primi flipper, non so se a questo nome, nella vostra mente, oltre il gelato che poi è venuto dopo, si unisce l’immagine di questo gioco) e quindi anche lui, come i suoi confratelli prende questa strada. Ma poi avviene la conversione nella vita presbiterale di Don Milani, ed è il momento in cui comprende che non può stare – lasciatemi questa espressione – a perder tempo con i pochi che la parrocchia raccoglie, accarezzandoli e organizzando per loro i giochi, ma c’è un problema in Calenzano, che è il problema dei giovani lavoratori, tutti lontani. Adesso i giovani non potranno comprendere, ma noi che abbiamo vissuto quegli anni, ricordiamo anche tempi di grande contrapposizione sul piano ideologico: siamo dopo la grossa vittoria (tra virgolette) della Democrazia Cristiana, c’è il Partito Comunista che freme… La zona della Toscana e dell’Emilia Romagna sono state sempre a forte “componente rossa” e quindi anche con una conflittualità che noi non abbiamo conosciuto, in quelle forme nelle quali si è trovato Don Milani; penso anche a Don Mazzolari e ad altri sacerdoti di quelle regioni. Ovviamente ci troviamo a Calenzano, che è un paese di tremila abitanti allora (oggi ne ha, credo, ventimila), alle porte di Prato. A Prato ci sono le industrie tessili, i giovani vengono assunti (tra virgolette assunti) senza assicurazione e possono essere licenziati in qualsiasi momento. Don Milani si rende conto che per aiutare questa fascia enorme di persone, il ping pong va demolito. Attenti che io non condivido questa cosa, però ve la devo raccontare così: Don Milani, per quell’austerità e per quella radicalità di cui sopra, un giorno, fisicamente, demolisce il ping pong e getta tutto nel pozzo che è al centro del cortile della parrocchia e comincia la sua esperienza, quella che poi durerà quasi vent’anni, di prete-maestro. Ed eccoci al secondo spot.

 

***

Entriamo un po’ più nel vivo di questo prete-maestro. Attenti: la figura di Don Milani ha avuto fasi alterne e quasi mai (spero non in questa sede) si è messo insieme il prete e il maestro: Don Milani rivoluzionario, Don Milani che mette le bombe sotto la scuola, sotto l’esercito (per dire le due istituzioni che, in qualche maniera, in vita ha combattuto), Don Milani in odore di “rosso” e poi anche ovviamente strumentalizzazioni politiche di questa persona… Ciascuno ha cercato di tirarlo dal suo canto. Negli ultimi anni, negli studi – perché c’è una letteratura immensa su quest’uomo e sul suo operato – sta riemergendo l’identità presbiterale di Don Lorenzo Milani. Questa scelta non è di ripiego: visto che mi trovo a Barbiana, che ha ottanta persone (anche noi abbiamo qualche parrocchia qui in Diocesi di cento persone), visto che mi trovo qui e non ho niente da fare, allora mi industrio e metto su una scuola. Non è stato un modo per impiegare il tempo, non è stato tirare fuori una vocazione nascosta - ognuno di noi ha un sogno da qualche parte che poi non si è realizzato: “Sognavo di diventare maestro e dunque adesso ne ho l’opportunità!” -, né tantomeno rendere ancora più acuita la lotta che in quegli anni si viveva: tra la classe operaia, chi aveva il potere, tra i ricchi, tra la borghesia. La vocazione a diventare maestro è scritta nel DNA della vocazione presbiterale di Don Lorenzo Milani, cioè è il prete. Non è un caso che io abbia intitolato questo intervento: “Quando un prete fa storia”.  Di storie ne facciamo tante, ma a volte facciamo anche storia e Don Lorenzo Milani, insieme a tanti altri, ha fatto storia, nel senso che partendo dalla sua vocazione, quindi dalla sua scelta di fede, ha rivoluzionato un luogo che in qualche maniera, per lui doveva essere il luogo della punizione. Non è neanche vero che Don Lorenzo sia stato un disobbediente per quanto abbia scritto. Uno degli slogan più conosciuti è: “L’obbedienza non è più una virtù”, ma è scritto ai cappellani militari e ci arriveremo. Don Lorenzo è stato obbedientissimo, lo avete visto anche nel dialogo con la madre che dice: “Ma tu che ci fai qui relegato con la tua intelligenza?”. Appena arrivato a Barbiana, pochi giorni dopo, appartenendo ad una famiglia dell’alta borghesia, la madre avrebbe trovato i modi per far arrivare indirettamente all’arcivescovo una qualche pressione: “Ma questo figliolo – come dicono i toscani – ha probabilmente bisogno di uno spazio maggiore…”. Lui risponde con quella lettera che avete ascoltato e dice: “La grandezza di un uomo non si misura dal luogo dove ha dimorato, ma da ben altre cose”.

Cosa accade a Barbiana e, prima ancora, a Calenzano? Questo luogo è angusto, problematico e, guardando negli occhi i miei preti, in questo momento, quale parrocchia, Roccaromana, Rocchetta, non è problematica? Io avrei voluto mettere “Rocchetta chiama Barbiana”, ma ho detto: “Si offenderanno”. Allora ho messo Teano – e certamente non si offenderà il sindaco, che ringrazio per la sua presenza – per dire la Diocesi. Non c’è un luogo ideale dove ciascuno di noi possa dire: qui realizzo le mie potenzialità!, questa è una parrocchia fatta per me!, questa è fatta su misura! Quello che dico per noi preti vale anche per voi insegnanti, per voi qualsiasi sia la vostra missione nella vita: non è il luogo, ma è il modo, con cui noi interagiamo e creiamo un circolo, un circuito di idee, a dire della nostra grandezza. Don Lorenzo è stato obbedientissimo, tant’è – ed è bello questo gesto - che all’indomani del suo arrivo a Barbiana, luogo del confino, va a Vicchio - perché Barbiana è una frazioncina insignificante del comune di Vicchio - a comprarsi un posto nel cimitero di Barbiana, a dire: “Voi mi avete collocato qui perché ritenete che io sia un facinoroso? Io decido di starci e di starci fino alla morte”. È importante questo aspetto della fede di Don Lorenzo che, trovandosi adesso in una parrocchietta più piccola di Rio Bo, insignificante, riesce, da quel pulpito, a parlare ancora oggi.

Torniamo alla storia. Eravamo rimasti a Calenzano. A Calenzano, Don Lorenzo inizia una scuola serale e – questo è il tema centrale del nostro incontro – perché una scuola? Perché si rende conto che il problema della civiltà del popolo italiano, da un lato, il problema del Cristianesimo, dall’altro per quanto concerne il cammino della Chiesa, è legato alla comunicazione. Questa è la grande intuizione di Don Milani che adesso, detta così, sembra una banalità, ma è una grossa intuizione. Io posso fare una predica meravigliosa, nel caso sia un prete, o una lezione universitaria, nel caso sia un docente, ma (problema!): i miei alunni, i miei ascoltatori, quello che io dico, lo capiscono? Questo problema vi sembrerà banalissimo ma, ieri come oggi, è il problema di ogni gruppo sociale, sia esso un partito, uno Stato, una Chiesa. Il problema è che il messaggio è valido - e Don Lorenzo ne è convintissimo! -, è valido anche secondo lui il messaggio della Costituzione Italiana: cerca di suscitare in questi ragazzi montanari il senso della sovranità (“La sovranità appartiene al popolo!”…). Ancora oggi, dopo tanti anni, questa sovranità noi non la sentiamo. Evidentemente forse il termine stesso “sovranità” non dice nulla, bisogna tradurlo. L’insistenza sulla scuola ha due finalità: di liberazione sociale, perché questa classe di giovani sfruttati non sa neanche difendersi, non conosce i sindacati, non conosce la facoltà di votare, non sa leggere - questo è un tema su cui Don Milani dibatteva – non sa leggere la prima pagina di un quotidiano, l’articolo di fondo, e dunque c’è un cortocircuito nella comunicazione. Questo cortocircuito bisogna bypassarlo creando un linguaggio comune: questo è il motivo per cui nasce la scuola di Calenzano, e poi quella di Barbiana, ma è anche un motivo spirituale. Probabilmente qualcuno di voi, soprattutto qualche presbitero, avrà detto: “Ma il Vescovo non aveva nessun santo di cui raccontarci ‘le gesta’ che va a tirar fuori questo prete in odore di rivoluzione per darci un input pastorale?”. Al di là, ripeto, del “porcospino” che è Don Lorenzo Milani, che dovunque lo tocchi ti fai male (e fa male anche a me), quest’uomo ha avuto una grande intuizione: l’intuizione è il problema del linguaggio. “È la lingua che fa uguali”, dice lui. Allora mi viene da chiedere: noi, nelle nostre parrocchie, parliamo una lingua comune? Il prete che predica e l’assemblea che ascolta hanno la stessa lingua? E voi che insegnate, che siete docenti, parlate una lingua, ma i vostri alunni vi intendono? Noi conosciamo la lingua dei nostri ragazzi? Tra l’altro – e ciò riemerge di tanto in tanto nella storia, anche per queste assonanze – oggi si parla di un analfabetismo di ritorno: quelli erano i tempi dell’alfabetizzazione, del maestro Manzi – ve lo ricordate? – che faceva i disegnini… Adesso ci sembra che quel tempo sia del tutto superato, che le persone parlino, che capiscano, che intendano. Se andate per un attimo ad affacciarvi sui messaggi dei vostri figli o dei vostri adolescenti, voi sacerdoti, scoprirete un’altra lingua, non solo per la contrazione (perché questi messaggi, al posto di “più” hanno il segno più, è un linguaggio contratto il più possibile): stiamo tornando ad una situazione di analfabetismo e poi, su un altro piano, di analfabetismo affettivo. Avete visto prima “Il problema della scuola è più un problema di educazione che di istruzione”. Ciò è ancora vero e questa frase la possiamo prendere come proclama e come tema di un piano pastorale. Che significa che “Il problema della scuola è più un problema di educazione che di istruzione”? Significa che la scuola da un lato, allora come oggi, e la Chiesa dall’altro, allora come oggi, insiste su “Lo sai questo? Sai rispondere?”. Allora c’era il catechismo di Pio X, adesso si tratta di altre cose. Conosci queste cose? Allora puoi far la Cresima, puoi essere… Ma l’istruzione non è l’educazione. L’educazione è un fatto del cuore e l’educazione richiede una relazione. In questo, Don Milani è stato un antesignano, perché? Adesso cerco di contrarre anche il mio discorso, che altrimenti andrebbe troppo per le lunghe. Perché con questi ragazzi ha cominciato a fare il maestro, ma poi più volte, lo dice nell’epistolario, si è legato a loro. Subito il pensiero va al testamento, scritto su dei bigliettini quando era a letto, nelle ultime ore prima di morire, dove scrive: “Ho voluto più bene a voi che a Dio”, un’espressione che sembra blasfema, ma che è di una luminosità enorme. Cosa significa “Ho voluto più bene a voi che a Dio”? Sempre in un altro di questi fogliettini, prima dice: “Io non ho debiti con voi, ho solo crediti”. Poi dopo si ricrede e dice: “Non è vero, io ho anche debiti con voi”. In qualche maniera, vuole dire che questi ragazzi lo hanno anche aiutato, cioè è nata una relazione a tal punto che – domani sera ascolteremo da “Esperienze pastorali”, nel lungo monologo di Angelo, questo problema di Mauro che è stato licenziato in tronco dall’industria tessile ed è l’unico sostegno di famiglia – questa passione che Don Lorenzo mette, andando a parlare col datore di lavoro per dire che non è giusto, nel cercare di smuovere i sindacati, per quel poco che all’epoca potevano contare, non è solo un fatto di “azione rivoluzionaria”, o di “rivendicazione”, no: è un fatto affettivo. Questo è importante che lo comprendiamo, altrimenti non passa niente. Questo sento di dirlo con passione ai miei preti: non passa niente! Voi potete essere anche professori universitari, andare a tenere una lezione nella più prestigiosa Università Teologica del mondo, ma all’atto in cui voi parlate ai vostri ragazzi, ai bambini della Prima Comunione, agli anziani del primo venerdì del mese, passa il messaggio nella misura in cui c’è relazione. Questa è la differenza tra istruzione ed educazione. Pensate per esempio all’istruzione sessuale che c’è oggi: enorme! Ma non è l’educazione. I nostri ragazzi e le nostre ragazze potrebbero tenere lezioni accademiche a noi d’altri tempi, facendoci arrossire, istruendoci su tutte le combinazioni possibili. Quindi sono “istruitissimi”, ma non per questo sono educati. “L’educazione è cosa del cuore” (San Giovanni Bosco). L’educazione è sì il passaggio di notizie, ma attraverso un rapporto. Questa espressione che adesso è comparsa “La mano che muove la culla muove il mondo” è un proverbio spagnolo che Don Milani assume in una catechesi alle mamme di Calenzano; le ha raccolte tutte per dire: “Voi siete importanti! Non state lì soltanto – allora non c’erano gli omogeneizzati – a imboccare i vostri figli!”. Io ho una fobia dei cucchiai, per esempio, forse per le mamme che, quando eravamo bambini, stavano sempre con un cucchiaio che dava l’impressione che mi dovesse smembrare la bocca. Il compito di muovere la culla, è muovere il mondo (“La mano che muove la culla, muove il mondo”), ma questa mano che muove la culla, non è una mano automatica (adesso ci sono le culle elettriche: digito sul telefonino e si muove la culla a casa mia e mio figlio si addormenta). A voi sembra che sia la stessa cosa del… “cunnuliare” (era il verbo napoletano del “muovere la culla”), ma questa mano che muove la culla, muove il mondo nel senso che c’è una relazione affettiva che il bambino sente e così passa il messaggio. Senza questa relazione, siamo nel deserto.

Vado verso la conclusione. Don Lorenzo Milani ha avuto queste grandi intuizioni e le ha vissute. Attenti, le ha vissute anche, non solo facendo scuola, ma facendo scuola in una maniera che a noi sembra da aborrire, tipo: niente ricreazione - noi che aspettavamo il “sollievo”, come amavano dire le suore -, poi dodici ore di seguito! Se oggi ci fosse un Don Milani così, immediatamente il Telefono Azzurro verrebbe a prelevarlo e ad ammanettarlo, perché sta a creare delle turbe nella mente dei ragazzi, ma – adesso lo cito – uno dei ragazzi di Don Milani, quando dicono “Ma tu stai dodici ore qui: non ti ribelli?”, dice: “Meglio dodici ore a scuola qui, che dodici ore a spalare la merda”. È subito detto, a dire “dove stavo” e “dove sto”. Quindi una scuola continua, una scuola a trecentosessantacinque giorni, anche a Natale!, anche a Pasqua! Non c’è vacanza nella scuola di Barbiana dove poi approda Don Milani, dopo i primi dieci anni di Calenzano. Ma quello che è più importante - e qui raccogliamola, almeno noi preti, questa sollecitazione - alcuni di questi ragazzi vivono nella canonica, vivono con lui. Non solo, ma i testi hanno avuto delle sofferenze immani: “Esperienze pastorali” bocciata da Civiltà Cattolica e poi ritirata dal commercio con intimazione di non pubblicarsi più, perché era un testo che poteva sconvolgere gli equilibri; gli altri due testi che rimangono, “Lettera ai cappellani militari” e “Lettera ad una professoressa”, sono testi di “insieme”. Oggi si farebbe grande fatica a scrivere un libro insieme. Lo si fa con “copia e incolla”, ma è un’altra cosa. È diverso “copia e incolla” dal fare un libro dicendo cosa pensa Michele, cosa pensa Francuccio… poi mettiamo i pensieri… tu come diresti questa cosa?… E anche i libri nascono insieme. Ma quello che ci tengo a dirvi è che questi ragazzi, a Barbiana, sono cresciuti insieme al loro maestro, insieme al loro parroco. Questo fatto anche di dover dormire lì per motivi oggettivi, perché alcuni facevano un’ora e tre quarti per arrivare alla scuola (la parrocchia di Barbiana ha dei casolari sparsi sul Monte Giovi, quindi bisogna camminare ore ed ore), vuoi per questo, vuoi per una scelta educativa, questi ragazzi, poi diventati giovani, vivono insieme con il loro prete. Adesso non so, poi lo diremo alla fine, o domani, se questo può trovare una qualche esplicitazione, ma voglio dire: la lezione che comincia e finisce dopo mezz’ora, lascia il tempo che trova, come tutte le istruzioni. L’educazione chiede che Don Luigi - faccio un esempio, perché ha la canonica più capiente della Diocesi - ad tempus, ovviamente per una settimana, decida di ospitare dieci, quindici giovani, che stanno lì, dicono le Lodi con lui, pranzano, cenano, fanno colazione, istruzione... Questo stare insieme crea l’atmosfera dell’educazione, altrimenti finiamo sempre nella secca dell’istruzione. “È solo la lingua che fa uguali”. Allora “Esperienze pastorali” ha avuto l’esito che vi ho detto. “Lettera ad una professoressa”, avete visto la scena, nasce alla fine degli anni di Don Milani in questo mondo, è stata pubblicata un mese prima della sua morte: è la reazione del prete che vede i suoi ragazzi della scuola, si diceva allora dell’avviamento, l’attuale scuola media, bocciati quando si presentano alla scuola pubblica, perché non possono frequentare a Vicchio, perché non hanno i mezzi di trasporto per andarci; fanno lezione da Don Lorenzo e poi a fine anno vanno a fare gli esami per essere ammessi e per vedere riconosciuto il loro iter. Ovviamente abbiamo programmi diversi, Don Lorenzo dice “I miei ragazzi sanno di più” ed era vero, perché erano stati per un anno intero, dodici ore al giorno, a cercare, ad ascoltare musica, magari anche a fare dei viaggi, a guardare il problema a 360 gradi, ma la signora giustamente dice che vuole sapere chi è il padre di Minerva, sennò non si va avanti: “Io devo essere ligia ai miei programmi”. Questo genera “Lettera ad una professoressa”, che in qualche maniera è un’accusa alla scuola che lascia qualcuno dietro, e più di qualcuno. Una scuola che penalizza anche una sola persona e la mette ai margini, non la cerca più, una parrocchia che penalizza una sola persona, la mette ai margini e non la cerca più, non è degna di questo nome. Questa è l’anima di “Lettera ad una professoressa”. Uno o due anni prima era stata pubblicata “Lettera ai cappellani militari”, che nasce dalla lettura comunitaria del giornale. Quindi il ragazzo legge che i cappellani della Toscana si sono riuniti e hanno affermato che l’obiezione di coscienza, che tiene tredici giovani nel carcere di Gaeta, è un atto di viltà e un attentato allo stato. Questa è la notizia: tutti l’hanno letta, nessuno l’ha commentata. A Barbiana si commenta: ma è vero questo fatto?, forse non bisogna difendere l’obiezione?, forse questi tredici sono veramente persone che attentano allo Stato o – dice Don Milani nella lettera ai giudici per difendersi – mettono in pratica l’articolo 11 (se ricordo bene, posso sbagliarmi) della Costituzione che dice “Lo Stato Italiano rifiuta la guerra”? Allora comincia un’altra diatriba di quest’uomo che dovunque mette mano, fa polemica. Per questo io mi sento lontanissimo caratterialmente, da Don Lorenzo - se mi avete conosciuto in questi due anni e mezzo, sono di tutt’altra pasta – però non posso non leggere, in questo “tenzone” continuo di Don Lorenzo, un valore che va a mettere il pungolo laddove c’è il problema. Per questa lettera, che la scuola di Barbiana coralmente scrive, in risposta all’articolo, Don Lorenzo Milani è citato in tribunale per apologia di reato. Viene assolto in prima istanza, ma poi il Pubblico Ministero fa ricorso e viene condannato, per fortuna, quando è già morto - ma viene condannato! - e quindi il suo intervento, e quello che lui insegna, viene ritenuto all’epoca, siamo nel 1967, un attentato allo Stato. Don Lorenzo muore - chiudiamo con le immagini della morte e dopo vi do la parola - muore di cancro a 44 anni, muore avendo raccolto poco. Ovviamente, oggi, i ragazzi di Barbiana sono delle persone affermate (io ne ho incontrate anche alcune), hanno svolto un ruolo. Questa provocazione nata in quegli anni, in una parrocchia insignificante, fa ancora scuola, genera congressi, interessa persone, fa scrivere libri in Italia e all’estero. Chiude da fallito fondamentalmente, come d’altra parte tutti coloro che si mettono alla sequela del Cristo Crocifisso. Perché muore da fallito? Perché ovviamente si rende conto che la scuola finirà con lui. Ho letto con i miei occhi nel cimitero di Barbiana, dove sono stato tanti anni fa, in questi luoghi dove si può scrivere qualsiasi cosa, una di queste frasi – anche questa è condivisibile - di uno dei visitatori che dice: “Don Lorenzo, con te è morta la scuola italiana”. Per fortuna è ancora viva, anche se, di riforma in riforma, non sappiamo dove approderemo: due maestri, tre maestri, poi torniamo indietro, poi uno, poi tre… Non stiamo qui a parlare della scuola, ma della Chiesa che ha gli stessi problemi. Muore da fallito, perché muore a casa sua e la sua casa comunque è la casa di un ricco. Infatti l’ultima espressione che dice a Michele è: “Stai assistendo ad un miracolo e il miracolo è che un cammello sta passando per la cruna di un ago” nel senso che comunque resto un ricco, muoio a casa di mia madre, ma questo è un miracolo, perché il ricco è salvato. Da questo fallimento, nascono tutte le provocazioni: alcune ve le ho dette, altre le ho saltate ovviamente per motivi di “spazio”, perché mi sono fatto prendere dalla foga del parlare… Da questa morte nasce una vita e nasce anche il nostro essere qui stasera. Guardiamoci queste ultime scene: questa è la piscina (anche questa ho visto), sarà cinque metri per due al massimo, fatta perché i montanari non sanno nuotare e dunque devono prendere contatto con l’acqua. Vediamo queste ultime scene e poi, se c’è possibilità di dirci qualcosa, di interloquire brevemente, lo facciamo.

 

***

Potremmo tentare, sia pure per qualche minuto soltanto, un primo mini-dibattito. Perché mai il Vescovo ci ha voluto raccogliere intorno a questa figura? Quanto Teano debba chiamare Barbiana? Quanto Barbiana di ieri ci sia anche oggi qui? Quanto io possa essere un Don Lorenzo? Io, intendo io parroco di Roccaromana, io parroco di – non so, penso a qualche parrocchietta piccolissima – Orchi mi viene in mente in questo momento. Devo dirvi che io prego, perché ci sia qualche Don Milani. Mons. Leonardo starà pensando: “Eh! Poi vedrai! Non ti conviene fare questa preghiera, perché poi ti darà filo da torcere!”. I rapporti sono stati molto tesi, ma anche molto belli. Tra l’altro, alla fine, sul letto d’ospedale credo, arriva una lettera dell’arcivescovo: c’è una sorta di pacificazione esterna, perché quella interiore c’era già. Lui è rimasto lì nell’obbedienza del Vescovo. A proposito di questo legame con la Chiesa - scusate se approfitto - Don Lorenzo diceva: “Io non lascio la Chiesa”. Tante persone sottoposte magari a vessazioni o che possono aver subito ingiustizie, a volte hanno anche sbattuto la porta e sono andate via. Don Lorenzo no e diceva anche perché: “Io non lascio la Chiesa, perché ho bisogno di confessarmi”. È molto bella questa testimonianza di fede, a dire: anche se non sono stato capito - attenti che questo riguarda la politica ecclesiastica, non riguarda la Chiesa nel suo Mistero – io resto nella Chiesa, resto prete e questo che sto facendo lo faccio da prete, perché io a mia volta ho bisogno della Chiesa Madre che porti il mio corpo al cimitero, che preghi per me, che mi assolva, “perché ho bisogno di confessarmi”. Adesso chiudo, altrimenti parlerò per altre ore. Vi viene qualche sollecitazione? Qui ci sono due mondi: quello ecclesiale e quello scolastico. Su quello scolastico ho fatto qualche puntata, ma non è mia competenza. Se volete dir qualcosa, mettiamo in moto le idee per domani sera.

 

***

 (…) Oggi che la Chiesa si chiede con molta forza di capire l’uomo nuovo (…). È forse il momento di un’ulteriore provocazione mediante questa figura?

 

Certamente nel mio cuore c’è questo sogno, ve lo dico con molta semplicità, che da questa due-sere non ci si limiti a “Il Vescovo ha avuto la stramba idea, come suo solito, di tirare fuori Don Milani” e poi chiudiamo qui. Il mio sogno, Peppe, e lo dico a tutti, è che tra oggi e domani, non dico così come una formula, nasca un “novum”. Attenti che non deve nascere niente di nuovo, perché è tutto già scritto rispetto alla Verità, ma un “novum”, rispetto alla pastoralità, sì. Peppe faceva riferimento anche ai suoi trascorsi politici. Tra l’altro, vedete, quei tempi - Mons. Leonardo è stato anche un protagonista di quelle battaglie - erano di gran lunga migliori di questi, perché c’era un pensiero, c’erano delle idee che si contrapponevano, c’era una dialettica. Adesso c’è il trasformismo, per dirla col buon Giolitti, ma il trasformismo giolittiano è niente rispetto a certi trasformismi che vediamo: oggi è bianco, domani è nero, no? Allora è il caso di tornare a pensare. Poi, rispetto a questo fatto di Don Milani battezzato e tirato dalla sinistra di allora, c’è una lettera molto bella a Pipetta, spero la ricordiate. Pipetta è un giovane di Calenzano, un agit-prop del PC. Dice: “Pipetta, ricordati: adesso stiamo insieme perché io devo stare dalla parte dei poveri. Ma il giorno in cui noi varcheremo i cancelli di una casa nobile e tu entrerai, io ti tradirò, perché, adesso stiamo insieme, perché c’è un comune denominatore del mio ‘essere con i poveri’, ma quando tu non sarai più povero, ma avrai il potere, io ti tradirò perché sarò coscienza critica anche allora”. Questo è un sensus Ecclesiae molto bello: la Chiesa rispetto ad ogni programma, ad ogni progetto politico concreto, si fa sempre rivoluzionaria, se è fedele a se stessa. Per questo la Chiesa non può identificarsi con nessun ordinamento politico, perché all’atto in cui si identificasse perderebbe questa dimensione sovversiva. È bello: adesso sto con te e quindi stiamo insieme perché tu sei il povero, perché tu abiti nella stamberga; ma quando tu starai lì, io ti tradirò e andrò a pregare nella tua capanna, nella tua abitazione povera, il mio Dio crocifisso.

Allora forse è il caso di chiudere, a meno che non ci sia qualcuno che voglia attizzare un po’ di fuoco, ma immagino che tra poco dovremo chiamare i pompieri, per tutto quello che ho già attizzato da me, e andranno in azione anche i sensori dell’antincendio dell’auditorium. Prego…

 

Non si sappia in giro che qui si fanno queste cose (…) Le faccio una domanda solamente: “Maestro è colui che non ha nessun interesse quando è solo”, perché “quando è solo”? 

 

Perché il maestro è tale quando ha gli alunni. Quando il sapere diventa conventicola e quindi io so, e mi impettisco per quello che so, e sono solo, non sono più maestro, perché il maestro ha sempre degli alunni, il maestro nasce nel rapporto con la scolaresca, per dirla con un termine oggi non più in voga, nasce nella relazione. Quindi non un sapere chiuso e quindi “Ce l’ho e guai a chi me lo tocca” (perché diventa anche un elemento per tenere nell’ignoranza il resto) ma un sapere condiviso.

 

***

Benedizione del Vescovo

 

Buona serata. A domani sera.      

***

 

 

 

Presentazione

dello spettacolo teatrale

 “A Don Lorenzo Milani”

con l’attore

Angelo Maiello

Teano, 22 Gennaio 2009

Auditorium Diocesano

 

 

   Ci sono due modi per comunicare: c’è il modo discorsivo, che è sempre più difficile ma un po’ pedante, quello che ha utilizzato il Vescovo ieri sera (anche se i linguaggi di ieri erano su vari livelli), e poi c’è questo modo di comunicare, il teatro, che ha il suo fascino, ha la sua presa diretta, non ha bisogno di spiegazioni. Se di qualche spiegazione c’era bisogno, sono bastate quelle di ieri, per cui questa sera, con la perizia, la competenza, di Angelo Maiello, noi accediamo direttamente al personaggio, non in una ricostruzione, ma attraverso i testi. Questo spettacolo, che ha girato l’Italia, che è stato anche a Barbiana, in un prestigioso convegno a Firenze a Palazzo Pitti, è null’altro - ovviamente dire “null’altro” non vuole ridurlo - che un’imbastitura di testi di Don Milani presi da “Esperienze pastorali”, dall’epistolario, da “Lettera ad una professoressa”, da “Lettera ai cappellani militari”. Quindi dalla letteratura di Don Milani è stato tirato fuori questo spettacolo a tuttotondo sul personaggio. Innanzi tutto ringraziamo Angelo, che ha avuto quest’idea anni fa e ha messo su questo tracciato. Angelo Maiello fa l’attore, diciamo, non di professione: è baccalaureato e licenziato in Teologia a Posillipo, ma è sposato felicemente con due bambini (se ricordo bene), è laureato in Filosofia, è insegnante di Religione al “Pontano”. Questa è la sua missione ufficiale e poi ha la passione del teatro, che coltiva come un hobby, nel senso più alto del termine.

Lo spettacolo dura un’ora, senza applausi, se non alla fine. Immergiamoci in Don Milani, dopo la presentazione pedante del Vescovo, nell’accattivante realizzazione teatrale con l’attore Angelo Maiello. Lo ringraziamo con un applauso ora.

 

***

 

Intervento conclusivo

 

   A mo’ di conclusione, già ho detto prima dello spettacolo, che non c’è una virgola in questo testo che non abbia la firma di Don Lorenzo Milani. Probabilmente, durante lo spettacolo, soprattutto ascoltando la storia di Mauro, a cui è dedicato un largo spazio in “Esperienze pastorali”, vi sarete chiesti: ma veramente questo prete era così agguerrito, così aggressivo, diciamo, santamente aggressivo? Veramente si è messo a contare quanti colpi di telaio dia al giorno, con tutti quei calcoli…? Don Milani ha fatto questo. È un messaggio per noi, per tutti: per noi preti qui presenti, ma anche per gli insegnanti, per chiunque abbia a cuore l’uomo. E il messaggio è questo: l’uomo non va suddiviso. Non ci sono competenze sull’uomo: io mi occupo dell’anima, tu ti occupi della scuola, lui fa il medico e si occupa della salute, l’altro lo guida in palestra e si occupa della prestanza fisica… L’uomo non è divisibile. L’uomo, quando c’è, è un mistero e bisogna accompagnarlo, conoscerlo e imparare da lui nella sua interezza. Questo mi sembra, oltre quello che ho detto ieri sera, una grande lezione, poiché a noi l’uomo interessa, e ci interessa su due livelli. Ci interessa perché siamo uomini e non possiamo disinteressarci di quello che siamo e di quello che gli altri vivono, ma ancora di più ci interessa come credenti, perché la Chiesa, ha detto il Concilio, “fa proprie le ansie e le gioie degli uomini”. Ebbene, al tempo di Don Milani, quelle erano le ansie dell’uomo. Vi sarete accorti dalle battute che poi i tempi non sono così cambiati, che le ingiustizie non sono abolite, che non ci troviamo in un tempo dove i problemi della giustizia, del lavoro siano risolti, però è bene raccogliere questo messaggio: io ho a cuore te totalmente, la tua salute, la tua prestanza fisica... Per esempio, da quando conosco Angelo ha messo su qualche chilo, allora dovrei preoccuparmi anche del fatto che Angelo è un tantino ingrassato. L’ho notato subito all’inizio, quando si è aperto il sipario. Ma un prete deve interessarsi anche della forma fisica di un suo parrocchiano? Probabilmente starete pensando, che a questo punto finiamo nella follia e nella pazzia nel giro di trenta secondi. È un discorso un po’ paradossale, ma che dice che l’uomo non va frazionato; il credente è anche il cittadino, il cittadino è anche il credente, l’anima si manifesta attraverso il corpo, il corpo è un Sacramento, e potrei continuare a lungo per raccogliere questa lezione di un uomo che ha avuto a cuore l’uomo: è il discorso del Vangelo nell’evento dell’Incarnazione.

Voglio concludere anche dicendo: dopo questa suggestione teatrale, ce ne torniamo a casa, ma finisce qui? Potremmo chiudere qui, il Vescovo d’altra parte ha fatto il suo, ha creato un’opportunità, ha messo insieme delle persone, ha lanciato dei messaggi, spero abbia perlomeno fatto venire, a chi non conosceva in precedenza Don Milani, il desiderio di leggere qualche testo: già questa è un’opera non di secondaria importanza. Ma questa due-sere deve avere un seguito, io non so quale, nel farci generare qualcosa, nel mettere in circuito delle idee nuove o nel riprendere vecchi sogni che avevamo del tutto accantonati. Ma c’è anche un segno, che io voglio consegnarvi stasera, per la nostra Chiesa locale. Questo segno è il Centro Giovanile, che nei prossimi mesi si aprirà a Calvi, diciamo in primavera (per non dare una data: magari il Vescovo si impegna, poi i lavori…, poi l’organizzazione…, non riusciamo…). Un dono - non è un dono mio, ma è il dono che ci viene fatto a conclusione di questa due-sere - è dire: se io debbo avere a cuore quaranta ragazzi o dieci (Don Milani dice “Non si possono amare tutti”, ed è vero, nel senso che poi la relazione è con un numero ristretto di persone), se questa è la nostra missione, se dobbiamo tornare a educare e raccogliere la sfida dell’educazione che la Chiesa oggi sta riprendendo, come sfida umana e cristiana, il Vescovo vi annuncia che, per le tre parrocchie di Calvi, è già in accelerazione l’apertura di un Centro Giovanile. Direte: è poco. Non è poco per le nostre forze, non è poco per la nostra Chiesa. Ovviamente quella è un’esperienza che io mi impegnerò anche a monitorare personalmente, almeno sulle prime. Don Enzo ne sarà in qualche maniera, più quotidianamente responsabile. Quell’esperienza vuole essere un po’ una provocazione per il resto, cioè: è possibile che quello che andiamo a realizzare a Calvi, possa sorgere anche a Pignataro, a Vairano, a Teano, a Pietramelara?, per dire i centri più grossi (spero di non aver offeso nessuno, perché quando si manca qualche nome, immediatamente si viene fucilati). Io credo di sì. Questa cosa sta per partire, non sto dicendo: “Forse tra tre o quattro anni, dieci anni…”. No. Ci siamo impegnati che per l’inizio della primavera noi apriremo questo Centro. Ovviamente non lo apriremo con la fanfara, perché non è il caso, ma vuole essere un “luogo”. Ieri sera abbiamo fatto una piccola giunta con Vitaliano che mi chiedeva: ma poi alla fine cosa bisogna fare con questi ragazzi, con questi giovani che si incontrano chattando su altri siti? Creiamo anche noi uno spazio, non uno spazio virtuale: di quelli ce ne sono già tanti. Magari sarà anche opportuno, ma non sono un Vescovo che aprirà un suo sito, state tranquilli… (“Ci vediamo nel gruppo di amici…” come dice il termine tecnico. No). Creiamo uno spazio umano dove poter crescere, dove poter dibattere, dove creare un minimo di confronto. Se dicessi “Scuola di Barbiana” quelli di Calvi subito si alzano, insorgono e dicono: “Noi non siamo Barbiana!”. Lo siamo un po’ tutti, ci sono tante Barbiana dovunque, a Nord, a Sud, ad Est, ad Ovest. L’esperienza di Calvi vorrà essere anche un piccolo segno, conseguenza di queste due-sere. Forse è poco, ma credo che dobbiamo procedere a piccoli passi, ma anche ponendo qualche pietra miliare. Non so se questa sarà proprio miliare, ma certamente sarà una pietra, perché già c’è il Centro, bisogna solo arredarlo e ci stiamo occupando di questo negli ultimi giorni. Don Enzo, che ieri sera è arrivato col mantello, questa sera è il priore di Barbiana, sarà per ora il nostro Don Milani. Speriamo che ne sorgano altri e che tra un po’ di tempo si possa dire: “Ti ricordi quella due-sere che sembrava campata per aria, dove il Vescovo aveva messo tanta dinamite inutile sul palco dell’auditorium? Ha prodotto questi frutti”. Io ve li auguro e me li auguro, visto che la Chiesa non è mia proprietà, ma la condividiamo, oltre che riceverla come un dono.

Diciamo insieme,  tenendoci per mano

 

Padre nostro…

 

Benedizione del Vescovo

 

Buona Barbiana!     

 

***

 

Il testo, frutto di registrazione, non è stato rivisto dall’autore.