In punta di piedi in Episcopio

Riflessioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Natale dell’attesa

l’attesa del Natale”

 

Teano, 21 dicembre 2011

 

Salone dell’Episcopio

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Attendere la vita e alla vita

Attendere-tendere-soffrire

Attendere se stessi

Attendere gli altri e con gli altri

Attendere Dio

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Soprano: Marianna Russo

Violino: Domenico Mancino

Violoncello: Vladimir Kocaqi

Pianoforte: Maria Teresa Roncone

 

Nel nome del Padre…

 

Spegniamo i telefonini, fonte di rumore, perché vogliamo disporci alla melodia, al suono, che è rumore convertito. In questo tempo prenatalizio e poi nel tempo natalizio siamo invitati ad aprirci all’armonia vincendo la volgarità del rumore.

Prima ancora di cominciare, ringrazio Marianna, Domenico, Vladimir e Maria Teresa che offrono la loro competenza artistica per aiutare la nostra riflessione e la nostra preghiera.

Cominciamo dal titolo di questa nostra serata - Natale dell’attesa, l’attesa del Natale - un tema su cui ci siamo fermati anche altre volte, ma che puntualmente, quando si stringono i tempi (il Natale sopraggiunge d’impeto), dobbiamo ripetere, perché il Tempo d’Avvento è troppo breve (se un giorno qualcuno di voi venisse promosso Papa da qualche parte, allunghi un tantino il Tempo d’Avvento, perché non si ha il tempo di iniziarlo che già è finito e quindi non abbiamo possibilità di giungere alla Solennità con un minimo di cammino, di preparazione).

Natale dell’attesa, perché c’è una donna in attesa, perché siamo in attesa noi stesi, ma anche attesa del Natale: mettiamo insieme questi due temi per la nostra serata.

 

G. Caccini – Ave Maria

 

La vita è coniugare verbi. Ce lo dicevano quando eravamo bambini, alle elementari, ma poi l’abbiamo dimenticato, dimentichiamo i tempi. A volte siamo fuori tempo, come accade nelle esecuzioni musicali, o non capiamo il tempo dell’altro o non coniughiamo nel tempo giusto, utilizzando un imperfetto laddove non serve, non è giusto. E non parliamo del congiuntivo! (Sembrano tempi d’altri tempi…)

Questa sera, nella nostra preghiera d’arte e nell’arte della nostra preghiera, noi vogliamo coniugare il verbo “attendere” (attesa del Natale e Natale dell’attesa) e lo coniughiamo con la scansione che ho messo sul foglietto, nella scaletta delle comunicazioni del Vescovo. Innanzi tutto guardiamo questo verbo (come se fosse scritto su un grande display) come il verbo dell’Avvento, ma anche come il verbo della vita.

La vita è fondamentalmente attesa: attesa di un ritorno, attesa di un evento, attesa di un posto di lavoro, attesa di uscire dal tunnel dalla crisi economica mondiale, attesa di un figlio, attesa di una migliore collocazione lavorativa, attesa di una realizzazione affettiva… Allora la prima scansione è attendere la vita e alla vita, perché il Natale ha una umanità esorbitante che a volte ci sfugge, un po’ presi dalla poesia. Il Natale è molto aderente alla vita, perché il Natale è nascita e la vita vuole nascere. Dunque l’attesa innanzi tutto è attesa della vita. Attendere la vita e alla vita sono le scansioni di un unico movimento: qual è l’oggetto dell’attesa? Liturgicamente, per noi, è l’attesa del Natale. Ovviamente il Natale è un giorno, ma anche un mistero accaduto 2000 anni fa e ancora da esser compreso, abbracciato, da cui lasciarsi abbracciare e dunque è l’attesa di una nascita, e la nascita è l’evento che immette nella vita. Non è solo la nascita di Gesù, ma è anche la nascita delle cose, la nascita del mondo, la rinascita. Natale è un mattino, Natale è ogni mattino quando apriamo gli occhi o la finestra e, come in questi giorni, respiriamo aria fredda. Qualcuno avrà detto: “Finalmente un po’ d’aria fredda che rinfresca un po’ la mente, i pensieri, che ci fa guardare in una maniera più nitida!” (quando c’è freddo, l’aria è anche più tersa, si vede più lontano). Capita anche a me di vedere, solo d’inverno, il mare dall’Episcopio, anche se è solo una piccola striscia all’orizzonte; d’estate è impossibile: c’è la calura, ci sono i vapori e quindi la vista si fa molto corta. In questo senso c’è una dimensione cosmica del Natale, che certamente riguarda il Figlio di Dio che si incarna, ma riguarda anche questo mondo desideroso di nascere.

Si attende la vita nella misura in cui si attende alla vita, perché la più grande obiezione che giustamente nel corso dei secoli hanno posto al Cristianesimo o al modo con cui il Cristianesimo è stato vissuto - e quindi alla Chiesa - è stata quella di essere un po’ lontani dalla vita. E la vita è il pane, la vita è il bere, la vita è dormire, la vita è l’amore, è innamorarsi: la vita nelle piccole e nelle grandi cose. In passato alcuni hanno pensato che la fede ci portasse un po’ fuori, perché l’ideale che ci tormenta dal Medioevo, che tormenta un po’ tutti voi laici, è l’ideale monastico, cioè di chi si tira fuori dalla vita e si rifugia in un monastero, in un convento, sulla cima di un monte, di un colle, tirandosi fuori. Ma il Natale non è questo: il Natale del Signore ha al suo centro l’esatto contrario, perché Dio stesso si tuffa nella vita e in una forma di vita di gran lunga - infinitamente, direbbero i filosofi - inferiore a quella che Egli vive, ma è una vita che si è generata da Lui e dunque una vita che Lo appassiona. Allora attendere la vita e attendere alla vita significa prendersi cura della vita; è come attendere a un lavoro, cioè dedicarsi a, consacrarsi a. Attendono la vita solo coloro che attendono alla vita. Se ci fate caso, a volte basta cambiare una sillaba e l’attendere può diventare un attentare. L’attendere alla vita, da parte nostra, come fede cristiana, vuole essere il modo per superare tutti gli attentati alla vita, perché ci sono alcuni che attentano alla vita, non solo nei momenti classici dell’attentato, che è l’origine e la fine, ma in ogni momento. Allora c’è bisogno di un popolo di amanti della vita, che si pongono in alternativa, che seguono - speriamo noi - un filone controcorrente, che si interessano alla vita, che anche nelle piccole forme di vita scorgono la presenza di Dio, senza finire in una sorta di panteismo.

Abbiamo iniziato con l’Ave Maria di Caccini, le cui volute ci portavano in alto; è stato un po’ il decollo, anche per Marianna nella prestazione vocale. C’è una donna in attesa, c’è una donna che nonostante gli attentati alla vita (le amiche, i parenti, quelli che hanno scorto in questa ragazza incinta qualcosa da abolire), dice sì alla vita. Natale è dire sì alla vita, ma si dice sì alla vita appassionandosi alla vita. Perdo qualche minuto in più su questo punto perché sembra che da parte del Vescovo, di un prete, di chi proponga la fede, debba accadere il contrario. Noi siamo gli amanti della vita, noi più degli altri, perché dice un testo della Sapienza: Tu sei un Dio che ama la vita. Natale è questo. Il Magnificat, che adesso ascoltiamo nella versione di Frisina, è il canto di Maria ed Elisabetta davanti a due maternità insperate, inaspettate, che cambiano il corso di queste due donne. Magnificat è il canto di due donne incinte: è un canto alla vita.

 

M. Frisina – Magnificat

 

Ma com’è attendere? Com’è attendere il Natale? Com’è attendere un figlio? Perché si fa tanta difficoltà ad attendere?

Dobbiamo riconoscere che l’attesa non è mai stata nella hit-parade dei verbi da coniugare da parte degli uomini, oggi in modo tutto speciale, perché l’attesa, anche quando è attesa di una cosa bella, grande, è sempre attraversata da una tensione e, allora, per lavorare intorno a questo progetto dell’attendere il Natale - è una sorta di laboratorio, apparentemente ad una voce, quello delle nostre preghiere In punta di piedi in Episcopio - bisogna passare attraverso i verbi tendere-attendere.

Parto dall’esecuzione dei brani che da un lato innalzano, ma pongono anche questa nostra serata in tensione, perché ci sono delle corde percosse, quelle del pianoforte, dai martelletti azionati dal premere i tasti da parte di Maria Teresa; ci sono le corde del violino, del violoncello, tese, tese in uno spasmo; ci sono le corde di Marianna in una tensione che, se non modulata, non regolata, potrebbe portarla a fare una nota falsa. Quindi l’arte nasce da una tensione. Noi pensiamo che attendere - in particolare lo riteniamo erroneamente per il Natale - significhi mettersi in uno stato di sospensione, di nullafacenti, di persone che si estraniano dalla vita, come ho detto poc’anzi. In realtà attendere è una tensione, e noi, nella tensione, non ci stiamo bene, cerchiamo di rimandarla. Se avete un numero di telefonate da fare, preferire quelle facili, quella dove il vostro interlocutore, la vostra interlocutrice sicuramente sarà contenta di sentirvi e lasciate alla fine o rimandate sine die una telefonata difficile, quella di una riconciliazione, quella di un rapporto che è andato usurandosi, perché non vogliamo soffrire. È un dato di fatto, quello che sto richiamando, apparentemente banale; in realtà se nessuno di noi vuole soffrire, viene meno la tensione, viene meno l’attenzione e viene meno l’attendere. Non so se è a questo a cui si riferiva Domenico con una battuta quando, leggendo la scaletta - Domenico, adesso darò una mia interpretazione - ha detto: “È quello che forse ci vuole per me”. Non credo che guardasse la scaletta del concerto, quanto quella del tema, perché il violino con la corda tesa è una corda sofferente, perché le corde vocali di Marianna sono in grande tensione e noi con lei, ed è forse il condividere questo dolore che rende bello un concerto, che fa comunicare. Per cui non esiste attesa senza sofferenza, perché l’attesa è una promessa che non si realizza subito. Non si riuscirà, per esempio, a condensare i giorni della gestazione da nove mesi a tre mesi. Cerchiamo di valorizzare al meglio il tempo! - diranno le donne tra cento anni, cinquecento anni, mille anni. Chiederanno agli scienziati che questo tempo sia un po’ più breve, condensato, magari tre mesi tanto per rendersi conto e per abituarsi a un figlio. Nove mesi sono tanti e spesso sono preceduti da attese interminabili, attese di esami, attese di mestruazioni che vengono, attese di progetto, di un figlio che vorremmo subito e invece si fa aspettare. Nell’attesa del Natale, nel Natale dell’attesa, nel messaggio di Maria che canta Magnificat abbracciandosi con Elisabetta e facendo in modo che questi due ventri si tocchino, perché i loro bambini possano cominciare a fraternizzare (i loro bambini si incontreranno in futuro ma loro non lo sanno), questo Magnificat, che abbiamo ascoltato nella versione musicale di Frisina, forse nasce da un dolore, da un tendere anche un arto. Qui c’è anche Attanasio, che ha cercato di mettere in sesto il Vescovo dopo il colpo alla schiena; ovviamente uno va dal fisioterapista non per andare in vacanza, non è un’ora di distensione, come d’altra parte un esercizio in palestra, un esercizio musicale, un esercizio vocale è una tensione. Guai se in questo momento io non fossi in tensione! Non vi comunicherei nulla e voi uscireste da questa sala annoiati, ma non è così nella misura in cui il Vescovo è andato girando come un forsennato per le stanze, non perché non sapesse cosa dire (ormai mi conoscete), ma perché quello che già sa bisogna impastarlo in una maniera nuova, in modo tale da rendere la nota più limpida, l’orizzonte più terso, come dicevo di queste mattine. Quindi anche per la comunicazione, se non c’è dietro la tensione, non avviene nulla. Angelo fa l’attore e lo sa: prima di andare in scena, un attore, ma anche i concertisti, hanno dentro un magone, una tensione. Penso a Maria Teresa, sabato scorso, mentre era alla consolle del nuovo mega organo di Vairano: i suoi occhi erano così fissi e comunicavano una tensione. Se non c’è tensione, non avviene nulla e la tensione fa male. È come se io vi stessi dicendo che senza dolore non c’è niente, non avviene niente in natura; potremmo tirare fuori tutti gli ambiti, tutti i rami dello scibile e forse scoprire che anche due molecole di idrogeno e una di ossigeno, all’atto in cui si incontrano, si scontrano e soffrono, creano una goccia d’acqua: nasce da un amore? queste due molecole si vogliono bene? Forse, può anche darsi che si detestino… Chiedo scusa a eventuali chimici presenti, ma forse quest’acqua è una lacrima, viene fuori da uno scontro, da un abbraccio che è anche la morsa di una lotta. Questo noi ce lo dobbiamo dire, narrare, altrimenti diventa tutto troppo zuccheroso, nel senso deleterio del termine, e ci porta lontano dalla vita, mentre il Natale è dentro la vita. Allora tu che attendi - poi faremo le scansioni dell’attendere “chi” e “che cosa” - devi accettare d’essere in tensione. Spero che Francesco attenda che il suo Vescovo gli sciolga la prognosi della data della sua Ordinazione; spero che questa attesa sia sofferta: solo se sofferta, all’atto in cui io scioglierò la prognosi, lui sarà contento. È il dolore per quello che non abbiamo, è l’invocazione per una patria che ancora non c’è, per una comunione ancora parziale, per un figlio che non viene, che genera l’attesa.

Attendere. Tendere. Soffrire?

 

F. Schubert – Mille cherubini in coro

 

Questo momento si pone tra due ninne nanne, per cui vorrei restare su attendere-tendere-soffrire per smentire un altro luogo comune che è quello dell’infanzia felice, che quando eravamo bambini stavamo bene, che i giochi, il tempo d’oro, le fiabe, i sogni, i giorni erano tutti avanti e tutti da spendere come un capitale.

Mi chiedo perché sia nata la ninna nanna. Queste sono ninne nanne a Gesù Bambino, ma siamo stati bambini anche noi, alcuni di voi hanno bambini ancora piccoli, figli o nipotini, e quindi conoscono quest’arte vecchia quanto il mondo, di inventare delle ninne nanne.

Perché non si cantano delle ninne nanne ad un adulto? Magari qualche volta potremmo invitare Marianna o qualcuno a cantarci una ninna nanna, ma a nessuno viene in mente di cantare una ninna nanna, per esempio a Cettina (oggi è il suo compleanno) e invece si fa la ninna nanna ai bambini. Forse i bambini non sanno addormentarsi? non si lasciano andare al sonno? hanno una difficoltà a passare dalla veglia al sonno? ce l’abbiamo anche noi, ma al bambino non diamo il Tavor o il Lexotan: gli cantiamo una ninna nanna, perché la ninna nanna è un modo per addolcire un dolore. Non voglio cancellare secoli di un’intera letteratura della voglia dell’infanzia - Meglio venirci ansante, roseo, molle di sudor, come dopo una gioconda corsa di gara per salire un colle (Pascoli) - e di tutti quelli che hanno cantato l’infanzia come l’età d’oro, ma non è così, perché anche il piccolo Gesù piange. Perché piangono i bambini? Non lo sanno, noi sì. Quindi la prima grande differenza tra il loro e il nostro pianto è che essi piangono per niente (lo dice sempre il Pascoli in un’altra poesia: Questo dolce pianger di niente). Perché piangono i bambini? Per un capriccio, ma è proprio un pianger di niente o un piangere perché questa attesa è dura? L’attesa di diventare grandi, l’attesa d’essere autonomi, l’attesa di non dover dipendere… Certamente un bambino non tematizza queste cose, ma c’è un dolore, forse non c’è un pianto più sconsolato di quello di un bambino. A me fa questo effetto e voi direte: Sei sempre il solito! Quando sento piangere un bambino, mi rintrona dentro più di quando vedo piangere un anziano, un adulto (ne ho visti e ne vedo tanti), non perché l’adulto abbia meritato un dolore (il dolore non è mai meritato, anche nei casi più drammatici e più colpevoli), ma perché il bambino piange senza sapere il perché. Noi lo sappiamo: non sa attendere, non sa attendersi, si sente impari dinanzi a quella prestazione che noi grandi gli chiediamo, come un bambino il primo giorno di scuola, all’asilo, alle elementari, un bambino davanti ad una prova, un bambino che manifesti dei disagi. È anche un modo concreto e drammatico di manifestare questo dolore. Alcuni lo affrontano con una grinta che viene dalla vita, altri partono un po’ svantaggiati e si fermano, e allora hanno bisogno di un sostegno. Non voglio togliervi la dolcezza e la poesia di queste due ninne nanne tra le quali si colloca questo mio intervento, tra l’altro nato proprio mentre ascoltavo Mille cherubini in coro. Guardiamo questo bambino, che ero io, tu, noi davanti al Presepe, noi davanti all’albero, ma sempre piccoli, con una grande voglia di crescere, con la grande voglia di bere la vita, come oggi i nostri nipotini la Coca Cola, ma c’era sempre una mamma, un adulto che diceva e dice (speriamo): “Non ora, non qui”, come recita il primo romanzo che portò Erri De Luca alla notorietà letteraria. Non ora, non qui, e quando? Domani. Il Natale ci riporta a questa dimensione infantile certamente nel ricordo. L’infanzia ricordata è una cosa, ma l’infanzia vissuta è un’altra; l’infanzia ricordata è l’infanzia senza dolore, è l’infanzia purificata nel ricordo da tutti i dolori che un bambino deve affrontare, poi c’è l’infanzia di adesso, di mio figlio che piange continuamente e mi innervosisce: forse ha bisogno di una ninna nanna perché i bambini non sanno attendere. E la ninna nanna dice: Dormi, addormentati, non ti preoccupare, domani sarai grande anche tu.

 

W.A. Mozart – Ninna nanna

   

Passando al terzo punto del nostro viaggio sull’attesa troviamo un complemento dell’attendere che forse, sulle prime, se avete letto la scaletta, vi avrà fatto arricciare il naso: attendere se stessi. Effettivamente il primo oggetto dell’attesa sono io a me stesso; ovviamente questo valga per quelli fra voi che attendono la vita, perché poi ci dividiamo in due grandi categorie: quelli che attendono la vita e quelli che attendono la morte (Francesco pensa che il Vescovo attenda la morte, dal momento che ne parla così spesso; in realtà non c’è nessuno più legato alla vita di quelli che parlano di morte). Uno che attende la vita deve mettersi in attesa di se stesso, qualsiasi sia la sua età anagrafica. Non è solo il bambino che attende di diventare grande o Gesù che attende di diventare il Maestro, il Rabbì, l’operatore di prodigi, ma anche noi oggi dobbiamo aspettarci, attenderci. E se attendiamo noi stessi, allora anche le attese per il Natale si fanno grandi. Viene un tempo nell’evoluzione di un uomo, di una donna - ed è un momento, una involuzione cancerogena della vita - in cui uno perde la fiducia in se stesso, non attende più nulla da sé, non pensa più di evolversi, e allora comincia anche a 20’anni, a 30 o a 18 una fase calante, come se ci fosse poi un tempo non di vecchiaia, ma di vecchiezza enorme: non ci si attende più. Attendere se stessi è anche attendere a se stessi, cioè dedicarsi a sé, perché ci sono delle cose in me ancora non rivelate, ci sono dei doni ancora da scoprire, ci sono delle potenzialità che sono ancora sopite, che sono come palpebre che aspettano d’essere sollevate, ma tutto ciò dipende da me. Allora io sento di augurarvi un Natale dove vi possiate attendere molto da voi, perché “penso ancora di superarmi” (senza entrare in un volontarismo): è un’attesa affinché si realizzi quel sogno che io avevo di me e che puntualmente, molte volte ho disatteso. Credo che ognuno di noi, quando si guarda allo specchio, vede anche le sue zone d’ombra, non solo i suoi tratti di luce: è questa zona d’ombra che mi chiama, che mi reclama, che mi provoca, mi tenta, ma nel senso bello del termine, che mi dice: Qui non sei ancora riuscito, qui non sei ancora uscito da te, cioè sei ancora nascosto nel grembo di tua madre, sei ancora tutto da nascere, tutto da scoprire. Magari queste cose vi sembreranno un po’ strane, vaneggiamenti di un folle; in realtà, se noi ritroviamo questa attesa di noi stessi e riprendiamo ad attenderci, effettivamente noi possiamo fare cose grandi e questo senza megalomania. Attendere se stessi significa anche avere pazienza con sé, capire che ho risposto male, che sono stato violento, stizzoso in quella parola, ma che questo non è tutto di me. Ci sono aspetti di me, di te, di noi che neanche noi conosciamo. Forse Dio ci ama per questo, perché vede in noi quello che noi neanche sappiamo d’avere, d’essere; ama non solo il bambino, ma anche quell’aspetto adulto di me ancora da venire, perché ci sono delle immaturità in tutti noi, perché non esiste persona, anche la più realizzata, che non abbia la sua ombra (Jung dice che ogni uomo ha la sua ombra). Erri De Luca ne In nome della madre, in quel dialogo di Maria col Bambino, prima che venga Giuseppe, quindi ancora nella dimensione diadica dove sono ancora loro due e non c’è il mondo, dice: Da domani, bambino, tu avrai la tua ombra, perché il sole - è un discorso fatto di notte dove non ci sono ombre - verrà, ti illuminerà, ma proietterà anche la tua ombra. Secondo molti psicologi, noi facciamo fatica ad andare avanti nella vita perché non accettiamo questo aspetto di noi negativo e qui non si tratta di assumerlo in una maniera “sono anche questo e mi rassegno”, ma ciò a cui tengo in questo momento è un’attesa di me in quegli aspetti dove non sono ancora arrivato. Il ciclista del Giro di Italia che è all’ultimo posto e che, mentre gli altri gli dicono di non correre più perché il primo è arrivato 10 ore fa o 100 anni fa, lui sta ancora a pedalare, è quella parte di me che io non aspetto più, ma è la parte migliore. In questo senso vi auguro un Natale d’attesa, dove l’oggetto dell’attesa sono anche io, io che attendo me stesso, io che non mi sono ancora rassegnato alla mediocrità.

 

“Il cigno” di Saint Saens (brano strumentale)

 

Attendere gli altri. Quando parliamo dell’attesa ci riferiamo sempre agli altri; per questo ho voluto premettere l’attesa di sé, perché solo chi sa attendersi sa attendere l’altro. Il Natale è attendere che qualcuno ritorni, è attendere che l’altro capisca, che l’altro maturi, che l’altro comprenda, che l’altro ricordi. Il Natale è una sinfonia di futuro e di passato che si baciano, si toccano, si intersecano come strumenti, in una celebrazione, in un momento, in un giorno. Noi siamo in attesa degli altri. Molti di voi genitori sono in attesa dei loro figli, non di quelli che non sono nati ancora (e ci sono qui persone che attendono di attendere un figlio), ma di quelli che sono già nati, magari anche grandi e che non vengono e che non comprendono, con i quali non siamo in piena sintonia o che avvertiamo lontani; magari abita ancora con noi, ma è come se non ci fosse, non è la vicinanza fisica, la vicinanza geografica che dice vicinanza affettiva: possiamo dormire nello stesso letto ed essere lontani mille miglia l’uno dall’altro. Mi sembra che l’amore sia questo, cari amici: l’amore è aspettarci. Anche San Paolo, in un passaggio di una sua Lettera, che passa sempre inosservato, dice: Attendetevi gli uni gli altri, cioè non cominciate prima che ci siano tutti. Se nell’amore non sappiamo attendere l’altro, noi non sappiamo amare o non sappiamo farlo ancora, dobbiamo imparare. Quanto tempo ha aspettato Dio per incarnarsi? - questa cosa ha fatto scervellare i Padri del primo millennio - Perché si è atteso tanto? Perché Dio non è venuto subito? Perché non si è incarnato immediatamente dopo la colpa? Perché ci sono voluti tutti questi secoli? Perché bisognava maturare la pienezza del tempo, come dice il Testo Sacro, o perché Dio stava aspettando che l’uomo fosse in una maggiore sintonia per capirlo, per capirsi, per guardarsi? L’esperienza ci dice che non è stato così, che si è avuta difficoltà ad accoglierlo bambino, ma ancora di più ad accoglierlo giovane predicatore sulle rive del Giordano. Chiediamoci, mentre ascoltiamo il testo di Santa Teresa d’Avila musicato da Frisina (Niente ti turbi, niente ti spaventi, chi ha Dio nulla gli manca): Ma io chi sto aspettando? Chi attendi in questo Natale? Quale figlio? Quale amico? Quale persona? Questa attesa ovviamente ti fa soffrire (se non fosse così, non sarebbe un’attesa), ma questa sofferenza adesso la raccogli come un dono, perché se tu non soffrissi non attenderesti, cioè è il tuo dolore che racconta la tua attesa e che forse accorcia il tempo del suo ritorno, perché se attendo di tornare a me stesso, allora capisco che anche gli altri hanno i loro tempi, tempi di maturazione diversi da albero ad albero, da frutto a frutto; ci sono le primizie e poi ci sono i frutti che arrivano nella prima stagione; ci sono i frutti tardivi, quelli che dobbiamo andare a cercare magari ad albero spoglio, come ancora in questo freddo può accadere in campagna.

 

M. Frisina – Nada te turbe

 

Questo testo, che viene dal 1500, dalla penna e dal cuore infuocato di Teresa d’Avila, sembra presentarci una donna che non ha bisogno di nulla. Chi ha Dio non ha bisogno d’altro - dice Teresa - solo Dio basta, solo Dio sazia. In realtà, andiamo a scoprire una donna mistica, dalle vette altissime, una donna piena di vita, una donna dalla passionalità enorme (d’altra parte non si potrebbero scrivere certe cose se non ci fosse passione), che è certamente passione per Dio - starete pensando - ma è anche passione per le persone. Un autore che ha scritto la vita di Santa Teresa l’ha intitolata “Fuoco in Castiglia”, per l’indole focosa di questa grande donna del 1500.

Attendere gli altri non riguarda solo i figli e quelli di cui attendiamo il ritorno, ma riguarda anche i defunti. Non sarebbe Natale, se non ci dicessimo che sentiremo più forte il morso della nostalgia sul cuore in questi giorni e nei giorni prossimi, che è l’assenza. Questo sembra far cadere una coltre tenebrosa sulla nostra riflessione; in realtà ha la stessa dinamica dei verbi, è nella stessa dinamica del verbo attendere, perché noi non attendiamo solo le persone che sono partite e che sono andate via sbattendo la porta, amici di ieri diventati nemici di oggi. Noi attendiamo anche tante persone che erano con noi e che, ad un certo punto, sono scomparse dal nostro cammino. E più andiamo avanti negli anni, più questo cimitero si fa popolato di nomi, di lapidi, di volti, di cose che si facevano insieme a Natale e che adesso ripetiamo in loro memoria, in particolare per i defunti della famiglia - i “Lari” dicevano gli antichi, gli dei della famiglia - che ne fanno ancora parte e che devono avere uno spazio in questo Natale, altrimenti il Natale è soltanto una girandola, perché sono nati anche loro, perché anche loro volevano diventare migliori, anche loro sono stati tesi come corde e ad un certo punto si sono spezzate, perché la Parca - diceva la mitologia - ha tagliato il filo. Li attendiamo? Certamente non li attendiamo intorno al tavolo del cenone, alla mensa di Natale, in queste feste, come presenze fisiche; certamente ne faremo memoria, racconteremo ai nostri figli - sembra che questo si stia perdendo nelle nostre famiglie - di coloro che noi abbiamo conosciuto, che per noi sono stati importanti e che rivivono dentro di noi, non solo nella nostra memoria. Attendere gli altri è attendere anche i morti, perché se in questo Natale io non li attendo, muoiono veramente - ovviamente parlo in una maniera simbolica - muoiono due volte quelli che sono morti e di cui è cancellata la memoria, che nessuno più attende. È l’attesa che li rende vivi? Certamente è Dio che li tiene in vita e dà loro vita piena, ma è come se chiedessero: Ricordati di me in questo Natale! Non voglio toccare una corda dolente, perché ognuno di voi avrà i suoi vuoti in questo Natale… Li tocco con molta tenerezza per dire che noi attendiamo gli altri anche se sono morti, li attendiamo in vita e in morte, li attendiamo quando sono geograficamente lontani ma anche quando sono lontani nel tempo, lontani nello spazio (forse prenderà l’aereo e si farà vivo, forse mi telefonerà, ci vedremo in chat…). Se invece questa lontananza è nel tempo, sembra irraggiungibile, non c’è nessun meccanismo, nessun contatto telematico che possa metterci in comunione con loro se non la memoria. Quindi attendiamo il Signore, attendo me stesso, attendo gli altri, ma attendo anche i miei defunti, li aspetto in questo Natale e ci aspettiamo a vicenda, anche loro ci aspettano e questa attesa è il dolore, questa attesa è la memoria, questa attesa ci rende vivi e li rende vivi, questa attesa tirerà fuori dal regno degli inferi la moglie che ho amato e che vado a cercare (nel racconto mitologico di Orfeo c’è l’andare nella memoria, un riscattare la memoria, fare un viaggio a ritroso, che è la nostalgia, che è celebrare la memoria). In questo Natale ci saranno tanti con noi, alcuni visibili, altri lontani fisicamente, altri lontani nel tempo e che noi chiameremo: Vieni anche tu, facciamo Natale insieme.

 

P. A. Yon – Gesù Bambino

 

Fa parte del Natale, nella sua realizzazione storica, anche familiare, al di là del messaggio e dell’evento centrale che è la nascita di Gesù, la dimensione comunitaria, perché è difficile attendere da soli, non ce la facciamo, e quando ci sta da fare un’attesa, chiamiamo gli altri e diciamo: Vieni a fare la vigilia di Natale da me. Si imbandiscono le tavole, si allargano a dismisura, e non solo perché c’è la gioia di condividere, ma perché si attende sempre con gli altri. Oltre ad attendere gli altri, noi dobbiamo attendere insieme agli altri, perché se io mi scoraggio, un altro (mia moglie, mio figlio o un altro che partecipa con me a questo momento), con la sua presenza, con il suo sguardo, con il condividere la memoria di un defunto, mi incita all’attesa. Bisogna aspettare sempre insieme, mai da soli. Anche questo nostro momento ha una valenza vigiliare. Che siamo andati a fare in Episcopio? Ad attendere. Siamo venuti qui a dirci: Aspettiamo qualcosa di importante, aspettiamo insieme, raccordiamoci in questa attesa per non perderci, per non perdere la speranza, per non perdere l’appuntamento, per non perdere noi stessi, per non perdere la memoria, per non perdere gli altri. Anche il dialogo tra gli strumenti e il soprano è aspettare insieme, fare musica insieme; cantare da soli è noioso, invece se sono due, tre strumenti, e poi ci sono altri - perché per loro siete importanti anche voi, come per me, ed io per voi - è come se guardandoci ci stessimo dicendo: Coraggio, verrà! Coraggio, diventerai grande! Coraggio, supereremo questo momento! Coraggio, usciremo fuori da questa empasse!

Da soli non si attende più niente e nessuno. Allora la coralità del Natale è questo: allargare la cerchia, tenere la mano di una persona cara per dire: Fammi compagnia in questa attesa. La Chiesa è la comunità dei credenti che aspettano il Signore, non solo che aspettano il Natale liturgico, ma il Signore che torni. Quante volte, in questi duemila anni, ci siamo scoraggiati? Ma è l’altro, sono gli altri, è l’amico, quello che fa parte del mio gruppo, della mia comunità, della mia congregazione che con la sua semplice presenza mi ha detto: No, andiamo avanti, non ci deluderà, verrà! Allora attendere gli altri e con gli altri.

 

I. Berlin – White Christmas  

 

Quest’ultimo punto, magari, ve lo sareste aspettato come tema centrale - e lo è - ma vi giungiamo dopo questo pellegrinaggio. Mi auguro sempre che qualcuno prenda questi schemetti che tiro fuori e ne faccia un trattato (io non ne sono capace, ma ci sono delle persone più capaci, come il musicista attento che da una variazione, magari da un concerto, trascrive: so che Marianna fa questo sul piano musicale con un sacerdote compositore). È uno schema ma potrebbe essere la spina dorsale di qualcosa di più ponderoso, di più corposo.

Attendere Dio. Veniamo al dunque del Natale, non che le altre cose costituiscano una frivolezza che il Vescovo vi ha offerto per non tediarvi, ma perché fa parte del Natale l’attendere della vita, attendere alla vita, attendere-tendere-soffrire, attendere se stessi e con altri, attendere Dio, perché solo chi è allenato in questo cammino, in questo esercizio, in questa tensione, in questa attenzione, comprende che questa attesa non è solo umana, ma esorbitante.

Già la volta scorsa vi dissi che ho voluto realizzare dei lavori in quella sala. Dopo, chi non l’abbia vista, vada a vedere cosa un folle è capace di fare di questi tempi in controtendenza (lo dicevo anche all’ingegnere che mi supporta e mi sopporta). Il Vescovo è in controtendenza, perché realizzare una cosa di questi tempi in cui bisogna stringere la cinghia è veramente una follia (vi invito a non fare altrettanto, non mi imitate, perché finiremmo male). Però qualcuno deve andare in controtendenza e, in tempi di ristrettezze, deve fare una grandezza, perché quella sala, così come l’ho pensata a lungo per anni stando qui, doveva essere la sala della regalità e per me esprime questo. Vi ho fatto l’esempio della sala che è una banalità, ma è una banalità che ci mette dentro alla caratura dei nostri desideri, cioè noi desideriamo molto più di quello che realizziamo e ciascuno di noi quando realizza un sogno dice: Non era proprio quello che volevo, perché noi desideriamo Dio e attendiamo Lui. Per cui ogni attesa, l’attesa di un bambino, di un futuro, di un lavoro, l’attesa che finisca un dolore, l’attesa di una guarigione, di un ritorno è attesa di Dio sempre, anche per chi non lo sappia. E tanti non lo sanno, tanti pensano d’attendere un oggetto, in realtà attendono una Persona: Dio stesso che viene, è venuto, viene e verrà - ci ricordano i Padri della Chiesa nelle loro omelie dei primi secoli - nel senso che viene adesso, è venuto anche durante questa nostra serata. Magari qualcuno di voi tornerà più leggero o più pesante, a seconda dei casi, ma nell’uno e nell’altro caso è frutto di una grazia, di una venuta di Dio, ora che ci siamo messi qui nel salone dell’Episcopio ad attendere.

L’attesa di Dio è il motivo della nostra vita, più o meno consapevole, spesso inconsapevole, e quando attendiamo qualcosa di bello, di grande, un grande ritorno, noi attendiamo Lui. E capite che questo chiede non solo fede, ma tanta speranza - ce la auguriamo a vicenda in questo Natale - una speranza inossidabile, nonostante tutte le controprove, una speranza che Lui non ci abbandoni, che sia l’Emmanuele, cioè il Dio-con-noi, nonostante la morte continui a soffiarci sul collo come una nemica. Per questo concludiamo con Holy night. Come ricorderete, Holy night è stato il motivo conduttore di due racconti che il Vescovo ha edito due anni fa, due racconti sul ritorno, il ritorno di una donna dal suo uomo, il ritorno di un prete dal suo Vescovo nel seno della Chiesa, perché questo brano ottocentesco, anche se non comprendiamo nessuna parola, ci trasmette cos’è la Notte Santa: il riaprirsi delle cose, il risvegliarsi della natura, tornare a sperare da parte di un uomo accasciato, umiliato, che sperimenta il fallimento, la morte. La musica di Adam, musicista di balletti, opere da ballo, nella versione inglese ha girato il mondo. Come alcuni di voi già sanno e lo ricordo per chi ne venisse a conoscenza in questo istante, è stata anche in assoluto la prima musica mandata sulle onde radio una notte di Natale. L’importante è entrare in questa Notte Santa: è notte, ma è santa. La notte esprime il dolore, la tensione, il buio, il freddo, ma è santa perché Dio la visita. E se il tuo cuore è un cuore notturno, appesantito, intristito, ammalato, tradito, questo cuore-notte è anche santo: Dio lo visita e tu apriGli la porta.

Vi tenete per mano, visto che dobbiamo attendere insieme, e diciamo: Padre nostro…

 

Benedizione del Vescovo

 

Grazie a Marianna, a Vladimir, a Domenico, a Maria Teresa. Alla fine di questo brano potremo esprimere il nostro ringraziamento con un applauso.

 

Adam - Oh holy night

 

      

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.