CONCERTO DEL CORO POLIFONICO “LAUDATE DOMINUM”
Chiesa SS. Cosma e Damiano
Vairano Scalo, 26 Dicembre 2008
Meditazioni di
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
Raffaele Russo – Tenore Antonio
Graziano – Sassofono
Fabio di Lella – Flauto
Luigi Iapichino – Oboe
Domenico Mancino –
Violino
Gianfranco Di Lella –
Violino
Enzo Santangelo
– Violoncello
Maria Teresa Roncone – Organo
Nunzio Salierno –
Direttore
~
Adeste
fideles (Anonimo)
Astro
del Ciel (Gruber)
Meedly
Natalizio (arrang. Nunzio Salierno)
C’è
un’espressione che può essere riassuntiva del Natale, poco conosciuta, poco
utilizzata, e che, stamattina o questa sera, per chi abbia celebrato in serata, abbiamo trovato nella Prima Lettura, nella Festa
di Santo Stefano. Il diacono che offriva la sua vita per il re dice: “Vedo i
cieli aperti”. Cos’è Natale? Natale è l’apertura dei cieli. Per capire
quest’espressione, come riassuntiva del Natale, pensiamo a ciò che avvertivano
gli antichi: gli dei sull’Olimpo e gli uomini
abbandonati alle loro vicende. Ricordate almeno il titolo del romanzo “E le
stelle stanno a guardare”? A indicare che Dio non si commuove, che le stelle
sono belle ma sono irraggiungibili, sono in alto, sono
inaccessibili e noi invece siamo qui a terra, in tutti i sensi. Ecco “i cieli
aperti”: un’apertura, un ponte che si crea tra cielo e terra, tra la storia e
l’Eterno, tra l’uomo e Dio. Questa realtà comincia ed è definitiva. Oggi ne
abbiamo 26 e qualcuno di voi avrà pensato: “Peccato, è già passato Natale” e si
sbaglia perché l’evento del Natale è definitivo; se i cieli sono aperti, si
sono aperte le frontiere non temporaneamente, non solo nella pienezza del
tempo, ma per ogni tempo, anche per il nostro. Cosa significa “cieli aperti”?
Significa “Dio chinato sui nostri problemi”, quindi “Dio che si commuove”.
Turoldo, con un’espressione molto bella in una sua poesia, dice: “Tu avevi
nostalgia del nostro pianto”. Il pianto non è un’esperienza
particolarmente felice, vero? Eppure Dio può aver avuto nostalgia delle
nostre lacrime, nel senso che non poteva piangere, per dire un’esperienza
dolorosa che appartiene alla nostra quotidianità. Poche volte piangiamo di
gioia, per lo più siamo afflitti per un tradimento, per una lacerazione, per un
saluto, per un addio, per una morte: Dio aveva nostalgia di piangere come noi. “I cieli aperti”: anche questa santa confusione tra cielo e terra,
il cielo non è più in alto; il cielo è qui, il cielo è sulla terra, perché dal
cielo che si è squarciato – ricordate le parole del profeta Isaia: “Oh se tu
squarciassi i cieli e scendessi…” - Dio è disceso nella nostra valle di
lacrime, per piangere anche Lui. Voi dite: ma non potevamo salire noi a
gioire con Lui? Viene Lui a piangere con noi? Ma viene a piangere con noi
perché noi possiamo essere ammessi a gioire con Lui in eterno. Il Paradiso non
è più chiuso dal cherubino dalla spada fiammeggiante, a dire: “Stop! Non hai il
passaporto! Non puoi più entrare!”. Ricordate questa immagine che appartiene al
libro di Genesi? Ma adesso il cherubino ha inguainato, cioè ha rimesso nel
fodero, la spada fiammeggiante e dice: Avanti! Potete
entrare, perché Dio è disceso, l’uomo può salire; Dio è diventato uomo, l’uomo
può diventare Dio; la santità è diventata ferialità e peccato, e il peccato e
la ferialità possono diventare santità. C’è un altro romanzo, che
certamente non conoscete, perché è poco conosciuto e poco letto, di un padre
gesuita: si chiamava Padre Gianni Giorgianni, era in Radio Vaticana per tanti
anni. Scrisse un romanzo dal titolo “Col Cielo addosso”, a indicare l’uomo
sotto il peso dei problemi. Stamattina ci siamo svegliati con una luce… Quando l’ho guardata ho detto: “Ma questa luce è
malata” perché era cattivo tempo. Avete sentito anche voi che era una luce
livida? È il senso del cielo addosso: l’uomo che porta i suoi problemi, l’uomo
con la difficile congiuntura economica, che non sa uscire da questa grande
depressione. Tutto questo è finito: è finito già 2000 anni fa e perché noi non
ne siamo ancora convinti? Nonostante – vi dicevo
l’anno scorso in questa sede – il Natale sia stata la più grande orchestrazione
cristiana di tutti i tempi (perché qui siamo riusciti laddove non siamo stati
proprio luminosi, come nella Pasqua), nonostante i canti, nonostante le zeppole
– per dire un riferimento culinario – o gli struffoli, nonostante i regali,
nonostante le illuminazioni, gli scintillii, i canti, i motivi, per dire tutte
cose apparentemente esterne al Natale liturgico, nonostante tutta quest’enorme
macchinazione culturale, ancora le persone dicono: “Sono solo davanti a questo
problema: mi sento il cielo addosso”. No, le stelle non stanno a guardare, le
stelle adesso sono qui, sono cadute in terra, sono dentro di te, dal momento
che Dio ha assunto la tua, la mia, la nostra umanità. Natale è “i cieli
aperti”.
Mille
cherubini in coro (Schubert)
Magnificat
(Frisina)
Morricone’s fantasy (arrang. Nunzio Salierno)
White Christmas (
What child is this (Anonimo)
Oblivion
(Piazzolla)
Tu
scendi dalle stelle (S. Alfonso M. de’ Liguori)
Credo che
vi siate accorti che stiamo compiendo un cammino, benché seduti: stiamo
camminando, perché questi testi, parole e musica non solo,
ma anche artisti, ci stanno guidando per mano nel mistero del Natale. Vorrei
sottolineare quest’identificazione della parola, della nota e di chi la esegue.
Lo abbiamo visto in una maniera particolarmente sofferta nell’artista che ha
eseguito “Oblivion”. A voi sembra – e mi va di
sfatare questa cosa – scena: fa scena. Non è così, perché questo avere gli
occhi serrati – lo avete visto – e essere piegati in due sul sassofono, non è
una scena: in quel momento la nota è nel cuore, nella mente, nei polmoni, nei
muscoli, nei pensieri di chi la esegue. Questo è particolarmente vero per gli
strumenti a fiato, per i quali mi va di spendere una parola in più, non perché
gli altri siano facilitati, ma più di quelli a corda chiedono
un’identificazione, in particolare nella respirazione, in ciò che si sta
suonando, altrimenti la nota non viene fuori, o non viene fuori limpida. Sappiatelo: non basta avere una tromba, un flauto o un sassofono:
ci soffio dentro, vedo come si muovono le mani ed esce la nota. No,
perché implica un allenamento della bocca, della lingua, del fiato, del torace,
della persona che è tutta tesa in quella nota, altrimenti non esce. Perché vi
faccio questa sottolineatura che sembra non spirituale? Perché nell’evento
dell’Incarnazione, Dio c’è totalmente. Qualche volta a voi capita di parlare a
telefono, di scrivere a computer, di rispondere a vostra madre che vi chiama
dalla cucina, e fate più cose male e non in una maniera incisiva: se tu vuoi
fare una cosa bene, devi essere totalmente in ciò che stai facendo. Mi
riferisco anche a voi che siete fidanzati e vi dite tante parole
ma non vi ascoltate, “tante domande, poca attenzione”, diceva un
cantautore un po’ di anni fa a proposito dei genitori, che quando i figli
tornano a casa: “Cosa hai fatto?, ti ha interrogato?, quanto hai preso?”, ma
nessuno sente. “Tante domande, poca attenzione”. Come nello strumento a fiato,
c’è bisogno di essere totalmente in quella nota. Dio è totalmente nel mistero
dell’Incarnazione; non è altrove e poi ha mandato anche una parte di sé: si è
catapultato nella storia, è dentro quella nota che si chiama Natale. Primo
messaggio. Il secondo è: tutto questo era necessario? Su questo si sono
interrogati nella storia, in duemila anni di Teologia, tante persone: era
necessario essere salvati attraverso la Morte e la Resurrezione e quindi
l’Incarnazione di Dio? È una domanda ancora aperta, ma io vorrei invece
insistere su chi pone la domanda: “È necessario?”. Chi pone la domanda (“È
necessario?”) è fuori dell’amore. Per esempio: è necessario questo concerto?, è necessario che ci siano tante voci?, è necessario
chiamare anche gli strumentisti?, non bastava Maria Teresa? E prima si chiedeva
Don Luigi: è necessario quest’organo a canne che, per il Decimo Anniversario
della dedicazione della nostra Chiesa, vogliamo mettere su? La risposta, quando
ponete questa domanda, è “No, non è necessario”, perché niente è necessario. È
necessaria solo l’aria che respiriamo, il pane che mangiamo e basta. Ma la
vita, in questa maniera, diventa di una piattezza e di una prosaicità unica. Chi
ama non chiede se è necessario. Mi chiedo anche se
abbiate fatto regali di Natale “necessari”: “Ti ho comprato una cosa che ti
serve!”. “Grazie, non la voglio!”. Un regalo non si fa perché ti serve
qualcosa: il regalo è un di più, è un eccesso, è una cosa che non ti serve per
vivere, ma ti serve per cantare; non ti serve nella quotidianità, ma ti serve
una volta nella vita. La necessità non fa parte dell’amore: l’amore non si
chiede se sia necessario che questa chiesa abbia un organo a canne. Non è
necessario: c’è già l’organo che Maria Teresa suona da anni che ha i “suoni
campionati” – si dice – però l’esperto, soprattutto quando si alza il volume,
sente che distorce, perché non è il suono naturale. Un organo a canne è
necessario in questa chiesa? No. Ma se vi ponete questo problema e chiedete a Don
Luigi se è necessario, dovrà rispondervi di no; ma a questo punto non sono
necessarie le luci, togliamo il presepe che non è necessario, le statue sono
inutili, il cuore di Gesù lo abbattiamo, e tutte queste luci e i fiori… che
sperpero! Cari fratelli, il Natale del Signore è uno sperpero! Dio viene a
sperperarsi, a darsi senza motivo, senza ragione! Avrebbe potuto salvarci con
un “Amen!”, con un decreto, con una lettera, con un “Sì” come all’inizio ci ha
creati: “‘Sia la luce’ e la luce fu”; “Siano salvi” e
saremmo stati salvati. Non ha fatto così, perché la via dell’amore è la via
dell’esagerazione. Diffidate, donne e uomini fidanzati, dei vostri compagni e
compagne che vi fanno regali equilibrati, che vi fanno doni secondo l’economia.
Invece amate e sentitevi amati da coloro che esagerano. “Ha fatto una cosa
enorme! È andata oltre le sue possibilità!”. Ecco, questo è l’amore: l’amore è
l’esagerazione. Non l’esagerazione dei consumi, ma il Natale è l’esagerazione
di Dio: Dio è esagerato e diventa bambino, e si incarna, piange, ha bisogno di
tante cose, si annulla. Tutto questo era necessario? No, non era necessario, ma
è l’amore. Cari fratelli e sorelle, quest’organo a canne il Vescovo lo
sponsorizza in prima persona, anche se non ci sono i soldini. Perché?, ma lo dobbiamo fare adesso che stiamo nella grande
depressione? Certo! Perché così manifestiamo d’essere allineati poveramente in
quel cammino che è il Natale, dove Dio è stato esagerato con noi e non so
perché noi non possiamo poveramente essere esagerati con Lui.
Inno pontificio
(Gounod)
Oh Holy Night (Adam)
Va’, pensiero
(Verdi)
Avete
ascoltato quest’ultimo brano dal Nabucco. Sapete che, un po’ di anni fa, era
anche candidato ad essere inno nazionale e certamente, artisticamente, avrebbe espresso più dell’inno di Mameli che, musicalmente,
non è proprio una cima, ma non è nostra competenza… Quello che è importante è
comprenderne le radici bibliche. Ovviamente il Nabucco presenta una situazione
di esilio da parte del popolo di Israele, che ricorda, che va con nostalgia a
Gerusalemme, alle torri che sono state abbattute: è il canto della nostalgia.
Da un lato mi va di dire: noi dobbiamo tirare giù l’arpa dai salici. “Arpa
d’or… che dal salice pendi” è il riferimento al Salmo 136
del Salterio, dove si dice che “appendemmo le cetre dei salici di quella
terra”. Perché dobbiamo tirare giù le cetre, l’arpa d’oro dal salice? Perché
adesso non c’è più nessuna terra straniera, perché dal momento in cui Dio ha
percorso le nostre strade, ogni terra è nostra terra. Quindi i cristiani sono
chiamati a cantare i canti del Signore in terra straniera. Il salmista invece
si chiedeva: come cantare i canti del Signore in terra straniera, dal momento
che le cose vanno male?, dal momento che siamo esuli?,
dal momento che siamo oppressi? Oggi canta il tuo canto in terra straniera e
tira giù l’arpa d’oro che pende dai salici e utilizzala. L’arpa d’oro è la tua
vita, la tua voce, l’arte, l’amore perché questa terra è la terra di Dio,
quindi non è terra straniera. Dall’altro, un messaggio apparentemente in
contraddizione: Natale è un rimando al Natale. Natale è già venuto, il Signore
si è già incarnato e ci ha già salvati. Ma – non vi sembri di cattivo augurio,
ma devo dirvelo perché il Vescovo deve dire la verità – il nostro Natale ancora
deve venire e quindi siamo esuli. Quindi da un lato non siamo esuli (tira giù
la cetra!), dall’altro sei esule (rimetti su la cetra!,
riappendila al salice!) perché Natale non è ancora venuto, non è passato: è
avanti a noi. C’è un Natale che ti attende ed è il Natale pieno dove sono già i
nostri defunti. In questi giorni, sicuramente, vi saranno venuti alla mente
tanti posti vuoti, tante persone che noi abbiamo amato e che in questo Natale non ci sono
state. Ebbene, se c’è da dire Buon Natale a qualcuno, va detto a loro: “Buon
Natale, mamma! Buon Natale, papà! Buon Natale, nonno!”. Buon Natale a voi, non
a noi, perché noi siamo ancora con le cetre appese ai salici, voi invece siete
danzanti. Quindi cetre tirate giù, cetre riappese; cetre che devi utilizzare,
perché puoi “cantare i canti del Signore in terra straniera”, perché ogni terra
è tua terra perché è terra di Dio, ma anche cetra riappesa al salice, perché
Natale ancora deve venire, è da venire, siamo in Avvento. Saremo in Avvento per
tutti i giorni della nostra vita fino al giorno del Natale,
non del Signore, ma del nostro Natale. Questa è la nostra fede, cioè noi
andiamo verso il giorno natalizio: Dies Natalis.
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.