DIOCESI
DI TEANO-CALVI
“In punta di piedi in Episcopio”
Meditazioni di
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
“Cena d’adDio”
Teano, 1 Aprile 2009
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TRIO D’ARCHI
Carlo Coppola, violino
Gianfranco Conzo, viola
Nicola Dario Orabona, violoncello
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Conoscete, ormai, gli ingredienti
di questi nostri incontri “In punta di piedi”: Parola di Dio e arte. Per la
verità potremmo dire “arte”, perché anche
Nel nome del Padre…
T. Albinoni
Adagio in sol minore
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Ci avviciniamo in punta di piedi anche al nostro tema che ha al centro questo quadro, questo, come qualsiasi altra Ultima Cena possiate avere in mente dall’antichità, diciamo dal Medioevo, a Salvatore Dalì; anche a “ultime cene” più vicine a noi, come di Casentini, l’autore di cui abbiamo anche dei quadri in Cattedrale. Prima di entrare anche nel testo biblico, vorrei enunciare questo tema: “Cena d’adDio”, scritta nel modo che vedete. Non è solo “addio” perché è l’Ultima Cena, ma… è veramente l’ultima cena?, forse ogni cena è ultima?, o è una cena che prelude ad una comunione oltre le difficoltà, le tensioni che affollano il cuore di Cristo, ma anche il cuore dei discepoli, nella notte di cui questa cena è preludio? “Cena d’adDio” può essere anche un tema poetico-antropologico. Vorrei cominciare a guardare da questo versante quello che ci tiene insieme stasera: innanzi tutto la cena, forse perché la cena, più del pranzo, ha delle stanchezze da deporre sul tavolo, nel cuore degli amici, delle persone care che incontriamo, forse perché è più raccolta. Adesso non pensate all’Ultima Cena: pensate alle cene, al nostro fare cena, a “ci vediamo a cena”, “organizziamo una cena”. Perché noi ricorriamo a questo rituale? Per capire l’importanza della cena, del mangiare e della convivialità, dovremmo riprendere alcuni temi importanti, ma anche taciuti perché sembrano banali (ma banali non sono), del nostro vivere: il mangiare legato alla vita e la prima esperienza del mangiare. Vorrei partire da qui: dove abbiamo imparato a mangiare?, e cosa abbiamo mangiato? Sembra normale, ma è un miracolo che il bambino appena nato, come si dice in termini popolari, si attacchi al seno materno. Non è un fatto semplicemente istintuale, non risponde solo ad un desiderio di sopravvivenza, ma quella prima esperienza è fondamentale per capire ogni altra nostra tessitura sul tema del mangiare e della convivialità. Perché è importante un bambino attaccato, aggrappato al seno materno come fonte di sostentamento? Perché la prima esperienza del mangiare non riguarda un oggetto esterno all’amore, alla relazione. Noi normalmente diciamo: “Vieni, ho preparato qualcosa di buono”, oppure “Cosa ordiniamo?, cosa mangiamo stasera?” e quello che mangiamo, in fondo, anche se rivestito di simboli, anche se abbellito dal lume di candela, è esterno a noi. Invece la prima esperienza della vita, quella diciamo dell’imprinting, riguarda un mangiare interno alla persona. È come se – e, se ci fate caso, l’Eucaristia può essere compresa di più in quest’ottica - è come se noi avessimo avuto come pasto nostra madre. Allora la madre non è solo la fonte del sostentamento (quindi aggrapparsi al seno materno), ma è anche ciò che noi abbiamo mangiato. Sembra un po’ legato al cannibalismo, ma non è così, anche perché poi una certa forma di cannibalismo, nel senso alto del termine, è presente in ogni nostra convivialità: noi ci mangiamo, noi mangiamo lo sguardo dell’altro, noi mangiamo l’affetto… Il bambino beve il latte, succhia il latte, succhia la vita e succhia la madre, per cui il pane che noi mangiamo, con tutto quello che poi intorno al pane si configura come cibo, come arte del cucinare e della convivialità, non è un oggetto esterno all’amore, ma l’amore stesso fatto latte. È la madre che si scioglie nel latte e si dà come cibo. Non so se, su questa cosa elementare, voi vi siate mai fermati a riflettere e che forse mi fa capire anche di più “Questo è il mio corpo, prendete, mangiate…”. È fuori della nostra cultura, della nostra immaginazione, del nostro immaginario, che uno possa mangiare l’altro come pane, ma a ben pensarci è l’esperienza fondante d’ogni vita, d’ogni vita umana. Noi abbiamo cominciato ad entrare nella società, nella relazione, attraverso questo primo gesto del bere il latte di nostra madre, ma adesso diciamo più a fondo: “Abbiamo bevuto e mangiato nostra madre”. Perché questa riflessione che sembra un po’ strana, tra l’altro sulla bocca di un Vescovo? Perché ogni cena, ogni momento di convivialità è offrirsi come pane all’altro: le cene fredde, e non mi riferisco a quelle da riscaldare, ma fredde umanamente, i luoghi dove non mangiamo volentieri, le esperienze dove il mangiare non aggrega, sono luoghi, esperienze, cene, pranzi dove non c’è affetto, dove si mangiano le cose, si mangia ciò che è esterno all’uomo e non l’uomo stesso. Molti di noi sono padri, madri di famiglia e sanno quanto questa riflessione, anche se magari non articolata, nella maniera un po’ cruda con cui l’ho svolta finora, sia vera: momenti in cui mangiamo volentieri, anche poche cose, povere cose ma nella serenità, e momenti dove c’è tanto da mangiare ma poco da condividere. Dice il testo sapienziale: meglio poche cose con l’amore che un bue grasso con l’odio. A volte in questi Proverbi della Sacra Scrittura (Antico Testamento) è riassunta una sapienza: non è importante quello che mangiamo, è importante dove noi consumiamo i pasti, dove ceniamo, dove ceneremo stasera; non è importante quello che mangeremo, l’importante è quanto di umano c’è in quello che noi condividiamo. Se non condividiamo nulla, può esserci anche il grande chef che ha preparato le ultime ricette provenienti dalla cucina francese (che continua ad essere quella novella, nuova e all’ultimo grido) ma questo non aumenterà lo spessore del nostro essere uomini, del vostro essere donne, del vostro essere sposi, padri, madri, figli, fratelli, amici. Allora “Cena d’adDio” - comincio così - vuole essere un entrare nel Mistero della Cena, che appena tra otto giorni celebreremo nelle nostre parrocchie, attraverso questo oblò, questa finestra sul mangiare che è una riflessione antropologica. Mentre facciamo memoria del latte di nostra madre (io ho bevuto e ho mangiato mia madre come tutti voi) ci chiediamo: ma io, oggi, sono latte per qualcuno?, i miei figli mangiano me o mangiano le briochine?, mangiano me o mangiano altro, quello che io ho preparato, ma dove io non sono implicata, non sono implicato? Noi entriamo dentro a quello che cuciniamo se quest’arte del cucinare, e quindi dell’imbandire una mensa e del mangiare, riguarda non le cose ma gli affetti, la possibilità di essere l’uno pane per l’altro. In questo senso, ogni cena è una “cena d’adDio”, non nel senso del saluto definitivo, ma una cena “da Dio”, nel senso che è un’esperienza divina, nel senso che quello che noi stiamo compiendo non è un gesto volgare, ma un gesto altissimo, anche se sulla mensa c’è ben poco. L’importante è che tipo di significato tu dai a questo pane, a questo bicchiere di vino, a questa minestra o… non so cosa in questo momento vi faccia venire l’acquolina in bocca… Che significato dai?, cosa stai dando?, cosa stai preparando? Tu hai mangiato tua madre; i tuoi figli hanno diritto di mangiare te: Cena d’adDio.
C. W. Gluck
Andante da “Orfeo e Euridice”
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Il brano che avete ascoltato, di grande serenità, precede di un attimo una scena drammatica e tristissima: il tentativo di Orfeo di commuovere lo spirito degli inferi. Orfeo ed Euridice, è un mito che ha commosso generazioni e generazioni a partire dall’intuizione dei greci: far tornare una persona morta, che è stata rapita ante diem, e quindi fare un viaggio negli inferi per commuovere con la musica il dio che tiene prigioniere le anime, perché Euridice possa tornare a casa con Orfeo. C’è questa danza degli spiriti beati ad esprimere l’assenza di dolore delle anime nel regno degli inferi e poi Orfeo entra, se non sbaglio, col flauto (ma posso sbagliarmi) a commuovere gli dei con un pianto musicale. Perché mi connetto, come si dice in termini computeristici, con questo brano musicale? Perché la cena, il cenare (adesso io insisto sulla cena, ma valga anche per il pranzo e per qualsiasi esperienza di convivialità) ha sempre questo desiderio di richiamare qualcuno che è assente, non certamente con il fare drammatico di Orfeo che, come sapete, non riuscirà a mantenere il proposito di non girarsi (è questa la clausola che gli dei pongono perché egli possa riportare Euridice fuori dalle ombre). Al di là di questo aspetto drammatico, c’è una sottile vena di tristezza, ma anche di speranza (leggo insieme le due cose), nel fatto che quando noi ci sediamo a cena, quando noi viviamo una festa, quando c’è una convivialità, immediatamente nasce il ricordo di qualcuno che in precedenza era con noi e che - pensate adesso nella prossima Pasqua, ma ancora più questo si avverte a Natale - è oltre il confine della morte, non nella morte, ma oltre il confine della morte. Da sempre – anche qui un dato antropologico - c’è questo legame del prendere cibo con il ricordo dei defunti: dovunque, in alcune parti in una maniera più ritualizzata, altrove in un’atmosfera più soft, come oggi succede per lo più, di ritorno da una sepoltura si fa una cena, un pranzo. Addirittura ci sono ancora oggi culture - e non parlo di culture arretrate – in cui questa cosa ha un grande valore: addirittura vanno a consumare un pic-nic sulla tomba. Noi non lo faremmo, ma ha un grande significato: noi andiamo a portare i crisantemi, loro vanno con la tovaglia, la stendono, organizzano un pranzo lì al cimitero. Voi dite: ma è una cosa un po’ romantica, un po’ oscura, un po’ amore di morte… No, è la celebrazione della vita. Voglio tematizzare, a partire dalla sollecitazione musicale, che cibo è vita, cioè mangiare è la celebrazione della vita. Ecco perché poi, quando ci accostiamo a certe patologie legate al cibo, ci rendiamo conto che il problema non è che mia figlia non mangia, che è anoressica, oppure che è bulimica, ma il problema è che mia figlia non vuole vivere, questa è la verità, cioè ha un rigetto della vita. Al di là degli eccessi che vanno sempre negati e individuati come cose degradanti, l’esperienza del mangiare è la celebrazione stessa della vita, per cui ogni convivialità contiene una sorta di invocazione di vita anche per le persone che noi diciamo “non ci sono più”, e non è una dicitura esatta, perché non è vero che non ci sono più: non le vediamo, non ne abbiamo più esperienza, non le tocchiamo, non ne ascoltiamo la voce, ma ci sono. Queste persone sono invocate all’atto in cui noi ci sediamo a tavola; sarà il posto vuoto, sarà “Ti ricordi?”, sarà “L’anno scorso c’era, era con noi”, sarà una frase, ma anche un sapore: il ricordo è legato anche ai sapori, i sapori delle ricette di mia madre, i sapori di quand’ero bambino, cioè è tutta una serie di sollecitazioni che partono dall’aspetto concreto, umano, corporale, sensitivo del mangiare e che poi aprono ad altro (“Questo cibo lo abbiamo mangiato quando eravamo in viaggio di nozze”, “Questa ricetta l’ho scoperta quando è nato il nostro primo figlio”…). C’è una storia anche nelle cose che mangiamo, c’è una rete di connessioni umane legate a persone, legate a momenti, legate ad eventi della nostra vita. Effettivamente qui la vita succhia, risucchia anche dalla morte. Prendiamo quanto di buono è scritto, in codice, nel mito di Orfeo ed Euridice legato alla “cena d’adDio”: noi mangiamo non come offesa a chi non c’è, ma mangiamo in memoria… “Mi raccomando: fa’ la ricetta come la faceva mamma” magari dirà un marito alla moglie… Adesso ci apprestiamo alle pastiere: ci sono cinquemila modi diversi di fare le pastiere, non esiste una pastiera uguale ad un’altra, eppure la pastiera è lo stesso dolce, ma ogni famiglia ha il suo modo di farla e speriamo che questo modo sia anche il ricordo del modo con cui faceva la pastiera mia mamma, mia nonna, quando tiravamo fuori dal forno a legna… Tutti questi rituali, questi profumi, dicono storia. Queste cose così semplici poi si aprono come dei fiori, inaspettatamente. In queste sconnessure, in questi intrecci, in queste trame di cibi, di ricette, di fatti, di ricordi, di persone, ecco emergere la vita: la vita viene anche a rievocare chi, oggi, non è fisicamente con noi. Ho fatto questa digressione - tra l’altro non me l’ero preparata - ma me l’ha sollecitata il brano: la danza degli spiriti beati e il viaggio negli inferi di Orfeo è l’esperienza del mangiare. Adesso noi non riusciremmo a commuovere gli dei con il nostro flauto, con la nostra musica, con la nostra cetra secondo il mito, ma sederci a mensa il giorno di Pasqua, sederci a mensa in certi momenti, in certi anniversari, in certe celebrazioni familiari è richiamare, non solo alla memoria, ma alla vita, chi è nella Vita. Quindi vi offro questa seconda sollecitazione, ancora molto umana, sul mangiare come rievocazione: d’altra parte, non c’è ricordo, non c’è momento importante da celebrare che non abbia la sua tavola imbandita.
G. Tartini
Andante cantabile
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Dal Vangelo di Marco (14,12-16)
12 Il primo giorno degli Azzimi,
quando si immolava
Questo è un brano che normalmente
non rientra nel “circuito ufficiale” (il Giovedì Santo, nella Messa in Coena Domini, siamo già nel cuore), fa parte dei Vangeli
dei primi giorni della Settimana Santa, ma è importante, altrimenti non
riusciamo a contestualizzarci nella Cena, questa o in
qualsiasi altra, rappresentata come centro della vita di Gesù, in qualche
maniera anche più dell’evento della Crocifissione, qui misticamente anticipato.
Mi riferisco a cosa significava
J. S. Bach
Aria dalla Suite in re maggiore
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Quando si misero a tavola, Gesù
disse: “Uno di voi mi tradirà”. Dopo tutti questi preparativi, questo Gesù viene
a gettare il pomo della discordia sul tavolo, come nel mito antico “Chi è la
più bella di tutto il reame?”: ci fa apparire Gesù come uno che viene a rompere
la bella atmosfera che abbiamo costruito. Perché Gesù dice questa cosa ora,
adesso, nel più bello, ora che è tutto pronto, ora che
stiamo celebrando
W. A. Mozart
Ave verum Corpus
***
Man mano che parlo mi si stanno
aprendo nuovi files
rispetto a quello che avevo preparato, come questo che
adesso enuncio brevemente che meriterebbe una trattazione a parte. Gesù dice: “Colui
che mangia con me mi tradirà”. Questa espressione sembra aggiungere dramma a
dramma. Non solo Gesù è tradito, ma è tradito da uno dei suoi; di più: è
tradito da uno che sta qui e che sta mangiando con lui e - diciamo - di lui (cfr mamma, latte e “Questo è il mio corpo”, come dirà tra
poco). Ma il traditore - enuncio soltanto, sarò brevissimo, telegrafico, spero
- il traditore può essere un nemico? No, perché tu dal nemico il tradimento te
lo aspetti e non è tradimento. Il nemico che ti viene contro fa il suo mestiere,
fa quello che tu ti aspetteresti da lui, ma il tradimento presuppone l’amore,
presuppone una relazione particolarmente intima, presuppone una comunione che
ora sta per rompersi. Il tradimento non potrebbe accadere se non nella cornice
di questa comunione, altrimenti sarebbe un gesto
certamente grave ma che non ti apporterebbe tutta quella sofferenza che il tradimento
comporta. “Proprio lui?”, diciamo del figlio, del marito, della moglie,
dell’amico, della persona che è stata con noi, che ha condiviso, che ha
mangiato lo stesso pane e che adesso è un oppositore. Il tradimento – adesso
enuncio così in una maniera un po’ paradossale, come sempre – affonda le radici
nell’amore, nell’amore ricevuto innanzi tutto: se uno non ha ricevuto amore non
può tradire. Ti tradisce tuo figlio, colui che è amato da te, colui che ha
bevuto di te, colui che è stato alla tua mensa. Qui c’è un archètipo che
appartiene alla lettura psicanalitica, ma che continuamente noi riscontriamo (ne
facevo riferimento all’ultima Preghiera-Giovani, quindici giorni fa) e cioè
l’uccisione del padre. Il padre si uccide sempre, non nel senso che si suicida, ma si uccide cioè i figli uccidono il padre, in
qualche maniera, nei loro sogni, spesso concretamente. Non mi riferisco ai fatti
efferati di violenza dei figli nei confronti dei loro genitori, quanto quel
tradimento più comune che è il fatto che tuo figlio ti va contro, come diciamo
noi in napoletano, fa cose opposte a quelle che gli hai insegnato, ti ritiene
sorpassato, d’altri tempi o dilapida il tuo patrimonio. Q uesto non vuole essere un invito a
non amare, anzi continuiamo ad amare, amiamo di più a rischio di aumentare a
dismisura i nostri traditori: ma il traditore avrà anche possibilità di tornare
e forse mette alla prova il nostro amore, se è autentico, se siamo stati
veramente gratuiti nel dare. Il traditore smaschera la tua paternità falsa o
evidenzia la tua vera paternità. Non è un invito al tradimento, ma voglio dire
che in questo dramma –
ed è quello che avrei voluto dire brevemente, ma mi accorgo adesso di aver già
impiegato troppe parole – c’è sempre da dire che l’humus del tradimento è
l’amore. Ci sono due possibilità: o decidiamo di non amare più e non ci saranno
più traditori, ma ahimé finisce il mondo, o
continueremo a investire gratuitamente, follemente nell’amore anche se
nasceranno dei vermi in questa realtà meravigliosa che noi abbiamo progettato,
fosse anche una cena, dove qualcuno viene a pugnalarmi alle spalle. “Quoque tu, Brute, fili mihi”.
J. Pachelbel
Canone in re maggiore
***
Il canone di Pachelbel
che abbiamo ascoltato, ci insegna come su poche note, su una manciata di note,
si possano creare tutte queste variazioni: tutto si
gioca su pochissime note poi ripetute non in una maniera monotona, ma con
variazioni, con arricchimenti, con volute barocche (siamo nella musica barocca).
Potremmo reagire ai tradimenti scappando o negando. L’ultima cena, “Cena d’adDio” il tema che ci tiene
insieme stasera, ci insegna non solo il donarsi di Gesù nell’immediata vigilia
della Passione (si tratta di ore), ma ci insegna anche come reagire. Io vi ho
lasciato con le parole di Cesare alle idi di marzo: “Quoque
tu”. Quella mattina probabilmente egli sapeva a cosa andava incontro, ma si
presenta con la sua toga bianca, incontaminata, che probabilmente prevede
essere di lì a poco sporcata di sangue, il suo sangue. Ovviamente, nego paritatem
tra Gesù di Nazareth e un personaggio della storia romana, però è importante
questo presentarsi, questo consegnarsi in qualche maniera: consegnarsi al
figlio. È una vita che io ho cercato di inculcare ai genitori che, quando i
figli vengono a ucciderci,
dobbiamo farci trovare in poltrona, distesi, come se non sapessimo cosa sono
venuti a fare, a metterci in difficoltà, a rimproverarci, a recriminare, ad
ucciderci. Oggi i genitori scappano o si travestono da figli, per cui il figlio non vede più il padre. Invece “io sono il
padre, sono venuti a uccidermi e sono qui in poltrona”. Questa cosa è redentiva
per il figlio, dopo, non sul momento: mio padre si è fatto trovare all’atto in
cui sono andato a schiaffeggiarlo, all’atto in cui sapeva che l’avrei tradito. Gesù
ci insegna come reagire al tradimento. “Mentre cenava prese il pane, rese
grazie - conosciamo queste parole che risuonano in ogni Eucaristia - lo spezzò,
lo diede ai suoi discepoli e disse: Questo è il mio corpo, prendetelo, è vostro”.
Per cui vi dicevo prima, anticipandovi questo concetto, nell’Ultima Cena c’è
già la morte di Gesù, perché? Perché c’è il corpo e poi c’è il sangue. Adesso
dove il sangue è diviso dal corpo, c’è la morte quindi questa divisione degli
elementi, pane e vino, corpo e sangue, dice: sono morto, sono già morto e
quindi c’è un anticipo mistico di quello che accadrà di lì a poco nel
consegnarsi a Giuda e agli altri che vengono con lui, nella notte, con le torce,
e poi nel consegnarsi al mondo. Allora l’Eucaristia è questa dimensione inerme
di Dio nei nostri confronti: tu puoi fare di Dio quello che vuoi, perché Lui si
consegna. Questo è l’amore: l’amore è consegnarsi, consegnarsi al traditore,
consegnarsi a chi dopo capirà, consegnarsi al rinnegatore.
Poi quando canterà il gallo piangerà, non adesso che è chiuso nella sua
grettezza, nella sicurezza di sé. “Anche se tutti gli altri ti dovessero
rinnegare io non ti abbandonerò”, dice Pietro. Ma di lì a poco, lo scenario
cambia. Allora l’Eucaristia - e questo dovrebbe accadere in ogni cena, in una
maniera di sacramentalità diffusa - è questa lezione d’amore dove, anziché
scappare, colui che è tradito si consegna anticipando il tradimento. Ci sono
versioni diverse su “Giuda era lì ancora o era già uscito?”. Era ancora lì secondo molti. Dice Giovanni che, quando va via, era notte. Era notte dentro di lui, ma ha fatto
C. Saint-Saëns
Il cigno da “Il Carnevale degli animali”
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Il violoncello è sempre un po’
mesto nel timbro, un po’ rauco: l’abbiamo ascoltato in questo assolo. Pensate
che quando si suona da soli, si è senza veli, nudi, perché finché suonano in
tre, nel trio, se una nota esce un po’ falsa, si nasconde, ma se uno suona da
solo, quello è, non ci sono nascondigli: quindi la tensione di chi è solo. Mi
sembra un buon commento, anche se non ci siamo messi d’accordo, ma le cose tornano
a intreccio anche tra le note e le parole, un buon commento a questo
consegnarsi solitario di Gesù: “Prendete, questo è il mio corpo. Bevete, questo è il mio sangue”. Ma voi pensate che i
discepoli si sono accorti di qualcosa? No, nulla! Mica avevano l’atteggiamento
della Prima Comunione?! Non so, come l’Ultima Cena di Dalì: tutti in ginocchio come dei monaci. Io sono
affezionatissimo a quel dipinto perché mi trasmette il senso del raccoglimento,
ma nulla di tutto questo: pensavano ad altro, avevano altro per la mente, non
hanno capito niente! E questo rende il gesto di Gesù ancora più solitario,
perché anche un’arcata di violoncello, sia pur nella tensione del solista,
senza rifugi come abbiamo ascoltato, però nel silenzio, ha avuto la sua eco, ma
nel chiasso… Se tu avessi suonato e… chi parlava, chi
fumava… Q uesto ha fatto invece
Gesù: non hanno capito nulla di quello che veniva loro consegnato. Han pensato che fosse vino normale, una coppa in più di
quelle che il rituale ebraico faceva passare. “Chissà… si è dimenticato…
beviamo anche questa” ma non sanno che è il suo sangue, non sanno che è il suo
corpo: questa è una solitudine nella solitudine. Dedico questi ultimi minuti
che rimangono a questa triplice scansione, come se fossero tre movimenti della cena,
e qui della Cena d’adDio, ma
è ogni cena, ogni pranzo, ogni festa. Innanzi tutto è memoria: memoria perché
noi non siamo nati stamattina, non siamo appena nati. Abbiamo vent’anni,
trent’anni, cinquant’anni, sessant’anni, settant’anni
e quindi arriviamo a questa cena, arriviamo a questa festa, arriviamo a questo Matrimonio, a
questo invito che ci è stato rivolto dal Vescovo, a “In punta di piedi in Episcopio”
con la nostra storia che viene qui riedita, che viene ricordata. Quella
personale, ma anche quella comunitaria, ma anche quella della famiglia. Questo
memoriale, termine importante per
F. Ortolani
Fratello sole, sorella luna
***
L’ultima parola la dedico agli altri
due movimenti, come se
Diciamo insieme: Padre nostro…
Ascoltiamo Beethoven, poi vi do la benedizione e chiudiamo con Listz.
L.V. Beethoven
Romanza in fa maggiore op.50
***
Ringraziamo i nostri tre giovani maestri per il sostegno che hanno dato alla nostra serata, alla nostra preghiera, alla nostra riflessione. Uscendo, riceverete un numero di Presenza. Ringrazio Ernesto Perrone, qui presente, che è il redattore capo di Presenza già dal tempo di Mons. Tommasiello. Ci sono anche gli orari della Settimana Santa in cattedrale e vi invito, in particolare, alla Messa Crismale, Mercoledì Santo, alle ore 18:30, momento corale della nostra Diocesi.
Benedizione del Vescovo
Ascoltiamo l’ultimo brano, poi con un applauso possiamo dire grazie ai tre concertisti. Diamo gli auguri anche a Gianfranco, alla viola, che il 30 Aprile celebrerà il suo Matrimonio: è un modo per affidarlo alla preghiera di tutti. Ascoltiamo l’ultimo brano.
F. Listz
Sogno
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Grazie a tutti e buona serata. Buona Pasqua non ce lo diciamo ancora, perché avremo modo di farci gli auguri.
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.