UN PAESE INNOCENTE

catechesi mistagogica

di monsignor Arturo Aiello, Vescovo di Teano-Calvi

 

 

Resto a guardare ad occhi chiusi. “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Guardo e sono guardato. Come in una donna incinta i sensi sono potenziati, lanciati oltre le loro possibilità, e al tempo stesso placati. Saziati. Ora che anche l’ultimo della fila torna a posto con suo Tesoro nascosto nel cuore e il celebrante ripone nella custodia le ostie consacrate, si va smorzando il canto di comunione e scende il silenzio a fare da orizzonte alla preghiera di ciascuno. A volte l’organista con un flauto camino o un oboe crea come un’aria sospesa che non rompe, ma sottolinea il silenzio e allarga il cuore alla riconoscenza. Ringraziamento. È il termine con cui da bambini siamo stati educati a riconoscere la preziosità di questo momento dove chiedevamo in prestito ai santi le parole che noi non sapevamo dire come ci si appropria dei versi dei poeti quando, con la persona amata, si tenta di esprimere il sublime dell’amore.

 

“Anima di Gesù, santificatemi! Corpo di Gesù, salvatemi! Sangue di Gesù, inebriatemi! Acqua del costato di Gesù, lavatemi!”. Non sapevo di Sant’Ignazio di Lodola né degli esercizi spirituali scritti nel 1500, quando imparai a memoria, come tanti, questa preghiera cinquant’anni fa. Eppure da allora mi sale dal cuore puntuale e si apre luminosa come una ninfea sulla superficie del lago tranquillo dell’anima dopo la Comunione. Forse rimane solo ciò che avremo imparato a memoria e ripetuto infinite volte, mentre dall’ira mnemonoclasta che ha imperversato nelle aule di catechismo negli ultimi quarant’anni temo che non resterà nulla, tabula rasa, lo schermo resettato, squallidamente bianco e assordantemente silenzioso. Un palinsesto polverizzato. Sul momento – lo confesso . provavo da bambino un senso di fastidio per quelle parole sussurrate all’orecchio da catechiste e suore dopo la Comunione come una cantilena infinita di atteggiamenti incomprensibili, ma poi ho gioito trovandole scolpite sulle pareti del cuore per dire a Gesù ciò che conta veramente una volta passata la tempesta delle emozioni superficiali. La preghiera suggerita da Sant’Ignazio sembra settorializzare la Persona di Gesù evidenziando l’Anima, il Corpo, il Sangue, l’Acqua sgorgata dal costato trafitto, le Piaghe, ma, a pensarci, è un richiamo alla concretezza di Colui che mi inibita e col quale posso parlare come un amico all’Amico. La separazione di Corpo e Sangue esprime, tra le righe, la fede nella dimensione sacrificale dell’Eucaristia dove i due elementi restano distinti per sottolineare la morte del Redentore cui ho partecipato pur già nella luce della Risurrezione. Colui che ho ricevuto è in me come persona e mi parla, mi chiama, mi ama, mi salva dall’alto della Croce o sulla sommità del monte degli Ulivi dove raduna la Chiesa per un  addio che è partire senza partire.

 

“Anima di Gesù, santificatemi!”. Due anima si guardano e si toccano nel mistero dell’amore. “Siate santi perché io, il Signore, sono santo”. Lo sfiorarsi delle nostre anime è un travaso di santità. L’anima mia, ritrovata la sua verginità, vola leggera “sui monti degli aromi”, apre a dismisura le ali del desiderio e non piange più con le note del Salmo 54:

“Chi mi darà ali di colomba per volare?”. Mi sento lontano mille miglia e al sicuro da ciò che è volgare e che pure nelle notti dello spirito sembra attrarre l’anima mia. La sua anima santifica la mia per contatto. Per contagio. Per attrazione ascensionale. Più salgo più sono leggero e guardo da un’ottica nuova ciò che ferialmente mi ferisce, mi attrae, mi zavorra. L’essere santificati mi pone nella luce e quindi nell’evidenza: “non può restare una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio”. Non potrò restare nascosto, ora ne godo, e so che tutti a tavola tra un’ora non potranno non notare la luce dei miei occhi. Non mi velerò come Mosè di ritorno dalla Tenda del convegno, ma, con la tua grazia, Gesù, voglio trasformare in luce tutto quello che toccherò. Non ho una mia santità da vantare: “Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere?”. Mi vesto del la Tua Santità e la povera Cenerentola diventerà la più bella della festa e fuori la sua cucina fuligginosa l’aspetta una carrozza dorata che la condurrà a corte.

 

“Corpo di Gesù, salvatemi!”. So cosa significhi il terrore di un incubo che non è nel sogno, ma nella realtà. Ero all’Aquila quella terribile notte. I miei genitori mi pensavano sola nella mia camera di studentessa di fisioterapia e mi avevano consolato per telefono come facevano ogni sera perché la lontananza e la solitudine sono pesanti per una ragazza di vent’anni. Mentivo loro. Paradossalmente mi ha salvato il ragazzo che era con me. Al terremoto dei sismografi se n’è aggiunto un altro nel cuore dei miei genitori che hanno scoperto che la figlia non era più da tempo la bambina che essi pensavano. Un terremoto nel terremoto. Mi ha salvato il ragazzo che mi stava perdendo. Confusione. Quando tutto vacilla – forse sarà così la morte? – mi aggrappo a Te, Gesù, al tuo Corpo donato che mi salva e mi mette al sicuro. Vengo tremante come l’Emorroissa e tento di toccarti per essere guarita dagli incubi del terremoto, dalle crepe della mia coscienza accomodante, dal maremoto che n’è seguito a casa, da una vita che sembrava alla deriva ed è stata scossa. Ho deciso di cambiare. Sono tornata furtiva alla messa domenicale, ma mi sento una sopravvissuta. Naufraga. Sono Tu mi puoi salvare. Da me.

 

“Sangue di Gesù, inebriatemi!”. C’è lo sballo del sabato sera che produce amarezza e a colte procura la morte. Anch’io ho fatto parte dell’allegra brigata in cerca dell’ultimo divieto da abbattere, sabato sera era un buco nero di musiche psichedeliche e luci assordanti sempre sul crinale di una crisi epilettica sulla pista da ballo che cominciava a roteare. Alcol e anfetamine, corpi leggeri e illusioni vecchie quanto Icaro, poi corse nella notte con le auto a fari spenti o contro senso per sentire il brivido della morte. Mi salvai io solo da una carneficina di lamiere e corpi di cui non ricordavo neppure i nome. È strano svegliarsi da solo in un cimitero mentre albeggia sul suono lontano di una campana che chiama alla recita dell’Angelus in una fredda mattina d’inverno. Domenica. Mi sembrò la campana nella notte dell’Innominato. Da allora sono cambiato e ho cominciato a gustare il dolce sballo della Messa. Senza effetti collaterali. Ora qui, rannicchiato sulle scale di un altare laterale, ringrazio Gesù per avermi salvatore e condotto ad una vita nuova. No, non voglio essere un cristiano qualunque, un anonimo frequentatore di Messe domenicali, voglio una vita santamente spericolata! Per questo non chiedo una dose modica, ma ho voglia di bere il suo sangue fino a inebriarmi. Come Caterina da Siena di cui canto “O Amore ineffabile”. Gli amici di un tempo mi deridono: “È tutto casa e Chiesa! E a mezzanotte è già a letto come i bambini!”. ma io non li ascolto e sento compassione per il loro perenne stato di infelicità. Io invece sono felice e a settembre entro in Seminario per insegnare agli erranti le sue vie. “Casta ebbrezza” è lo strano accostamento che ho trovato in un antico inno monastico: esprime bene il mio stato dopo la Comunione quando mi sento ubriaco del Suo Sangue ma senza che i sensi del corpo e dell’anima siano spossati dalla fatica dell’eccesso. Come il sorriso che ho visto fiorire sul volto di una giovane monaca dietro le grate. I miei genitori sono disorientati. Alle recriminazioni per la mia vita dissoluta si sono sostituite quelle per i miei eccessi di neofita: “Hai proprio perso la testa!”. Ascolto il rimprovero come un complimento e mi meraviglio che tanti facciano la Comunione e poche escano di Chiesa sballati. Il Sangue di Gesù ci inebria. Se i Carabinieri all’uscita di una messa domenicale ci sottoponessero alla prova del palloncino quanti sarebbero trovati in stato di ebbrezza?

 

“Acqua del costato di Gesù, lavatemi!”. Mi piace questa scomposizione della foto di Gesù Crocifisso che ora guarda e adoro. È come quando un amante guarda gli occhi dell’amata o canta il suo profilo aquilino, le sue mani, il tono della voce, il taglio dei capelli o il dolce ovale del volto e per la parte intende il tutto. Anche il Tetrarca cantava le “chiare, fresche e dolci acque” dove Laura di stendeva a prendere il sole, assorta nei suoi pensieri, e tutto quanto la circondava diventava amabile e santo. Qui il torrente non lambisce “le belle membra”, ma sgorga dal Santo Costato e, come il fiume intravisto da Ezechiele “Aegredientem de templo” porta la vita dovunque giunge e risana, fa fruttificare e rende giardino il deserto riarso. Mi immergo, come Naaman il Siro, in questo fiume di grazia e lascio che le squame della lebbra si stacchino dal mio essere in decomposizione per far ritornare la pelle bambina. Vergine. Qui c’è più dell’acqua del diluvio, del Mar Rosso, del Giordano, della Piscina di Siloe dove furono inviati da Gesù i lebbrosi per essere guariti. Mi lascio lavare dall’acqua del Costato e ne bevo come quando in montagna si giunge ad una fonte accaldati e sudati e ci si abbandona alla freschezza, come nell’euforia in un bacio che bevi. Che ti beve. Ora, pur avendo attraversato tanti portali penitenziali, avverto di essere indegno e bisognoso d’essere purificato. “E subito ne uscì sangue e acqua” : il sangue mi inebria, l’acqua mi lava.

 

“Passione di Gesù, confortatemi!”. Nello specchio della sua passione rivedo le mie pene, le ridimensiono, le scopro salvifiche. “Dopo tanti anni di attesa la scorsa settimana temevo fossero i Carabinieri. Erano gli addetti alle pompe funebri con in mano la sua tessera d’identità: signora conosce questo ragazzo?”. Passione di Gesù, confortatemi!. “Ho impiegato tutta la mia vita a preparare un futuro ai miei figli mettendo uno spicciolo e sull’altro e privandomi con mia moglie di qualsiasi godimento e ieri, con una telefonata del direttore della banca, ho scoperto che dal mio conto era sparito tutto e che la nostra casa andava all’asta. Non avevo il coraggio di tornare a casa per dire a Rosaria che siamo diventati poveri e sfrattati a causa dei debiti di gioco del più piccolo dei nostri figli”. Passione di Gesù, confortatemi!. “Mi dicevano tutti di stare tranquilla, che si trattava di esami di routine, che sarebbe passato tutto nel giro di pochi giorni con una piccola cura… Sono passata dalla cobaltoterapia ad un intervento chirurgico cui è seguita la che mio. Mi sento impoverita e devastata nella mia femminilità. Esco con la parrucca ed ho l’impressione che tutti mi guardino e facciano commenti alle mie spalle. Ora tu, Gesù, poggia la tua mano sulla mia testa spelacchiata di pulcino impaurito e dammi forza per le prossime puntate da campo di concentramento!”. Passione di Gesù, confortatemi!. “È da tempo che la preghiera nel coro mi angustia, la vita fraterna mi pesa, il contatto con la Parola non mi entusiasma e i mille gesti di questa mia vita nascosta di clarissa mi appaiono inutili e vuoti. Gusci vuoti di lumache preistoriche che degli umori della vita non hanno che un ricordo lontano anni luce. L’anima è fredda, dura, prosciugata, refrattaria, disanimata come la pietra del San Michele baciata dal poeta soldato. So che sono nel deserto a fare compagnia a tanti atei che si contendono una stilla di luce come i poveri un tozzo di pane in una guerra silenziosa e drammatica. “Canto ciò che voglio credere”, ma la fede sembra non abitare più qui. Resto alla finestra dell’anima ad attendere che torni il fervore come si aspettano le rondini e la luce in un lungo interminabile inverno boreale”. Passione di Gesù confortatemi!

 

“Nelle vostre piaghe nascondetemi!”. Continua questo silenzio dolce dopo la Comunione. L’organista è sceso dall’accordo in maggiore ad una tonalità minore, ma il largo che sta eseguendo non ha i registri della tristezza, ma i calmi colori della notte. Una notte stellata in cui cerchiamo la casa dell’abbraccio. L’abbraccio della casa. Ci sono momento in cui sentiamo forte il desiderio del nascondimento. Mi faccio piccolo mettendomi in ginocchio per non perderti come la mamma il suo bambino. Per non disperderti come il bambino che si rifugia nel grembo della madre per rivivere intese passate e comunione diadiche. Più volte nel Salterio ritorno il bisogno di un rifugio, del baluardo, della città fortificata, di un luogo di salvezza, ma ora avverto chiaramente che sono le Tue piaghe luoghi di appuntamenti segreti e castelli dove trovare rifugio nel clangore delle armi e nelle sirene delle postazioni antiaerei. Qui trovo riparo come l’alpinista che scovi un rifugio nel mezzo di una tormenta di neve. Non ci sono tessere da presentare, codici da digitare o prenotazioni da far valere. Non mi verranno richieste prestazioni, né sarò sottoposto a domande per entrare nel club delle Piaghe, ma tutto è aperto perché io sia sottratto alla congiura degli empi e alla sassaiola di chi è stato sorpreso in flagrante adulterio. da questo rifugio antiatomico guardo il mondo con serenità come forse mi sarà dato il guardarlo, pacificato, dalla sponda dell’eternità. Gioia piena, dolcezza senza fine. Qui nulla mi ferisce e tutto mi consola, qui la miseria incontra la Misericordia come in un gioco d’incastri finalmente riuscito. È questa la dimora che il poeta girovago inutilmente ha cercato. Sono finalmente giunto a “un paese innocente”.