In punta di piedi in Episcopio

Riflessioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Quattro movimenti per chiudere in bellezza”

 

Teano, 23 novembre 2011

 

Salone dell’Episcopio

~

1.      Chiamare a raccolta

Vi ho generati uno alla volta

nel dolore, con ansia, a tratti

con fretta o fantasia, ora vi

convoco insieme come figli e fratelli…

 

2.      Ringraziare

È stato bello sognarvi

e vedervi crescere più

belli di ogni attesa…

La realtà supera il sogno.

Vi guardo e vi benedico…

 

3.      Cantare “miserere”

Non sempre ci siamo capiti

e le parole si sono inceppate

in corto circuiti di dolore:

non sono un eroe, ma solo

un mendicante cieco.

 

4.      Guardare avanti

Mi attende una casa nuova

nel tempo, più aperta

alla luce… sarò migliore

e con me l’universo.

Il meglio deve ancora venire.

 

***

Pianoforte: Giusy Tecce

 

Nel nome del Padre…

 

Ricordo – ma siete quasi tutti ormai “navigati” nell’esperienza di “In punta di piedi in Episcopio” – che gli ingredienti di questa ora e mezza, al massimo, di contemplazione sono il silenzio, che significa anche sospensione dell’applauso se non alla fine, la musica e delle riflessioni che possano aiutarci.

Questa sera siamo a dir poco schiaffeggiati da Giusy che è concertista a 15 anni, mentre i suoi coetanei, magari anche nostri figli e nipoti, sono ancora imbambolati nelle loro storie più o meno fantasiose. È molto bello utilizzare questa sera una concertista in erba – ma, come vedrete, non tanto in erba per l’esecuzione – che a 15 anni è già diplomata in pianoforte ed è lanciata nel mondo della musica ad alto livello.

Come sempre scelgo un tema che certamente ha un background di fede, ma se anche qualcuno di voi fosse capitato qui come ateo, come atea – non è il caso vostro – potrà usufruirne, anche se non ha tutti gli “strumenti” di una fede profonda.

 

Mentre ascoltiamo il Notturno di Chopin, ci interroghiamo su questo titolo. I titoli devono intrigare e servono nella misura in cui intrigano: cosa vorrà dire “Quattro movimenti per chiudere in bellezza”, tema della nostra serata? Un filosofo dell’interpretazione dice che la “precomprensione” è una cosa importantissima per comprendere, cioè prima di aprire un libro, devo farmi un’idea di quello che l’autore può aver scritto senza ancora aprire il testo, e che questo atteggiamento è utile per la comprensione, anche se è sbagliato. Per cui, aprire o entrare in un’esperienza senza nessuna attesa o senza nessuna previa comprensione è certezza di incomprensione, cioè la comprensione nasce dal preconcetto. Noi normalmente diamo a questo nome un’accezione negativa, e invece no, i preconcetti sono positivi. Quindi, in questo primo momento, ci lasciamo intrigare dall’immagine della chiave nella toppa che avete sul foglietto e dal titolo della serata: “Quattro movimenti per chiudere in bellezza”. Ma per chiudere cosa? Cos’è una sinfonia in quattro movimenti?

 

F. Chopin-Notturno op.32 n.1

 

Il Notturno ci ha disposto alla riflessione tranquilla, perché una certa tranquillità è essenziale per riflettere, per raccogliere i pensieri.

Ovviamente i più smaliziati fra voi, che mi conoscono da tempo, avranno già decodificato il messaggio: quattro movimenti per chiudere in bellezza l’anno liturgico. Quello che sto per dire, nel disegnare i quattro movimenti del chiudere dolcemente, del chiudere in una maniera costruttiva, credo che possa riguardare la fine di un anno, anche civile, la fine di una storia, la fine di un’età della vita, la conclusione di un iter, di una stagione (lo scorso mese ci siamo lasciati con “Violoncello d’autunno”, se ricordate).

La settimana tra Cristo Re e la prima Domenica d’Avvento è quanto mai preziosa, perché è un aiuto a mettere ordine. Abbiamo concluso liturgicamente con la solennità, ma poi abbiamo bisogno di questa settimana per riordinare, per chiudere i cassetti, per evocare ricordi, per dire: che grazia ho ricevuto in questo anno? che è successo? quanto sono cresciuto? quanti regressi si sono realizzati nella mia vita spirituale? Quindi è quanto mai utile. Io la sento preziosissima, perché questi sei giorni, dopo la conclusione, il gran finale, solenne, di Cristo Re dell’universo, sono utili per fare mente locale, per non lasciare nulla in disordine, perché il problema delle cose che si chiudono è il disordine. Lo vedete nella vita dei vostri figli, che non chiudono i cassetti, lasciano le cose per la stanza, per dire quelle più banali, ma poi chiudono storie senza chiuderle: Con quella ragazza hai chiuso? No, ogni tanto ci sentiamo… È tutto lasciato un po’ per aria, in una maniera disordinata, che non dice “architettura”, che non dice “progetto”. Sono termini, oggi, in grande disuso e che non riscuotono chissà quale grande successo, ma per noi sono importanti per evitare che il tempo passi senza segnarci, che passino le stagioni (parlavamo dell’autunno la volta scorsa), che passino certe età particolari della nostra vita, certi eventi, senza che noi li assumiamo e senza farli nostri veramente. Allora io vorrei aiutarvi, come sempre poveramente, a fare mente locale a questo atto del chiudere.

Devo chiudere questo anno: è chiuso? Non è ancora chiuso, perché per chiuderlo – primo movimento – bisogna chiamare a raccolta. Non si chiude ciò su cui non ho uno sguardo più o meno panoramico, cioè non si chiude, se non dopo aver fatto un giro in quello che è accaduto in questi giorni, in questi mesi, in questi tempi liturgici. Io spero che, piano piano, il tempo liturgico vi scandisca così come lo fa il tempo civile, cioè ci dia delle tonalità, ci dia delle parole d’ordine, ci dia degli atteggiamenti, altrimenti è tutto piatto. Voi sapete che l’elettroencefalogramma piatto è la definizione della morte clinica e molte persone sono così: piatte, non hanno nessuna vetta e poi calo, sia che sia Avvento, Quaresima, Pasqua, Natale, per dire i tempi liturgici. Quello che sto dicendo può essere pari pari raccolto anche nei termini laici: sia che sia primavera, sia che sia estate, sia che abbia trent’anni o settanta, è lo stesso, è una piattezza, è una ripetizione, fotocopia del già vissuto.

Anche stavolta, come la volta scorsa, vi ho messo sul foglietto dei pensieri.

 

Vi ho generati uno alla volta

nel dolore, con ansia, a tratti

con fretta o fantasia, ora vi

convoco insieme come figli e fratelli…

 

Ovviamente, uno dei titoli che mi era venuto in mente (e poi subito l’ho bocciato perché avrei perso sicuramente il 50% dell’uditorio) è stato “Preparazione alla morte”, perché questi giorni sono anche una chiusura. Io, prima di morire, devo chiamare a raccolta i miei giorni e, poiché anche la conclusione dell’anno liturgico è una chiusura, che poi prepara una schiusura con il Tempo d’Avvento, debbo chiamare a raccolta tutti i suoni. Pensate, ho fatto un’esecuzione organistica e poi, nel gran finale (qui c’è Maria Teresa che sta aspettando con ansia di poggiare le mani sul nuovo organo di 3000 canne della Parrocchia di Vairano Scalo), metto il pieno e il ripieno e mi vengono incontro tutti i suoni, anche i flauti che ho utilizzato in quel momento, anche la viola, anche la dulciana che ha suonato in quel momento. Nel gran finale io li pigio tutti ed ecco che mi vengono incontro tutti i suoni, tutte le canne. In questo caso, tutti i giorni. Ovviamente, all’atto in cui li ho vissuti, li ho vissuti al singolare: quel giorno, quell’incontro, quella celebrazione, l’Avvento dell’anno scorso, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste (ammesso che queste cose abbiano per voi un qualche contenuto, come spero). Ma adesso si chiuderanno e allora li devo chiamare tutti insieme, mentre li ho generati uno alla volta. Come li ho generati? Come i figli: nel dolore (molti giorni sono stati difficili), con ansia (quanta ansia nell’affrontare una giornata, un compito, una celebrazione, un appuntamento, una prova!), a tratti con fretta (perché la fretta ci prende) o con fantasia. Quindi, giorni attraversati correndo, senza rendermene conto, e giorni in cui ho tirato fuori pastelli per dare un po’ di tonalità dolci. Tutti questi giorni sono generati da me, perché io genero il tempo, anche se il tempo è una scansione esterna, una modulazione per dire quanti anni ho, per dire che a 15 anni io non sapevo suonare il pianoforte come Giusy. Ma, mentre è una scansione esterna, i giorni sono i “miei” giorni e questo anno è mio. Adesso, dunque, prima di congedarmi, li chiamo a raccolta, li convoco insieme come figli e fratelli.

Qual è il desiderio di un genitore? Voi come sognereste di morire? Non so se qualche volta dite: Vorrei morire così… Mi rendo conto che sono sogni che non fate, guardandovi (qualcuno a strabuzzato gli occhi). Credo che il sogno, cioè il modo più sereno, più bello, con cui noi immaginiamo il nostro partire da questo mondo è avere accanto a noi i nostri figli, le persone che amiamo, che abbiamo amato; le guardiamo anche se non potremo dire niente, ma sono lì. Vi convoco come figli e fratelli, per dire: adesso vi guardo in una foto di gruppo; siete questo anno che mi ha cambiato, siamo insieme questa famiglia, e io in questi giorni ci ho messo amore, grinta, dolore: li ho pagati e dunque mi appartengono. E, mentre me ne distacco, voglio celebrare questa appartenenza. Sembra una contraddizione: ma se te ne devi andare, perché vuoi celebrare questa appartenenza? Perché questi giorni non sono fuori di me: sono dentro di me, sono con me. Questo è il primo movimento di questa sinfonia ideale che vi presento stasera per “chiudere in bellezza”: chiama a raccolta. Possiamo fare un esperimento con questo giorno, che anche se si chiude qui, lo chiudiamo insieme in un’armonia; è cominciato stamattina, appena ho aperto gli occhi: queste ore sono come i giorni di questo anno, li chiamo a raccolta, faccio - per dirla con un termine purtroppo fuori moda - “esame di coscienza”. Cosa ho fatto alle 10? come mi sono comportato in quell’incontro in cui quella delegazione è venuta, puntualmente, a protestare col Vescovo? che sentimenti? come ho raccolto? come mi sono posto?

 

Vi ho generati uno alla volta

nel dolore, con ansia, a tratti

con fretta o fantasia, ora vi

convoco insieme come figli e fratelli…

 

F. Chopin – Mazurca op. 50 n.3

 

Il primo movimento di questa sinfonia è l’orizzonte degli altri tre. “Chiamare a raccolta” è mettere insieme, affasciare, far incontrare, perché i figli sono anche fratelli fra loro. Quelli fra voi che sono genitori sanno che la più grande pena per un genitore è vedere che i figli non sono fratelli. Ma poiché i giorni sono stati tutti generati da me, sono tra loro in vincolo di parentela, ecco perché li metto insieme in questo anfiteatro dove voglio realizzare la chiusura in bellezza di questo anno. Questo è l’orizzonte e, avendoli tutti davanti, ovviamente alcuni li vediamo chiaramente: Natale, Pasqua, una Domenica speciale, per qualcuno di voi gli Esercizi ad Ariccia, il pellegrinaggio in Terra Santa o quella Preghiera fatta sul monte Lucno. È chiaro che alcuni vengono davanti con una nitidezza, una statura che ce li fa riconoscere immediatamente; altri restano un po’ sfocati. Poi c’è una marea di giorni, delle grazie quotidiane, delle “grazie attuali”, si diceva una volta, magari neanche riconosciute (ma stanno lì).

Allora cosa devo dire? La prima cosa da dire – ed è il secondo movimento - è: grazie. Devo ringraziare, e il primo motivo per ringraziare è che posso farlo: se posso farlo sono vivo, cioè sto chiudendo e, per chiudere questo appartamento, questa porta, questa storia, questa vicenda, questo dolore, lo posso fare perché sono ancora in vita, perché qualcuno ancora mi fa credito di questa moneta, che è il tempo che io posso investire su vari campi, in vari ambiti.

Perché innanzi tutto ringraziare? Perché il risentimento è la prima cosa che ci viene istintiva: le cose che non sono andate bene, le ingiustizie che abbiamo subito, le promozioni che non sono venute, la crisi economica che è andata tingendosi di tinte sempre più fosche (sembra che di giorno in giorno questa foschia divenga sempre più spessa)… Subito ci prende e diciamo: Però ho ricevuto questo torto! Non mi è venuto questo riconoscimento! C’è stato questo dolore! Invece, una volta che hai questi figli davanti, che sono tutti fratelli tra loro, devi dire grazie: grazie per quello che sai, ma anche grazie per quello che non sai, perché tante cose noi le scopriremo nell’eternità (ad esempio, tanti aiuti) o addirittura, come ho detto altre volte, scopriremo che quello che abbiamo vissuto come una disgrazia, era una grande grazia, quello che abbiamo vissuto come un incidente di percorso, era per evitarci una serie infinita di complicazioni. Quindi il ringraziamento deve prendere il cuore di chi chiuda un anno liturgico, come noi, spero, e di chi chiuda un anno civile il 31 dicembre, di chi chiuda un ciclo della sua vita.

Ho dato anche delle parole a questo ringraziamento rivolto ai miei figli che stanno intorno al mio letto.

 

È stato bello sognarvi

e vedervi crescere più

belli di ogni attesa…

La realtà supera il sogno.

Vi guardo e vi benedico…

 

Questo dovrebbe essere il nostro atteggiamento: colmo di riconoscenza, anche per quelli fra noi che pensano d’essere sfortunati. Ho avuto questo incidente! Non sono potuto venire alla preghiera “In punta di piedi” perché sono dovuta rimanere a letto a Rocchetta per tanto tempo, prima mia figlia, poi io… No! Grazie, grazie… Grazie perché questi figli - che sono i giorni, i tempi, le occasioni, gli incontri - io li ho attesi; sono stato incinto dei miei giorni, come si aspetta un bambino, come si aspetta una festa, ma poi, nel veder crescere il giorno, nel veder crescere il progetto, nel veder crescere quello che avevo atteso a lungo, mi rendo conto che è più bello di quello che pensavo.

Mi guardate un tantino perplessi: sarà vero? il Vescovo sta poetando o questa è la vita? Questa è la vita, questa è la nostra vita, se guardiamo con un pizzico di verità, oltre che di fede: la vita ci è venuta incontro pur con i suoi dolori - l’ho detto in precedenza - ma in una maniera che ci ha stupito: non pensavo che un incontro, un pellegrinaggio, un ritiro potesse darmi tanto. Ricordate il lago che andavamo a guardare? Io ho visto il lago di Albano appena 15 giorni fa con i nostri preti: c’erano i colori d’autunno, l’abbiamo guardato e ci siamo specchiati. Voi ve la immaginavate un’esperienza così? E com’è che la forza, dopo 15 giorni, era già scomparsa? Il motivo è che io, per i miei figli, non ringrazio abbastanza, perché ringraziare è come perpetuare la grazia - tra l’altro in “ringraziare” c’è la parola “grazia” - cioè il ringraziare dà un’eco alla grazia che altrimenti si chiuderebbe, si esaurirebbe come forza, come luce, come ottimismo, come speranza, nel giro di un piccolo arco di tempo.

Quindi mi trovo, stasera, a pensare a questo anno liturgico. Anche se faceva parte degli ultimi giorni dell’anno precedente (ma io lo inserisco in questo anno), penso al 19 novembre dell’anno scorso, in Cattedrale: c’è stato un evento che avrebbe dovuto metterci in ginocchio per 50’anni e invece ci siamo alzati subito. L’ordinazione di 4 presbiteri contemporaneamente è una grazia enorme, enorme! Intanto quei quattro hanno già compiuto il loro primo compleanno. Quanto è durato in me, in te, in noi quello stupore? Troppo poco, perché noi riteniamo certe cose dovute, non sappiamo meravigliarci come i bambini, non sappiamo dire: “Che bello! Una ragazzina, anziché stare a pettegolare con le sue amichette in giro per il corso di Avellino, da quattro anni a oggi ha fatto tutto questo cammino!”. Magari penserete a papà Angelo, che sta qui, come uno che l’ha segregata; invece alla fine di questa serata dobbiamo ringraziarlo, perché ha riconosciuto un dono e lo ha incoraggiato.

La meraviglia fa nascere il ringraziamento e mi fa dire: sì, era bello quand’ero incinta di voi, giorni, voi, stagioni, ma adesso che penso a quando eravate piccoli, poi ragazzi, adolescenti, poi giovani, mentre vi ho visto crescere mi sono detto: Mai avrei pensato d’avere giorni così, figli così. La realtà supera il sogno. Purtroppo voi pensate il contrario: voi pensate che il sogno sia la maggiorazione della realtà. Lo diceva anche Pascoli - Il sogno è l’infinita ombra del vero - in Alexandros, uno dei Poemetti conviviali, e invece no, è il contrario: non è il sogno la magnificenza della realtà, la dimensione fantasiosa e colma di suoni, di luci, di colori di questa realtà prosaica. La realtà supera il sogno. Ripeto: questo potrei dirvelo anche se non siete credenti, ma visto che siete credenti (almeno il 99% di voi), è un peccato non riconoscere questo dono e non dire grazie. Per questo vi guardo e vi benedico, cioè guardo questi giorni, guardo questi miracoli, guardo questi eventi di fede, di aggregazione, guardo la Preghiera del venerdì con i giovani e mi dico: Sono venuti anche stavolta! È un miracolo! Ragazzi, meritate un applauso! Invece sono sempre venuti e pensate che debbano continuare a venire; pensate che i vostri figli, stasera, si debbono ritirare perché… Invece è un miracolo che tuo figlio, tua figlia torni stasera a casa: è un miracolo!

Continuiamo questo piccolo abbozzo di sinfonia, questa imbastitura di sinfonia che spero ognuno di voi possa scrivere, chiudere in bellezza, e che adesso io accenno semplicemente e che ciascuno di voi continuerà a casa.

 

O. Respighi – Notturno

 

C’era uno scorrere di acque in questo Notturno. Ci sono delle sere dove c’è una fontana che canta, dove c’è un ruscelletto, acqua che scorre.

Vorrei restare in questo secondo movimento, in una maniera più breve, ricordandovi che questa azione di ringraziamento è terapeutica. Molti dicono, con basi scientifiche, che la distensione e il ridere purificano il sangue: così fa anche questa visione positiva della vita, che nasce ed è amplificata dal sottolinearne gli aspetti positivi. Quindi quando io, rispetto a questa platea di giorni, dico: “Che bello! Mi ero dimenticato che avevo ricevuto questo dono, questa grazia, questa visita… C’è stato quell’evento…”, tutto questo rinnova il mio essere, anche il mio corpo, al punto da - adesso non vorrei far saltare i medici presenti - innescare delle energie positive che altrimenti stavano sopite sotto i detriti del risentimento, non avevano quell’effetto rigenerativo dentro di me. Quando prima vi dicevo: “Se stasera torna tuo figlio…”, significa che il fatto che tu stia ancora con tuo marito, con tua moglie, è un miracolo. Per voi è scontato che il marito stia lì, che sia brontolone, che la moglie torni, abbia cucinato: sono tutti miracoli. E se io mi metto in questa prospettiva, non solo entro in questa dimensione di lode, che è sottesa al verbo ringraziare, cioè lode a Dio, Autore di ogni dono, tutto viene da Lui e tutto a Lui deve tornare in questa circolarità, ma riesco ad avere un atteggiamento bello nei confronti della vita, riducendo e difendendomi dalle aggressioni, dai virus (non parlo sul piano dell’aggressione del corpo, ma sul piano psicologico, sul piano spirituale, sul piano della concezione della vita).

Ho voluto rimanere un minuto in più su questo secondo movimento, perché noi oggi ne abbiamo particolarmente bisogno (spero che ve ne siate accorti: oggi, noi e i nostri figli abbiamo bisogno di visioni nuove, pulite, positive, senza che uniamo la nostra voce, come dice il poeta, al sonito di mille voci  - di mille voci al sonito mista la mia non ho - perché la situazione è già così nera, e probabilmente scopriremo che lo diventerà ancora di più) e non per illuderci: non vi sto invitando ad evadere, a farci un’iniezione di ottimismo tanto per bendarci rispetto alla crisi economica, rispetto al fatto che forse noi che siamo qui, tranne qualche giovane, non vedremo la conclusione, ma speriamo i nostri figli, perché qui i tempi diventano sempre più lunghi (addirittura adesso si parla di 30, 40 anni). Quindi immaginate quanta energia positiva dobbiamo produrre in questi tempi di deserto. Walter mi scrisse negli auguri di Pasqua: “Figlio, abiterai nel deserto” (credo che sia un autore israelita). Noi siamo nel deserto, e questa terra andrà desertificando sempre di più, questa società, con quello che ci verrà chiesto di pagare. Proprio per questo motivo, cari amici, noi abbiamo bisogno di produrre delle energie, delle proteine che possano difenderci e soprattutto difendere i nostri figli che sono candidati tutti alla depressione e, se non andranno in depressione, saranno certamente senza futuro. Allora capite che anche da questa nostra riunione può nascere una sorta di fonte di energia alternativa, come oggi si ama dire, rispetto a questo deserto che certamente dovremo attraversare e che nessuno ci risparmierà, ma che potremo attraversare cantando, suonando le trombe, come gli ebrei intorno alle mura di Gerico, potremo attraversarlo suonando.

L’arte, in questo tempo, è di capitale importanza. Più l’arte non avrà copertura economica, mentre invece avrà importanza il pane, purtroppo, più ci candideremo - e lo faccio in una maniera un po’ fiorita perché il concetto resti impresso - ad un cannibalismo, di qui a qualche istante. Mentre Giusy suona - e non perché dobbiamo suonare mentre la nave affonda - la nave che sta affondando comincia a innalzarsi. Non è una fiaba, non è una fiaba! Noi, in questo tempo che andremo ad attraversare, avremo bisogno ancora di più di questa forza che viene dal dire: è sorto il sole anche oggi!, anche quest’anno le pansé, che avete visto nel giardino del Vescovo, ci stanno!, perché non è scontato. Io vado in giro per i vivai come un pazzo - sul serio! - non c’è vivaio che incontri e… “Fermati! Compriamo due fiori”, perché per me il fatto che d’inverno ci siano i ciclamini e le viole del pensiero giù ed io le guardo dalla finestra, mi rigenera. Quindi, mentre attraversiamo questo deserto, Giusy sarà sempre più penalizzata - ricordatelo, Giusy, sto parlando anche a te - perché nessuno la prenderà in considerazione, perché abbiamo bisogno di panettieri, non di musicisti. E invece noi abbiamo bisogno di musicisti! Abbiamo bisogno di poeti, abbiamo bisogno di cantori, di cantastorie, di fiabe, proprio ora, altrimenti ci divoreremo a vicenda, di qui a qualche istante, per un tozzo di pane. Sarà una guerra di poveri. Ma ecco che qualcuno rinuncerà al pane e comincerà a suonare e il flauto magico attirerà tante energie nuove. Sento molto questa esigenza e, badate bene, la nostra fede ha pozzi di forza, di coraggio, di speranza che voi neanche immaginate, ma stanno lì, chiusi nelle nostre parrocchie, sigillati, nessuno li apre e nessuno va a chiedere: Scusate, avete acqua in questa parrocchia? Avete acqua in questa chiesa? Hai acqua tu, in questo gruppo scout?

Apriamo queste sorgenti, mettiamole a disposizione, perché ringraziare è terapeutico.

 

È stato bello sognarvi

e vedervi crescere più

belli di ogni attesa…

La realtà supera il sogno.

Vi guardo e vi benedico…

 

G. Martucci – Fantasia op. 51

  

All’esecuzione di spartiti difficili si unisce anche la memoria perfetta di Giusy: ringraziamo anche per questo.

Credo che di qui a un po’ dovremmo mettere su un opuscoletto anti-crisi, tornando a quanto dicevo prima, cioè fare un vademecum di questo deserto. Io ho già cominciato. La prossima volta che verrete a “In punta di piedi”, prima di Natale, avrete modo di visitare la Sala del Consiglio (ho cominciato i lavori nella sala attigua, non vi dico cosa sto facendo altrimenti vi tolgo il gusto). Mi sto preparando come i santi martiri, come San Sebastiano, ad essere raggiunto da 5000 frecce, perché “non era una cosa necessaria!”. Ho detto: cosa posso fare in questo tempo così difficile? Allora mi sono messo a fare dei lavori in quella sala e poi, quando verrete, portate anche voi la vostra freccia in modo tale che siate già muniti… In questo tempo di necessità dove sembrerà importante solo il necessario, quello che necessario non è potrà essere la medicina. Ovviamente non parlo da economista e lo sapete bene - su questo sono un pessimo alunno - ma se ho qualcosa da dire, posso dirla invece per la conoscenza dell’uomo che il lungo ministero pastorale mi ha dato, dove le rose guariscono (anche Maroncelli, non l’avranno guarito, ma l’avranno consolato mentre gli era stata amputata la gamba, se ricordo bene).

 

Terzo movimento: cantare “miserere”. Era quello che voi ovviamente vi sareste aspettati come la cosa più importante, perché “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa” e allora viene anche il ringraziamento. Poi è chiaro che in questa platea che ho davanti, che ho chiamato a raccolta insieme come figli e fratelli, ci sono anche degli sgorbi, ci sono anche degli storpi, ci sono anche dei giorni dove non sono stato al massimo, al meglio, a lode della Sua gloria, direbbe San Paolo. Sono i giorni in cui ho fallito, ho sbagliato bersaglio. Come sapete, questo è il termine, la traduzione letteraria del termine “peccato” in ebraico: sbagliare bersaglio. Allora il terzo movimento di questa sinfonia per chiudere in bellezza è: riconoscere, ma senza particolare dramma che possa schiacciarmi, che in questo anno ho camminato da uomo e non da Dio, perché sono un uomo e l’uomo è peccabile. Questo è espresso con “non sempre ci siamo capiti”. Dico ai miei figli, che sono i giorni che stanno qui, intorno al mio letto, e che sono venuti a salutarmi:

 

Non sempre ci siamo capiti

e le parole si sono inceppate

in corto circuiti di dolore:

non sono un eroe, ma solo

un mendicante cieco.

 

Questo è un atto di dolore, è un riconoscimento, come vedete, sereno: non sono un eroe (a volte pensiamo di esserlo); non sono un dio: sono un uomo, sei una donna, siamo gente che fa un passo avanti e due indietro. È stato così l’esodo. È una grande lezione il Libro dell’Esodo: mormorazioni, accuse a Dio, dieci passi avanti, venti indietro… Ci sono voluti 40’anni per fare un tratto geograficamente insignificante. È vero che può essere una cifra simbolica, ma è per dire un lungo tempo per fare un piccolo tratto di strada, perché l’uomo è così. Ed è bene che io ve lo ricordi, perché possa congedarmi da questo anno, anche sereno, per ciò che non è andato bene, per ciò che non sono riuscito a dire, a fare. Qui si parla di parole che si inceppano e, a volte, si inceppano proprio con le persone a cui vuoi più bene; non si inceppano con gli estranei, non si inceppano con il Presidente della Repubblica: si inceppano con la moglie, il marito, il figlio. Si inceppano con le persone di casa. Voi dite che non dovrebbe succedere. Ma le parole sono destinate a molte letture; una parola ha 500 significati e noi volevamo utilizzarla per quel significato, ma l’altro ha inteso il significato numero 520 e allora non ci capiamo. Questo è accaduto anche con Dio: si inceppano le parole. È accaduto anche nel nostro cammino morale: non sono un eroe, sono un uomo, sono solo un uomo (sono un mendicante cieco), a esprimere non solo una visione di povertà, ma anche di vista impossibilitata a vedere il bene e ad aderirvi pienamente, così come vorremmo nei momenti di grande tranquillità. Poi sappiamo che la tentazione tutta questa tranquillità non ce la offre e, allora, finiamo nelle grinfie, come dice Pietro, del leone che va in giro cercando chi divorare. Allora, con semplicità, mi congedo da questo anno e da quello che volete voi, perché questo vademecum va bene anche per qualsiasi tipo di congedo, anche cantando il Miserere, che è un canto di pentimento ma anche un canto di speranza. Il Dies irae, che nel nostro immaginario è l’inno in assoluto più terribile (giorno d’ira), ha delle espressioni così dolci, così belle, così colme di speranza che poi neanche è quell’inno dove finiamo nel tripode… No. Recordare Jesu pie, quod sum causa tuae viae: Ricordati, Gesù, che tu sei venuto qui per me. Sta nel Diaes Irae, l’inno della Messa di Requiem di Verdi, Mozart, il momento in cui si trema. Recordare Jesu pie: ricordati, Gesù, che io sono causa della tua via, cioè tu sei venuto qui per me. Allora anche il Dies irae è un giorno di salvezza, un dies di salvezza. Spero che anche il vostro guardare gli errori di questo anno sia improntato a questa speranza e a questa serenità.

 

N. Rota – dai 15 preludi numeri 2,3,9,10

 

Ultimo movimento della nostra sinfonia: guardare avanti. È chiaro che quest’anno è stato bello con le sue piaghe, le sue pecche, i suoi picchi, ma diventa la base su cui costruire la grazia dell’anno nuovo, che è a nostra disposizione a partire da sabato sera, con la prima Domenica d’Avvento.

Noi non siamo quelli del passato, e va detto, va gridato particolarmente in questo tempo. Mi attende una casa nuova nel tempo: normalmente le case sono nello spazio, sono fatte di pietra; invece la casa che mi attende nel tempo, significa che mi viene data una nuova possibilità di arredare un anno. Vi vado incontro con grande attesa: nel prossimo anno mi convertirò, cambierò, riuscirò ad essere al meglio più di quanto non mi sia accaduto nell’anno in cui ci siamo riuniti insieme per chiudere solennemente e in bellezza, nella bellezza dell’arte, una casa nel tempo, più aperta alla luce. Quindi mi farò attraversare di più dal bene, mi farò attraversare di più dalla grazia, cercando di non sciuparla (ricordo  che il mio parroco, di cui sono stato anche viceparroco, aveva il pallino dell’economia; lo ricordo con simpatia e diceva dei bambini che sono “mangiatori di ostie”, perché lui le ostie le pagava e quindi...). Più aperti alla luce, cioè con una maggiore benevolenza, senza entrare nelle grettezze che sono dietro l’angolo per ciascuno di noi.

Sarò migliore e con me l’universo, cioè in questo anno, che mi attende, sarò migliore e il bene in me non riguarderà solo me, ma l’intera società, di più, si trasmetterà alle cose, alle stelle, alle galassie, cioè entrerà in un circuito di bene, perché il bene non si consuma; si trasforma, ma non si consuma: è un’energia che ha come meta l’eternità. Quindi un luogo senza luogo, dove potrà risplendere e rigenerarsi per sempre. Insistiamo su questo: il bene in noi diventerà anche bene degli altri, il bene in noi sarà anche bene del creato. Il meglio deve ancora venire.

 

N. Rota – dai 15 preludi numeri 13, 14

 

Spero che qualcuno di voi utilizzi questo paradigma, questo accenno di cammino per la propria preghiera personale, per girare nel senso giusto, con questi quattro movimenti, la chiave nella toppa e sigillare questo anno in modo tale da cominciare in novità il tempo che ci attende.

Grazie a Giusy per il tocco leggero, femminile, e perché, oltre che con le bambole, da bambina ha trascorso tanto tempo sulla tastiera. Magari abbiamo pregato, questa sera, con una ragazza che domani farà parlare di sé: glielo auguriamo di cuore, lo merita per essere giunta in così giovane età ad un grado di perfezione tecnica e, non solo, anche espressiva. Quindi grazie a lei. Lo esprimeremo poi con un applauso alla fine dell’ultimo brano.

A voi la benedizione per questo anno che si conclude e per quello che comincia: Dio dice bene e quindi ci aiuta a chiamare a raccolta, ci aiuta a ringraziare, a chiedere perdono, a guardare avanti.

 

Benedizione del Vescovo

 

F. Chopin – Improvviso-Fantasia op.66 postuma

      

***

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.