DIOCESI DI TEANO-CALVI

“In punta di piedi in Episcopio”

 

Meditazioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Cena d’adDio

 

Teano, 1 Aprile 2009

 

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TRIO D’ARCHI

Carlo Coppola, violino

Gianfranco Conzo, viola

Nicola Dario Orabona, violoncello

 

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Conoscete, ormai, gli ingredienti di questi nostri incontri “In punta di piedi”: Parola di Dio e arte. Per la verità potremmo dire “arte”, perché anche la Parola di Dio rientra in questa categoria. Perché fermarci? Perché corriamo e, a volte, senza sapere dove stiamo andando. In questo momento, stiamo correndo verso la Pasqua come occasione di incontro familiare:  Pasqua che come il Natale - dice il poeta - rende le caserme vuote, ma rischia di trovare vuoto anche il nostro cuore, vuoto di contenuti. Allora questi incontri sono tesi a ridire, a dire, forse con parole nuove, le cose antiche, a ridirci (perché siamo credenti) dove ci orientiamo e qual è il nostro vocabolario. Ringraziamo Carlo, Gianfranco e Nicola che sono i tre artisti con i quali questa sera preghiamo.

Nel nome del Padre…

T. Albinoni

Adagio in sol minore

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Ci avviciniamo in punta di piedi anche al nostro tema che ha al centro questo quadro, questo, come qualsiasi altra Ultima Cena possiate avere in mente dall’antichità, diciamo dal Medioevo, a Salvatore Dalì; anche a “ultime cene” più vicine a noi, come di Casentini, l’autore di cui abbiamo anche dei quadri in Cattedrale. Prima di entrare anche nel testo biblico, vorrei enunciare questo tema: “Cena d’adDio”, scritta nel modo che vedete. Non è solo “addio” perché è l’Ultima Cena, ma… è veramente l’ultima cena?, forse ogni cena è ultima?, o è una cena che prelude ad una comunione oltre le difficoltà, le tensioni che affollano il cuore di Cristo, ma anche il cuore dei discepoli, nella notte di cui questa cena è preludio? “Cena d’adDio” può essere anche un tema poetico-antropologico. Vorrei cominciare a guardare da questo versante quello che ci tiene insieme stasera: innanzi tutto la cena, forse perché la cena, più del pranzo, ha delle stanchezze da deporre sul tavolo, nel cuore degli amici, delle persone care che incontriamo, forse perché è più raccolta. Adesso non pensate all’Ultima Cena: pensate alle cene, al nostro fare cena, a “ci vediamo a cena”, “organizziamo una cena”. Perché noi ricorriamo a questo rituale? Per capire l’importanza della cena, del mangiare e della convivialità, dovremmo riprendere alcuni temi importanti, ma anche taciuti perché sembrano banali (ma banali non sono), del nostro vivere: il mangiare legato alla vita e la prima esperienza del mangiare. Vorrei partire da qui: dove abbiamo imparato a mangiare?, e cosa abbiamo mangiato? Sembra normale, ma è un miracolo che il bambino appena nato, come si dice in termini popolari, si attacchi al seno materno. Non è un fatto semplicemente istintuale, non risponde solo ad un desiderio di sopravvivenza, ma quella prima esperienza è fondamentale per capire ogni altra nostra tessitura sul tema del mangiare e della convivialità. Perché è importante un bambino attaccato, aggrappato al seno materno come fonte di sostentamento? Perché la prima esperienza del mangiare non riguarda un oggetto esterno all’amore, alla relazione. Noi normalmente diciamo: “Vieni, ho preparato qualcosa di buono”, oppure “Cosa ordiniamo?, cosa mangiamo stasera?” e quello che mangiamo, in fondo, anche se rivestito di simboli, anche se abbellito dal lume di candela, è esterno a noi. Invece la prima esperienza della vita, quella diciamo dell’imprinting, riguarda un mangiare interno alla persona. È come se – e, se ci fate caso, l’Eucaristia può essere compresa di più in quest’ottica - è come se noi avessimo avuto come pasto nostra madre. Allora la madre non è solo la fonte del sostentamento (quindi aggrapparsi al seno materno), ma è anche ciò che noi abbiamo mangiato. Sembra un po’ legato al cannibalismo, ma non è così, anche perché poi una certa forma di cannibalismo, nel senso alto del termine, è presente in ogni nostra convivialità: noi ci mangiamo, noi mangiamo lo sguardo dell’altro, noi mangiamo l’affetto… Il bambino beve il latte, succhia il latte, succhia la vita e succhia la madre, per cui il pane che noi mangiamo, con tutto quello che poi intorno al pane si configura come cibo, come arte del cucinare e della convivialità, non è un oggetto esterno all’amore, ma l’amore stesso fatto latte. È la madre che si scioglie nel latte e si dà come cibo. Non so se, su questa cosa elementare, voi vi siate mai fermati a riflettere e che forse mi fa capire anche di più “Questo è il mio corpo, prendete, mangiate…”. È fuori della nostra cultura, della nostra immaginazione, del nostro immaginario, che uno possa mangiare l’altro come pane, ma a ben pensarci è l’esperienza fondante d’ogni vita, d’ogni vita umana. Noi abbiamo cominciato ad entrare nella società, nella relazione, attraverso questo primo gesto del bere il latte di nostra madre, ma adesso diciamo più a fondo: “Abbiamo bevuto e mangiato nostra madre”. Perché questa riflessione che sembra un po’ strana, tra l’altro sulla bocca di un Vescovo? Perché ogni cena, ogni momento di convivialità è offrirsi come pane all’altro: le cene fredde, e non mi riferisco a quelle da riscaldare, ma fredde umanamente, i luoghi dove non mangiamo volentieri, le esperienze dove il mangiare non aggrega, sono luoghi, esperienze, cene, pranzi dove non c’è affetto, dove si mangiano le cose, si mangia ciò che è esterno all’uomo e non l’uomo stesso. Molti di noi sono padri, madri di famiglia e sanno quanto questa riflessione, anche se magari non articolata, nella maniera un po’ cruda con cui l’ho svolta finora, sia vera: momenti in cui mangiamo volentieri, anche poche cose, povere cose ma nella serenità, e momenti dove c’è tanto da mangiare ma poco da condividere. Dice il testo sapienziale: meglio poche cose con l’amore che un bue grasso con l’odio. A volte in questi Proverbi della Sacra Scrittura (Antico Testamento) è riassunta una sapienza: non è importante quello che mangiamo, è importante dove noi consumiamo i pasti, dove ceniamo, dove ceneremo stasera; non è importante quello che mangeremo, l’importante è quanto di umano c’è in quello che noi condividiamo. Se non condividiamo nulla, può esserci anche il grande chef che ha preparato le ultime ricette provenienti dalla cucina francese (che continua ad essere quella novella, nuova e all’ultimo grido) ma questo non aumenterà lo spessore del nostro essere uomini, del vostro essere donne, del vostro essere sposi, padri, madri, figli, fratelli, amici. Allora “Cena d’adDio” - comincio così - vuole essere un entrare nel Mistero della Cena, che appena tra otto giorni celebreremo nelle nostre parrocchie, attraverso questo oblò, questa finestra sul mangiare che è una riflessione antropologica. Mentre facciamo memoria del latte di nostra madre (io ho bevuto e ho mangiato mia madre come tutti voi) ci chiediamo: ma io, oggi, sono latte per qualcuno?, i miei figli mangiano me o mangiano le briochine?, mangiano me o mangiano altro, quello che io ho preparato, ma dove io non sono implicata, non sono implicato? Noi entriamo dentro a quello che cuciniamo se quest’arte del cucinare, e quindi dell’imbandire una mensa e del mangiare, riguarda non le cose ma gli affetti, la possibilità di essere l’uno pane per l’altro. In questo senso, ogni cena è una “cena d’adDio”, non nel senso del saluto definitivo, ma una cena “da Dio”, nel senso che è un’esperienza divina, nel senso che quello che noi stiamo compiendo non è un gesto volgare, ma un gesto altissimo, anche se sulla mensa c’è ben poco. L’importante è che tipo di significato tu dai a questo pane, a questo bicchiere di vino, a questa minestra o… non so cosa in questo momento vi faccia venire l’acquolina in bocca… Che significato dai?, cosa stai dando?, cosa stai preparando? Tu hai mangiato tua madre; i tuoi figli hanno diritto di mangiare te: Cena d’adDio.

C. W. Gluck

Andante da “Orfeo e Euridice”

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Il brano che avete ascoltato, di grande serenità, precede di un attimo una scena drammatica e tristissima: il tentativo di Orfeo di commuovere lo spirito degli inferi. Orfeo ed Euridice, è un mito che ha commosso generazioni e generazioni a partire dall’intuizione dei greci: far tornare una persona morta, che è stata rapita ante diem, e quindi fare un viaggio negli inferi per commuovere con la musica il dio che tiene prigioniere le anime, perché Euridice possa tornare a casa con Orfeo. C’è questa danza degli spiriti beati ad esprimere l’assenza di dolore delle anime nel regno degli inferi e poi Orfeo entra, se non sbaglio, col flauto (ma posso sbagliarmi) a commuovere gli dei con un pianto musicale. Perché mi connetto, come si dice in termini computeristici, con questo brano musicale? Perché la cena, il cenare (adesso io insisto sulla cena, ma valga anche per il pranzo e per qualsiasi esperienza di convivialità) ha sempre questo desiderio di richiamare qualcuno che è assente, non certamente con il fare drammatico di Orfeo che, come sapete, non riuscirà a mantenere il proposito di non girarsi (è questa la clausola che gli dei pongono perché egli possa riportare Euridice fuori dalle ombre). Al di là di questo aspetto drammatico, c’è una sottile vena di tristezza, ma anche di speranza (leggo insieme le due cose), nel fatto che quando noi ci sediamo a cena, quando noi viviamo una festa, quando c’è una convivialità, immediatamente nasce il ricordo di qualcuno che in precedenza era con noi e che - pensate adesso nella prossima Pasqua, ma ancora più questo si avverte a Natale - è oltre il confine della morte, non nella morte, ma oltre il confine della morte. Da sempre – anche qui un dato antropologico - c’è questo legame del prendere cibo con il ricordo dei defunti: dovunque, in alcune parti in una maniera più ritualizzata, altrove in un’atmosfera più soft, come oggi succede per lo più, di ritorno da una sepoltura si fa una cena, un pranzo. Addirittura ci sono ancora oggi culture - e non parlo di culture arretrate – in cui questa cosa ha un grande valore: addirittura vanno a consumare un pic-nic sulla tomba. Noi non lo faremmo, ma ha un grande significato: noi andiamo a portare i crisantemi, loro vanno con la tovaglia, la stendono, organizzano un pranzo lì al cimitero. Voi dite: ma è una cosa un po’ romantica, un po’ oscura, un po’ amore di morte… No, è la celebrazione della vita. Voglio tematizzare, a partire dalla sollecitazione musicale, che cibo è vita, cioè mangiare è la celebrazione della vita. Ecco perché poi, quando ci accostiamo a certe patologie legate al cibo, ci rendiamo conto che il problema non è che mia figlia non mangia, che è anoressica, oppure che è bulimica, ma il problema è che mia figlia non vuole vivere, questa è la verità, cioè ha un rigetto della vita. Al di là degli eccessi che vanno sempre negati e individuati come cose degradanti, l’esperienza del mangiare è la celebrazione stessa della vita, per cui ogni convivialità contiene una sorta di invocazione di vita anche per le persone che noi diciamo “non ci sono più”, e non è una dicitura esatta, perché non è vero che non ci sono più: non le vediamo, non ne abbiamo più esperienza, non le tocchiamo, non ne ascoltiamo la voce, ma ci sono. Queste persone sono invocate all’atto in cui noi ci sediamo a tavola; sarà il posto vuoto, sarà “Ti ricordi?”, sarà “L’anno scorso c’era, era con noi”, sarà una frase, ma anche un sapore: il ricordo è legato anche ai sapori, i sapori delle ricette di mia madre, i sapori di quand’ero bambino, cioè è tutta una serie di sollecitazioni che partono dall’aspetto concreto, umano, corporale, sensitivo del mangiare e che poi aprono ad altro (“Questo cibo lo abbiamo mangiato quando eravamo in viaggio di nozze”, “Questa ricetta l’ho scoperta quando è nato il nostro primo figlio”…). C’è una storia anche nelle cose che mangiamo, c’è una rete di connessioni umane legate a persone, legate a momenti, legate ad eventi della nostra vita. Effettivamente qui la vita succhia, risucchia anche dalla morte. Prendiamo quanto di buono è scritto, in codice, nel mito di Orfeo ed Euridice legato alla “cena d’adDio”: noi mangiamo non come offesa a chi non c’è, ma mangiamo in memoria… “Mi raccomando: fa’ la ricetta come la faceva mamma” magari dirà un marito alla moglie… Adesso ci apprestiamo alle pastiere: ci sono cinquemila modi diversi di fare le pastiere, non esiste una pastiera uguale ad un’altra, eppure la pastiera è lo stesso dolce, ma ogni famiglia ha il suo modo di farla e speriamo che questo modo sia anche il ricordo del modo con cui faceva la pastiera mia mamma, mia nonna, quando tiravamo fuori dal forno a legna… Tutti questi rituali, questi profumi, dicono storia. Queste cose così semplici poi si aprono come dei fiori, inaspettatamente. In queste sconnessure, in questi intrecci, in queste trame di cibi, di ricette, di fatti, di ricordi, di persone, ecco emergere la vita: la vita viene anche a rievocare chi, oggi, non è fisicamente con noi. Ho fatto questa digressione - tra l’altro non me l’ero preparata - ma me l’ha sollecitata il brano: la danza degli spiriti beati e il viaggio negli inferi di Orfeo è l’esperienza del mangiare. Adesso noi non riusciremmo a commuovere gli dei con il nostro flauto, con la nostra musica, con la nostra cetra secondo il mito, ma sederci a mensa il giorno di Pasqua, sederci a mensa in certi momenti, in certi anniversari, in certe celebrazioni familiari è richiamare, non solo alla memoria, ma alla vita, chi è nella Vita. Quindi vi offro questa seconda sollecitazione, ancora molto umana, sul mangiare come rievocazione: d’altra parte, non c’è ricordo, non c’è momento importante da celebrare che non abbia la sua tavola imbandita.  

G. Tartini

Andante cantabile

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Dal Vangelo di Marco (14,12-16)

12 Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: "Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?". 13 Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: "Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d`acqua; seguitelo 14 e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov`è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? 15 Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi". 16 I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua.

 

Questo è un brano che normalmente non rientra nel “circuito ufficiale” (il Giovedì Santo, nella Messa in Coena Domini, siamo già nel cuore), fa parte dei Vangeli dei primi giorni della Settimana Santa, ma è importante, altrimenti non riusciamo a contestualizzarci nella Cena, questa o in qualsiasi altra, rappresentata come centro della vita di Gesù, in qualche maniera anche più dell’evento della Crocifissione, qui misticamente anticipato. Mi riferisco a cosa significava la Pasqua per gli Ebrei, e qui dovrei tenervi per ore, ma credo che nessuno di voi sia del tutto a digiuno di quanto la Pasqua costituisse il cuore dell’esperienza ebraica, di come fosse memoria della Notte della Liberazione, dell’angelo che passa e salta le case degli ebrei in Egitto (è la notte in cui muoiono i primogeniti per questo poi bisogna offrirli al Signore), quindi è una notte epica ed un’esperienza epica che attraversa tutto l’Antico Testamento e che, fin dall’inizio, trova una sua ritualizzazione: gli ebrei sono tali quando dovunque si trovino (il loro sogno è di celebrarla a Gerusalemme), possano celebrare la Pasqua. Questa è la tessera di identità di un israelita, ieri come oggi. Perché questa ritualizzazione? Perché in questo rito il popolo trova la sua identità, racconta una storia, si proietta verso un futuro; questo è il popolo intero ed è il popolo ciascuna famiglia, perché la Pasqua è una festa familiare, non è per gli Ebrei una festa sociale o da vivere in una grande assemblea (come per noi la Pasqua cristiana), ma è una celebrazione fondamentalmente di stampo familiare: bisogna riunirsi a gruppi e fare le stesse cose alla stessa ora e avere lo stesso menu su tutte le tavole, sia che ci troviamo in Polonia, sia che ci troviamo in Francia, sia che ci troviamo in Palestina. Tutto questo contenuto, che aveva alle spalle già secoli di ritualizzazioni legati al mangiare, converge nella Pasqua di Gesù, perché l’evento della Morte e Resurrezione di Gesù ha coinciso - e non è un caso, beninteso - con la celebrazione della Pasqua. Gesù avrà vissuto altre Pasque con i suoi discepoli, ma questa, per una serie di sensazioni, di profumi, di allusioni che il Maestro ha profuso abbondantemente nei suoi discorsi e nel rapporto con i discepoli, è una Pasqua importante, non è una Pasqua qualsiasi. Allora la domanda è: “Dove vuoi che andiamo a preparare la Pasqua?”. Significa che questa celebrazione era anticipata da una serie di preparativi e i preparativi - voi me lo insegnate, vale anche per i vostri riti familiari o parrocchiani o diocesani - hanno valore nella misura in cui sono preceduti da tutta una macchinazione (adesso prendete il termine in senso positivo), da un muoversi di eserciti, da un formicolio di gente che va per i negozi, da una serie di sguardi, di musiche di sole che sorge prima del tempo, di plenilunio… Quando non c’è questo, anche la Pasqua liturgica rischia di abortire. Credo di avervi detto in questa sala, prima di Natale, che Natale è l’attesa di Natale (spero che qualcuno di voi se lo ricordi. Almeno io ho una vaga memoria di averlo detto). Lo stesso, in qualche maniera, valga per la Pasqua, ma non nel senso che è vuota e quindi è tutta nell’attesa, ma nel senso che ha contenuto, ha spessore, ha incidenza nella misura in cui è stata preceduta da una serie di preparativi interiori, ma anche esterni, ma anche di luoghi. Dice l’evangelista Marco: "Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?". Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: "Andate in città – Gerusalemme - e vi verrà incontro un uomo con una brocca d`acqua - qui c’è un linguaggio in codice, è un riferimento al battesimo: c’è uno che è andato ad attingere acqua alla fontana al centro del suo quartiere – seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov`è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala - come questa - con i tappeti, già pronta; là preparate per noi". Attenti, sembra una contraddizione: “già pronta” e “là preparate per noi”. Com’è? È pronta o bisogna prepararla? Tutt’e due. Innanzi tutto c’è un’architettura della Pasqua, e quella non dipende da te, non te la inventi: ci vogliono i tappeti, ci vuole una grande sala (anche questa è una sala alta, come il Cenacolo). Poi su questa struttura, su questo luogo geografico, si inserisce l’apporto umano: là preparate per noi. Quindi ci sono due tipi di preparazione: c’è una preparazione remota, all’atto in cui è stata costruita la sala (dico “questa” per dire quella che ancora si può visitare a Gerusalemme, sempre con una certa approssimazione, una sala con gli archi) e quella c’è già, ma poi bisogna prepararla. Quindi i discepoli hanno una, due giornate per abbellire la sala ulteriormente, per preparare la mensa e questo menu particolareggiato che l’Antico Testamento indicava come modo per celebrare: l’agnello maschio, senza difetti, poi bisogna sacrificarlo, poi bisogna arrostirlo, poi ci vogliono le erbe amare e poi ci vuole l’uovo sodo, segno dell’infinità di Dio, ecc… Tutta una serie di indicazioni che, a guardarle, sembrano una sorta di “ricettario” e che invece rientrano nell’architettura della Pasqua. Questo non lo sto dicendo semplicemente come archeologia storica, ma questa Pasqua che ha da accadere tra otto giorni circa, dieci giorni, l’hai preparata?, l’abbiamo preparata?, l’ho preparata dentro di me, attraverso l’itinerario quaresimale? Abbiamo bruciato i rametti in cattedrale, fatto i fioretti, la via Crucis…? Altrimenti sarà un semplice rito che non ti toccherà e quindi non avrà la forza della memoria, non avrà la tensione della profezia, come diremo nel prosieguo del nostro discorso. Quindi: “Dove vuoi che prepariamo la Pasqua?”. Voi dite: “Ma ci hai convocato per scoraggiarci?”. No, perché otto giorni sono tanti per attrezzarci nel recuperare il tempo. Ho incrociato lo sguardo di Gianfranco che tra un mese si sposerà: un Matrimonio come si prepara? Mica… Domani ci sposiamo! No, un anno prima, due anni… Quando si va da alcuni albergatori, bisogna prenotarsi tre anni, cinque anni prima, magari uno potrebbe tirare le cuoia…: “Adesso venite?!? Qui già si sono prenotati da dieci anni!”. Al di là delle esagerazioni, c’è, in ogni evento grande, tutta una serie di macchine che si mettono in moto, mentali, di arredamento, di doni, di riti da compiere, per cui poi si arriva al giorno del Matrimonio con tutta questa regia che ha investito anche tante persone. Mi chiedo se questo non debba accadere anche per la celebrazione centrale della nostra fede che si chiama Pasqua. Allora: “Dove vuoi che prepariamo la Pasqua?”. Uscendo da questa riflessione, mi attrezzo per recuperare il tempo perduto, perché probabilmente mi sono attardato e per questa Pasqua penso che la stanza sia già pronta, ci sono i tappeti, c’è l’architettura, c’è la celebrazione, ma io non ci sto, non c’è nulla di mio: cosa ho messo?, quanto di me è impastato in questo pane che sta per essere consacrato?, in questo vino che sta per diventare sangue di Cristo?, che tipo di passaggio ho intenzione di operare in questa Pasqua? Spero che quello che ho detto semplicemente, muova qualcosa dentro di voi, per dire: ma questa Pasqua è pronta?

J. S. Bach

Aria dalla Suite in re maggiore

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Quando si misero a tavola, Gesù disse: “Uno di voi mi tradirà”. Dopo tutti questi preparativi, questo Gesù viene a gettare il pomo della discordia sul tavolo, come nel mito antico “Chi è la più bella di tutto il reame?”: ci fa apparire Gesù come uno che viene a rompere la bella atmosfera che abbiamo costruito. Perché Gesù dice questa cosa ora, adesso, nel più bello, ora che è tutto pronto, ora che stiamo celebrando la Pasqua? Al di là del collegamento storico, perché il traditore siede a mensa con gli altri Undici, è uno dei Dodici (forse sono tutti e Dodici all’atto di tradire il Maestro), questa parola - ripeto - non è legata solo a quello che sta per succedere, ma è anche – ed è quello che vorrei sottolineare - una dimensione essenziale della convivialità: quello che a noi sembra un incidente di percorso e nel corso dell’Ultima Cena, di questa “cena d’adDio”, è in realtà quello che accade in tutte le cene vere, perché poi ce ne sono anche delle false, dove bisogna rispettare le regole, dove bisogna prendere le posate giuste e scambiarsi quattro chiacchiere senza sfiorarsi, senza mangiare l’uno l’altro. Lì non succederà niente, perché andrà tutto bene, ma questa non è la vita: la vita è fatta di incidenti, la vita è fatta di tradimenti, la vita è fatta di morti, la vita è fatta di speranze che tu riponevi in qualche persona che ti delude, di un figlio che non torna, di una incorrispondenza, di una infedeltà… La vita è questo. Anche qui ho una mia deformazione: colgo l’aspetto antropologico dell’annuncio di tradimento di Gesù che sembra stonare con tutto quello che è in giro, con tutto quello che si sta preparando. “Uno di voi mi tradirà”: “Ma lascia stare, non lo dire, dillo all’interessato, non ci coinvolgere in questo dramma, lasciaci mangiare in pace questa cena”, potremmo dire e sbaglieremmo, perché vi sfido a ricordare un pranzo, una festa, una cena dove non ci sia stata un’ombra. È impossibile, perché se adesso voi avete pensato: “Ma in quella cena lì è andato tutto bene” non avete letto bene, perché sotto, comunque, c’era altro e forse non avete letto, forse eravate troppo piccoli per leggerlo o innocenti o sbadati, ma le cene vere sono quelle dibattute, sono quelle dove interviene la morte; proprio lì proprio adesso che stiamo mangiando e dovremmo quindi celebrare la comunione, l’armonia, intervengono fattori esterni, ma anche interni a ciascuno di noi commensali, a creare divisioni. È quello che vedete tra i figli: quand’è che sorgono questioni, se avete dei ragazzi in età scolare?, quando? Quando si sta a tavola. Allora, sempre le mamme protestano: “Ma proprio adesso!?! Non possiamo affrontare dopo la questione?”. No, perché quello è il momento in cui ci confrontiamo e veniamo fuori con i nostri doni ma anche con le nostre pecche. Allora, sì, questo è l’annuncio del tradimento (e non voglio togliere dramma ovviamente a questo annuncio), ma forse tutte le nostre cene sono così, tutte le nostre feste contengono un annuncio di tradimento. Ma forse c’è una convivialità che non sia disturbata?, c’è un’amicizia che non sia tradita? c’è un’armonia che non abbia la sua dissonanza, la sua stonatura? Non è una visione pessimistica. Credo d’essere piuttosto aderente alla realtà. Addirittura invoco questo aspetto come essenziale di un’esperienza di convivialità, altrimenti noi stiamo facendo un ballo in maschera: tutti facciamo i bravi, tutti diciamo va tutto bene e ci siamo tutti. Per esempio, basterebbe questo particolare: ci siamo mai tutti? No, è impossibile: manca sempre qualcuno e più andiamo avanti negli anni e  più vediamo che le persone che mancano sono di gran lunga superiori di numero a quelle presenti e allora questo amareggia una cena, amareggia una festa, amareggia un Matrimonio, amareggia una qualsiasi celebrazione familiare che volesse avere la presunzione d’esser perfetta; amareggia perché questo amaro è nella vita e quindi i discepoli si chiedono: ma sono io?, sono io?, sono io? Ognuno di loro è un traditore. “Uno di voi mi tradirà”. Non vi sembri drammatico questo aspetto che ho tentato di comunicarvi: forse vi farà riappacificare con queste cene “andate male” che forse non sono così andate male come ne abbiamo ricordo perché ci accorgiamo, ora, che rientrano nella norma delle cene, nella norma della convivialità. “Uno di voi mi tradirà”.

W. A. Mozart

Ave verum Corpus

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Man mano che parlo mi si stanno aprendo nuovi files rispetto a quello che avevo preparato, come questo che adesso enuncio brevemente che meriterebbe una trattazione a parte. Gesù dice: “Colui che mangia con me mi tradirà”. Questa espressione sembra aggiungere dramma a dramma. Non solo Gesù è tradito, ma è tradito da uno dei suoi; di più: è tradito da uno che sta qui e che sta mangiando con lui e - diciamo - di lui (cfr mamma, latte e “Questo è il mio corpo”, come dirà tra poco). Ma il traditore - enuncio soltanto, sarò brevissimo, telegrafico, spero - il traditore può essere un nemico? No, perché tu dal nemico il tradimento te lo aspetti e non è tradimento. Il nemico che ti viene contro fa il suo mestiere, fa quello che tu ti aspetteresti da lui, ma il tradimento presuppone l’amore, presuppone una relazione particolarmente intima, presuppone una comunione che ora sta per rompersi. Il tradimento non potrebbe accadere se non nella cornice di questa comunione, altrimenti sarebbe un gesto certamente grave ma che non ti apporterebbe tutta quella sofferenza che il tradimento comporta. “Proprio lui?”, diciamo del figlio, del marito, della moglie, dell’amico, della persona che è stata con noi, che ha condiviso, che ha mangiato lo stesso pane e che adesso è un oppositore. Il tradimento – adesso enuncio così in una maniera un po’ paradossale, come sempre – affonda le radici nell’amore, nell’amore ricevuto innanzi tutto: se uno non ha ricevuto amore non può tradire. Ti tradisce tuo figlio, colui che è amato da te, colui che ha bevuto di te, colui che è stato alla tua mensa. Qui c’è un archètipo che appartiene alla lettura psicanalitica, ma che continuamente noi riscontriamo (ne facevo riferimento all’ultima Preghiera-Giovani, quindici giorni fa) e cioè l’uccisione del padre. Il padre si uccide sempre, non nel senso che si suicida, ma si uccide cioè i figli uccidono il padre, in qualche maniera, nei loro sogni, spesso concretamente. Non mi riferisco ai fatti efferati di violenza dei figli nei confronti dei loro genitori, quanto quel tradimento più comune che è il fatto che tuo figlio ti va contro, come diciamo noi in napoletano, fa cose opposte a quelle che gli hai insegnato, ti ritiene sorpassato, d’altri tempi o dilapida il tuo patrimonio. QQQuesto non vuole essere un invito a non amare, anzi continuiamo ad amare, amiamo di più a rischio di aumentare a dismisura i nostri traditori: ma il traditore avrà anche possibilità di tornare e forse mette alla prova il nostro amore, se è autentico, se siamo stati veramente gratuiti nel dare. Il traditore smaschera la tua paternità falsa o evidenzia la tua vera paternità. Non è un invito al tradimento, ma voglio dire che in questo dramma  – ed è quello che avrei voluto dire brevemente, ma mi accorgo adesso di aver già impiegato troppe parole – c’è sempre da dire che l’humus del tradimento è l’amore. Ci sono due possibilità: o decidiamo di non amare più e non ci saranno più traditori, ma ahimé finisce il mondo, o continueremo a investire gratuitamente, follemente nell’amore anche se nasceranno dei vermi in questa realtà meravigliosa che noi abbiamo progettato, fosse anche una cena, dove qualcuno viene a pugnalarmi alle spalle. “Quoque tu, Brute, fili mihi”.

J. Pachelbel

Canone in re maggiore

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Il canone di Pachelbel che abbiamo ascoltato, ci insegna come su poche note, su una manciata di note, si possano creare tutte queste variazioni: tutto si gioca su pochissime note poi ripetute non in una maniera monotona, ma con variazioni, con arricchimenti, con volute barocche (siamo nella musica barocca). Potremmo reagire ai tradimenti scappando o negando. L’ultima cena, “Cena d’adDio” il tema che ci tiene insieme stasera, ci insegna non solo il donarsi di Gesù nell’immediata vigilia della Passione (si tratta di ore), ma ci insegna anche come reagire. Io vi ho lasciato con le parole di Cesare alle idi di marzo: “Quoque tu”. Quella mattina probabilmente egli sapeva a cosa andava incontro, ma si presenta con la sua toga bianca, incontaminata, che probabilmente prevede essere di lì a poco sporcata di sangue, il suo sangue. Ovviamente, nego paritatem tra Gesù di Nazareth e un personaggio della storia romana, però è importante questo presentarsi, questo consegnarsi in qualche maniera: consegnarsi al figlio. È una vita che io ho cercato di inculcare ai genitori che, quando i figli vengono a  ucciderci, dobbiamo farci trovare in poltrona, distesi, come se non sapessimo cosa sono venuti a fare, a metterci in difficoltà, a rimproverarci, a recriminare, ad ucciderci. Oggi i genitori scappano o si travestono da figli, per cui il figlio non vede più il padre. Invece “io sono il padre, sono venuti a uccidermi e sono qui in poltrona”. Questa cosa è redentiva per il figlio, dopo, non sul momento: mio padre si è fatto trovare all’atto in cui sono andato a schiaffeggiarlo, all’atto in cui sapeva che l’avrei tradito. Gesù ci insegna come reagire al tradimento. “Mentre cenava prese il pane, rese grazie - conosciamo queste parole che risuonano in ogni Eucaristia - lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Questo è il mio corpo, prendetelo, è vostro”. Per cui vi dicevo prima, anticipandovi questo concetto, nell’Ultima Cena c’è già la morte di Gesù, perché? Perché c’è il corpo e poi c’è il sangue. Adesso dove il sangue è diviso dal corpo, c’è la morte quindi questa divisione degli elementi, pane e vino, corpo e sangue, dice: sono morto, sono già morto e quindi c’è un anticipo mistico di quello che accadrà di lì a poco nel consegnarsi a Giuda e agli altri che vengono con lui, nella notte, con le torce, e poi nel consegnarsi al mondo. Allora l’Eucaristia è questa dimensione inerme di Dio nei nostri confronti: tu puoi fare di Dio quello che vuoi, perché Lui si consegna. Questo è l’amore: l’amore è consegnarsi, consegnarsi al traditore, consegnarsi a chi dopo capirà, consegnarsi al rinnegatore. Poi quando canterà il gallo piangerà, non adesso che è chiuso nella sua grettezza, nella sicurezza di sé. “Anche se tutti gli altri ti dovessero rinnegare io non ti abbandonerò”, dice Pietro. Ma di lì a poco, lo scenario cambia. Allora l’Eucaristia - e questo dovrebbe accadere in ogni cena, in una maniera di sacramentalità diffusa - è questa lezione d’amore dove, anziché scappare, colui che è tradito si consegna anticipando il tradimento. Ci sono versioni diverse su “Giuda era lì ancora o era già uscito?”. Era ancora lì secondo molti. Dice Giovanni che, quando va via, era notte. Era notte dentro di lui, ma ha fatto la Comunione, ha ricevuto questo dono, adesso non ha da fare che porre la firma su quello che Gesù ha già fatto, consegnandosi a lui: è il mio corpo, è la mia vita, è quello che io ho imparato, è il mio cuore; prendilo, mangialo; prendilo, bevi. Credo che quello che vi ho detto all’inizio (abbiamo imparato a mangiare bevendo da nostra madre) ci aiuterà a capire di più l’Eucaristia, cioè questo consegnare il proprio corpo: è dell’amore, questo. Nell’amore si consegna se stessi all’altro, il proprio corpo all’altro, sia l’altro marito, moglie, sia l’altro il figlio, i figli, cioè noi ci diamo in pasto. In questo momento, anch’io vi sto dando in pasto. “Ma che fa questo?, che argomenta?, che impasta questo Vescovo?, forse dobbiamo fare una sottoscrizione alla Congregazione della Fede?, mi ha confuso le idee…”. In questo momento mi sto dando in pasto, esponendo quello che non solo è la fede - quella è certa - ma anche certe sfumature, certi modi personali, intimi di vivere la fede, rispetto a questo evento della Cena d’adDio, e voi potreste pugnalarmi. È chiaro che chi parla, un insegnante per esempio, si espone senza corazza ai suoi alunni, non andiamo corazzati, è sempre uscir fuori dal campo, uscir fuori dalla difesa, mettere in un angolo lo scudo e dire: “Ecco, sono il vostro Vescovo, uccidetemi, sono qui” e voi… come succede sempre. Ma questo succede in tutte le diocesi, in tutte le parrocchie: tutte le comunità sono così. Il problema è quando noi poi viviamo questo, deprimendoci. Ecco, non hanno capito niente!, ecco, i miei figli mi hanno tradito! No, è così, forse dev’essere così. Tu consegnati e consegnati anche quando sei certo che l’altro sta facendo una comunione - come si diceva una volta, ma vale anche oggi – sacrilega, cioè consegnati nelle mani dell’uomo indegno: prendimi, è il mio corpo, è il mio cuore, è la mia vita, è la mia cultura, è quello che ho capito della vita. Prendete, mangiate…

C. Saint-Saëns

Il cigno da “Il Carnevale degli animali”

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Il violoncello è sempre un po’ mesto nel timbro, un po’ rauco: l’abbiamo ascoltato in questo assolo. Pensate che quando si suona da soli, si è senza veli, nudi, perché finché suonano in tre, nel trio, se una nota esce un po’ falsa, si nasconde, ma se uno suona da solo, quello è, non ci sono nascondigli: quindi la tensione di chi è solo. Mi sembra un buon commento, anche se non ci siamo messi d’accordo, ma le cose tornano a intreccio anche tra le note e le parole, un buon commento a questo consegnarsi solitario di Gesù: “Prendete, questo è il mio corpo. Bevete, questo è il mio sangue”. Ma voi pensate che i discepoli si sono accorti di qualcosa? No, nulla! Mica avevano l’atteggiamento della Prima Comunione?! Non so, come l’Ultima Cena di Dalì: tutti in ginocchio come dei monaci. Io sono affezionatissimo a quel dipinto perché mi trasmette il senso del raccoglimento, ma nulla di tutto questo: pensavano ad altro, avevano altro per la mente, non hanno capito niente! E questo rende il gesto di Gesù ancora più solitario, perché anche un’arcata di violoncello, sia pur nella tensione del solista, senza rifugi come abbiamo ascoltato, però nel silenzio, ha avuto la sua eco, ma nel chiasso… Se tu avessi suonato e… chi parlava, chi fumava… QQQuesto ha fatto invece Gesù: non hanno capito nulla di quello che veniva loro consegnato. Han pensato che fosse vino normale, una coppa in più di quelle che il rituale ebraico faceva passare. “Chissà… si è dimenticato… beviamo anche questa” ma non sanno che è il suo sangue, non sanno che è il suo corpo: questa è una solitudine nella solitudine. Dedico questi ultimi minuti che rimangono a questa triplice scansione, come se fossero tre movimenti della cena, e qui della Cena d’adDio, ma è ogni cena, ogni pranzo, ogni festa. Innanzi tutto è memoria: memoria perché noi non siamo nati stamattina, non siamo appena nati. Abbiamo vent’anni, trent’anni, cinquant’anni, sessant’anni, settant’anni e quindi arriviamo a questa cena, arriviamo a questa festa, arriviamo a  questo Matrimonio, a questo invito che ci è stato rivolto dal Vescovo, a “In punta di piedi in Episcopio” con la nostra storia che viene qui riedita, che viene ricordata. Quella personale, ma anche quella comunitaria, ma anche quella della famiglia. Questo memoriale, termine importante per la Teologia dell’Eucaristia, ha anche una dimensione umana, cioè le famiglie devono ricordare di più, particolarmente oggi che siamo a  corto di memoria: i nostri figli non ricordano niente. A volte chiedi a una persona: ma di questo mese che ti ricordi? Niente. Non c’è più memoria. Allora, ancora di più oggi, bisogna ricordare: ti ricordi? C’era il nonno l’anno scorso, adesso non c’è. C’era quella persona: ti ricordi?, ti ha fatto quel dono… Ti ricordi? La memoria è il primo ingrediente della Cena d’adDio e di ogni cena, di ogni festa, di ogni evento umano, perché io vi giungo con un bagaglio di fallimenti, di gioie, di abbracci, di coltellate e arrivo lì, e sono io, e non sono solo io, ma ci sei anche tu, ci siamo anche noi e noi abbiamo anche dei ricordi in comune. La Chiesa, continuamente, dice “ricordati”, in particolare la Preghiera Eucaristica, intercalata dal “Ricordati, Padre”: innanzi tutto ricordati di Gesù e del suo sacrificio, poi ricordati del nostro Papa Benedetto, ricordati del nostro Vescovo, ricordati del Collegio Episcopale, ricordati dei nostri defunti, ricordati... L’importante è che noi continuamente ricordiamo verbalmente, fattualmente, altrimenti una cena senza memoria, una cena che non abbia un incontro, che non abbia le sue radici, non ha significato. Ricordati...

F. Ortolani

Fratello sole, sorella luna

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L’ultima parola la dedico agli altri due movimenti, come se la Cena d’adDio (d’adDio nel senso che va verso Dio e che è divina) ha tre momenti come una sinfonia, quindi la memoria (ti ricordi?) e poi l’attualità, cioè chi concretamente adesso sta seduto a questa mensa, chi sta mangiando, chi ho davanti, chi siamo noi che ci siamo riuniti qui per il pranzo di Pasqua o per la Celebrazione Eucaristica nella nostra parrocchia: siamo noi. Allora riconoscerci per quello che siamo: “Guarda, c’è anche Marco, c’è anche Mimma, c’è anche…”. Dire il nome dell’altro, significa dargli un’attestazione di vita (ci stai veramente?). Siamo noi, siamo vivi (questa cosa così semplice, che dovrebbe riempirci di gioia): siamo vivi, noi adesso qui, non siamo morti, non è un miracolo? Voi dite: dopo tutto quello che hai detto, ci hai tartassati come se fossimo morti. Siamo vivi, siamo noi qui, ora. Siamo noi: noi che ci vogliamo bene, noi che ci riconosciamo, noi con i nostri nomi, con  le nostre storie qui, adesso, non in un altro posto. Qui in questo spazio, in questa stanza superiore dell’Episcopio ridata ai componenti della Diocesi. Siamo qui, non stiamo in un altro pianeta, siamo qui, in questo piccolo orticello della Terra di Lavoro, siamo qui. E poi: ora, adesso… Le indicazioni che riguardano il tempo e lo spazio, significano attualità, cioè il presente. Il pranzo, la cena, anche l’Ultima Cena, celebrano il presente. Gesù dice: siamo qui. “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa cena con voi, in questa sala, noi e non altri. Ma la cosa più importante e più difficile è il terzo movimento di questa sinfonia della cena: lo sguardo al futuro. Poche volte ci alziamo da tavola con un proposito, con un progetto, con un sogno e questo ci condanna. Noi mangiamo senza produrre, mangiamo, consumiamo senza sognare. “Invece domani saremo…”. Saremo non solo in un altro posto, ma in una condizione migliore dove non ci sarà Giuda, dove non saremo traditi: dimensione della proiezione verso un futuro. D’altra parte non avrebbe senso neanche mangiare se noi non fossimo proiettati verso un futuro. Perché mangiamo? Per sopravvivere, per vivere anche domani per non morire per strada. Quindi il mangiare riguarda il futuro, riguarda noi in un’altra condizione, in una maggiore maturità, in una maggiore unità di coppia, in una situazione meno scalcinata (quando cade la calce, diciamo “questa è una parete scalcinata”): lo speri?, lo sogni? Sennò questa cena è un fallimento, anche l’ultima è un fallimento. Noi lo diciamo nella messa: “Annunziamo la Tua morte, Signore, proclamiamo la Tua Resurrezione, nell’attesa della Tua venuta”. C’è una forte tensione verso un di più, più che un di là, un di più d’essere come persone, come comunità, come famiglia, come Chiesa, come comunità civile. Allora chiediamo - e chiudo - che questa Pasqua ci faccia celebrare così: è memoria della Pasqua degli ebrei, della Pasqua di Gesù, soprattutto, poi attualità adesso, qui, nella mia parrocchia, nella mia vita in questo momento della mia esistenza, ora che si sta sposando mio figlio, ma adesso, noi, qui, ora, verso. Questo “verso” qualche volta dovrebbe proprio coniugarsi concretamente e dire: sì, ora quando ci alziamo da tavola facciamo questa cosa, ci trasferiamo in questa casa, facciamo questa telefonata di riconciliazione. È questo il modo perché tu ti rimetta in collegamento con quella persona con cui hai chiuso. Se non c’è sogno, se non c’è profezia, se non c’è tensione per il futuro, allora tutto ricade in un eterno presente monotono. Gli ebrei avevano ed hanno ancora oggi un’espressione con cui si chiude la loro Pasqua, la loro celebrazione familiare è: “Quest’anno qui, l’anno prossimo a Gerusalemme”. Adesso facciamo la Pasqua non nella Terra Promessa, ma l’anno prossimo ci diamo appuntamento tutti a Gerusalemme. Magari non si realizzerà mai questa cosa fattualmente, però è una grande tensione a dire: vogliamo celebrare la Pasqua nel luogo più santo dove la Pasqua è al top delle sue possibilità. Noi questo luogo ce l’abbiamo, cari amici: è un luogo fuori luogo, fuori di ogni luogo, ou topos, nell’utopia. Questo luogo si chiama Cielo, si chiama futuro di Dio, si chiama l’Ulteriorità della vita e della morte. Noi dobbiamo avere questa tensione e, in questa tensione, la memoria si collega, perché lì troverò quelli che erano alle spalle: li trovo avanti. Mi riferisco ai defunti che erano prima dietro di me, mi guardavano le spalle e adesso sono davanti a me, sono nella parte di processione che avanza e quindi un padre defunto, dalle spalle passa avanti, una madre defunta dalle spalle passa avanti, quindi è più giovane di te, è più avanti di te, devi raggiungerla. Questo è Pasqua. Vi auguro di celebrare così questa Cena d’adDio.

Diciamo insieme: Padre nostro…

Ascoltiamo Beethoven, poi vi do la benedizione e chiudiamo con Listz.

L.V. Beethoven

Romanza in fa maggiore op.50     

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Ringraziamo i nostri tre giovani maestri per il sostegno che hanno dato alla nostra serata, alla nostra preghiera, alla nostra riflessione. Uscendo, riceverete un numero di Presenza. Ringrazio Ernesto Perrone, qui presente, che è il redattore capo di Presenza già dal tempo di Mons. Tommasiello. Ci sono anche gli orari della Settimana Santa in cattedrale e vi invito, in particolare, alla Messa Crismale, Mercoledì Santo, alle ore 18:30, momento corale della nostra Diocesi.

 

Benedizione del Vescovo

 

Ascoltiamo l’ultimo brano, poi con un applauso possiamo dire grazie ai tre concertisti. Diamo gli auguri anche a Gianfranco, alla viola, che il 30 Aprile celebrerà il suo Matrimonio: è un modo per affidarlo alla preghiera di tutti. Ascoltiamo l’ultimo brano.

F. Listz

Sogno

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Grazie a tutti e buona serata. Buona Pasqua non ce lo diciamo ancora, perché avremo modo di farci gli auguri.

 

 

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.