In punta di piedi in Episcopio

Riflessioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

“Violoncello d’autunno”

 

Teano, 26 ottobre 2011

 

Salone dell’Episcopio

~

Violoncello: Raffaele Rigliari

Pianoforte: Riccardo Natale

 

Ricominciamo questi nostri appuntamenti che hanno una matrice un po’ romantica, che è quella dei salotti ottocenteschi, di inizio Novecento, dove si faceva cultura, dove ci si incontrava non solo per il tè, per i biscottini o per i pettegolezzi, ma per progettare il futuro, per scambiarsi delle opinioni (pensate anche al salotto francese, culla del Romanticismo). Ovviamente potrebbe essere presuntuoso quello che sto dicendo, ma da un po’ di anni conduciamo questi momenti contemplativi all’interno dell’Episcopio, mettendo insieme musica e riflessione spirituale. Quindi diciamo grazie a Raffaele Rigliari e Riccardo Natale, che questa sera costituiscono la parte musicale del nostro incontro, del nostro salotto, che è un salotto spirituale: per questo iniziamo con un segno di croce.

Nel nome del Padre…

 

Quando Maria Teresa, che è la nostra direttrice artistica, mi ha detto che aveva invitato un duo di violoncello e pianoforte, ho pensato ad una riflessione sull’autunno, un po’ suggeritami dal violoncello che mi dà sempre la tonalità di voce arrochita, di chi sia un fumatore incallito o comunque di voci un po’ incrinate dal tempo. Ho messo qui anche dei versi tratti da un’opera, che sono semplicemente delle pennellate impressioniste. Comincio con il primo quadro.

 

Tacciono i violini

e le viole a ciocche sfiorite

ed ecco la voce arrochita

al violoncello.

 

Indica l’incrinarsi di una voce, prima squillante, splendente - quella della giovinezza, come dirò nel prosieguo - e poi una voce da un lato più calda e che racconta il tempo passato.

 

Robert Schumann

Fantasiestucke n. 1 Op. 73

 

***

Forse Raffaele, nella sua esecuzione, avrà una tensione particolare, perché c’è un anziano maestro di violoncello della Scarlatti che guarda i passaggi, l’impasto, ascolta la tonalità e la qualità del suono. È bello questo, anche perché il violoncello, in questa riflessione che vi propongo, avrebbe richiesto non un giovane allo strumento, ma un anziano, perché è su questa stagione che vorrei riflettere con voi, che è certamente la stagione del ciclo annuale, ma anche una stagione della vita.

 

Si fa spessa la voce

coi freddi dell’autunno

e un velo di foschia

veste le cose nude.

 

Per accontentarci, il Signore, questa sera, non solo ci ha offerto un velo di foschia, ma una nebbia fitta, per immetterci pienamente nell’autunno.

A cosa alludono queste espressioni? Ad una voglia di rincasare. Vorrei lavorare un po’ con voi su questo verbo: rincasare.

L’autunno è rincasare. Gli anziani, appena comincia a far notte, non riescono a stare fuori e hanno voglia di casa, ma questa voglia di casa non è solo frutto dell’età che avanza, magari con gli acciacchi, ma è anche la voglia di un giovane, spero, la voglia di un adulto, il desiderio di chi, vedendo i colori dell’autunno, sente un desiderio di interiorità; “casa” qui non sta tanto per il luogo che amiamo, quanto per la casa dell’infanzia intesa come patria, intesa come luogo degli affetti, intesa come ciò che nasconde alla volgarità le cose a noi più sacre. In questo senso, il velo di foschia dell’autunno, che stasera è diventato una coltre di nebbia da cui siamo avvolti e in cui siamo coinvolti, è la voglia di pudore che l’autunno porta con sé, perché l’estate ci porta a togliere gli abiti per il caldo; invece l’autunno è la sensazione della lana sulla pelle, è la voglia - lo dicevo già alla Preghiera Giovani di un mese fa - di Natale, non tanto come la festività - l’albero, il Presepe, verso cui pure ci dobbiamo mettere in cammino ai primi freddi - quanto come la voglia di nascere. La voglia di nascere avviene nella casa, non avviene per strada, nella piazza, non avviene nell’agorà, non avviene nel luogo dove si dibatte. Quindi auguro a me, a voi, questa sensazione dell’autunno come richiamo ad entrare.

Gesù utilizza un’espressione - Quando preghi entra nella tua stanza e chiudi la porta - che significa molto di più di quello che immediatamente a noi è dato di percepire, cioè la preghiera stessa è un evento pudico, è un evento non pubblico, non è un evento spettacolare (a volte si corre anche il rischio di una “preghiera-spettacolo”), ma è un evento dell’anima e l’anima ha bisogno di questo velo di foschia, per cui la nudità delle cose, sotto la luce accecante dell’estate, adesso è finalmente sotto un sudario di foschia.

Cosa devo mettere a riparo? - mi chiedo e vi chiedo in questo dialogo che avviene attraverso gli sguardi, in questo momento - Che cosa rischia, nella mia vita, d’essere sverginato se non lo velo? Ci sono dei sentimenti, ci sono delle parole, ci sono delle date, ci sono delle relazioni, ci sono dei sogni, ci sono dei progetti che hanno bisogno di questo velo di foschia, che hanno bisogno di questo rivestimento che li vieta a occhi profani, a occhi che possono infangare quei sogni, quei desideri, quella relazione che io desidero preservare. Ecco, così ci introduciamo al brano di Bach. 

 

Si fa spessa la voce

coi freddi dell’autunno

e un velo di foschia

veste le cose nude.

 

J. S. Bach

Preludio della V Suite per violoncello solo in Do min.

***

Nell’assolo non c’è sostegno che non sia il silenzio, ed è un momento bellissimo e drammatico per chi suoni, perché non c’è possibilità di nascondersi. In un duetto, in un trio, in un quartetto, in un quintetto, tanto più in un’orchestra, una nota sbagliata passerà inosservata; una disattenzione - perdere il foglio, perdere il segno - in un’orchestra passa inosservata. Non così in un assolo, dove il suono è nudo, non di quella nudità di cui parlavo poc’anzi, che ha bisogno d’essere coperta, ma di quella nudità che viene fuori nel raccoglimento, cioè l’anima nuda davanti a Dio, davanti alla storia - potremmo dire anche con un termine più ampio; magari per alcuni di voi il termine non avrà grandi risonanze, spero di no, ma può anche accadere), cioè quando devo dire una parola e non c’è sottofondo, devo dire una parola e sono solo, devo dire una parola ed è quella definitiva, devo dire una parola che rimarrà, come le note di questo Preludio hanno, con le loro volute, riempito questa stanza che era vuota, e questa voce arrochita del violoncello ha parlato, ha detto. Noi, in chiesa, diciamo “Parola di Dio”: una delle tante espressioni usurate, a cui non  facciamo più caso, ma che ha una sua solennità.

Parola di Dio: ha parlato Dio.

Parola del Signore: ha parlato Gesù.

Parola di Bach: ha parlato lui, il musicista, e poi, attraverso questa riedizione, perché come ho detto altre volte, quando si esegue un brano, lo si esegue come se nascesse in quell’istante, senza poterci appoggiare minimamente su tutte le migliaia di esecuzioni fatte in precedenza da noi stessi o da altri, a partire dall’autore che ha scritto la partitura.

Mi è parso - facciamo sempre un discorso a due voci, tra gli strumenti e il Vescovo - che questo Preludio fosse raccolto, e spero ci abbia raccolto anche di più. Rientra, rincasa: torna in te stesso.

 

Quando attesa s’allenta

preme il piede sul freno

e lentamente gustare

la vita sillabata.

 

C’è un tempo per correre e un tempo per fermarsi, direbbe il Qoèlet. Il tempo per correre è il tempo dell’estate, il tempo dell’infanzia, il tempo della giovinezza. I giovani corrono: corrono incontro al futuro, corrono da un’esperienza all’altra, da una storia all’altra, da una sensazione all’altra. Abbiamo corso anche noi e i nostri artisti di questa sera sono giovani e stanno correndo.

Poi viene il tempo del “concorrere”, che mi sembra, almeno nella lettura che ne do io, essere la stagione dell’età adulta, della maturità. Purtroppo adesso il “concorrere” per noi è legato solo ai concorsi, con i drammi che provoca (10000 partecipanti per 10 posti). “Concorrere” è invece “correre insieme”, è anche concorrere alla costruzione del mondo. Gran parte di noi sono nella fascia adulta della vita e, dopo aver corso, magari con la presunzione d’essere da soli, di tagliare il traguardo, d’essere vincenti ponendo gli altri in difficoltà, siamo entrati e stiamo vivendo la stagione del concorrere dove costruiamo insieme, marito e moglie, genitori e figli, colleghi di lavoro, insegnanti nel collegio docenti. Prima corriamo, poi concorriamo. Non sempre è facile, mi rendo conto, ma la maturità è concorrere: è suonare insieme, è fare gruppo, è fare musica d’insieme, è confrontarci e sentirci responsabili di questo mondo.

La Lettura di oggi della Lettera ai Romani, per chi fra voi abbia il terribile vizio di andare a Messa anche nei giorni feriali, diceva: “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, dove “concorrere” riguarda gli adulti che lavorano insieme, che corrono insieme, che fanno cordata, ma nel brano paolino della Lettera ai Romani c’è il concorso di Dio che fa in modo che, anche se nel correre insieme ci sono degli incidenti, poi va bene anche il male, nel senso che viene volto al bene anche l’incidente, anche la disattenzione, anche il dolore.

Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio: nella stagione del concorrere, tanto più quando concorre con noi anche Dio, e allora saremo certamente vincenti.

Come descrivere l’età dell’autunno? Spero di consolare qualcuno di voi con in capelli più bianchi e, mentre parlo a qualcuno, perché alcuni di voi sono già in questa età, in qualche maniera parlo della vita a cui dobbiamo prepararci. Quindi, dopo aver corso da soli (giovinezza, infanzia) e dopo aver concorso, come accogliere l’età autunnale, l’età anziana nella quale sono entrato o entrerò o, come diranno i nostri artisti o alcuni giovani presenti in sala, che è miglia e miglia lontana? Com’è questa età di mio nonno, di mio padre? È un’età con “i piedi sul freno”, dice questa terza pennellata.

Quando attesa s’allenta (l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza sono all’insegna dell’attesa), l’autunno preme il piede sul freno (l’ha tenuto finora sull’acceleratore e quindi, cercando di assommare delle cose, delle esperienze, anche la cultura), adesso è venuto il tempo di gustare lentamente. Mi chiedo perché ci sia un infinito (e lentamente “gustare”). Forse questo infinito che, se volessimo fare un’analisi del testo, non ci sta bene da un punto di vista sintattico, sta a ritardare; “gustare” è il sorso di vino che non hai ancora inghiottito e che hai in bocca e che viene valutato nelle sue sfumature, nei suoi retrogusti: E lentamente gustare la vita sillabata.

So che questa cosa non riguarda alcuni di voi, ma riguarda l’autunno e siamo tutti in autunno. Riguarderà anche l’autunno della vita, dove non corriamo più, non concorriamo più, perché siamo fuori, perché non abbiamo più il tempo di concorrere, perché abbiamo impresso il nostro tocco al mondo, su qualche pietra, su una pagina, su un pentagramma, nella vita di un figlio, nella vita politica, nella vita ecclesiale, abbiamo piantato dei fiori, abbiamo svolto un’azione. Adesso no. Adesso l’autunno ti fa sedere. Siediti, è autunno: guarda, gusta… E lentamente gustare la vita sillabata, cioè una vita gustata anche nelle piccole cose. A-mo-re, at-te-sa, ca-sa, ro-sa… Abbiamo imparato a parlare sillabando.

Adesso la scienza ha esteso oltre ogni possibilità di progetto questo tempo dell’autunno: è il tempo di camminare adagio adagio. È proprio degli anziani non correre; magari per motivi di artrosi fanno piccoli passi. Anche noi, in autunno, benché giovani, benché adulti, benché ancora correnti, benché ancora concorrenti, fermiamoci. Siamo venuti qui per sederci: Ah… non ho impegni, non ho telefonini che suonano, non ho persone che mi chiedono, non ci sono pentole che bollono, non ci sono cose che mi mettono ansia… Sono qui a sillabare la vita, anche se sono giovane, anche se sto ancora concorrendo.

Adesso vi faccio una piccola introduzione che vi aiuta nell’ascolto. Un autore del Novecento ha dipinto tre “quadri” diversi (ovviamente è una musica descrittiva con tre scene diverse): “Promenade”, “Disputa dei bimbi che giocano”, “Balletto dei pulcini nel loro guscio”. Quindi chiudete gli occhi e gustatevi questi tre quadri d’impressionismo musicale.

 

M. P. Musorgskij

Quadri di un’esposizione: Promenade

 

Tuileries

Disputa di bimbi che giocano

Balletto dei pulcini nel loro guscio

***

Potere evocativo della musica: potrebbe essere questo il commento a questi tre “quadri”, cioè come la musica ti fa vedere, perché la musica non ha solo un suono, ma ha anche dei colori. La musica descrive: avete sentito i bambini che giocavano nell’atrio dell’asilo, della scuola o di casa vostra? o i pulcini che aspettano di nascere?

Ci sono delle cose che aspettano di nascere. L’autunno non è solo il tempo della decantazione, dopo i toni del canto della primavera, ma c’è qualcosa che nasce anche in questo raccoglimento dell’autunno.

 

Primavera che fu

estate che è già stata

ora vendemmiamo l’autunno

e lo beviamo a sorsi.

 

“Fermati sole!”

Ma l’astro già declina

e lascia eco di luce

ramata di carezza.

 

Anche queste pennellate sono un po’ impressioniste, nel senso che descrivono una sensazione più che un concetto. Il primo quadro, quello della primavera passata, dell’estate ormai sfiorita e dell’autunno vendemmiato, dice delle stagioni e delle stagioni della vita. Qui non sono solo le quattro stagioni del concerto vivaldiano, ma una primavera lontana: è stata, fu. Invece c’è un’estate appena conclusa (ora vendemmiamo l’autunno). Qui c’è il ribollir dei tini, che ricorderete dalle vostre reminiscenze scolastiche, l’aspro odor dei vini. Penso all’Autunno di Vivaldi, al canto dei vendemmiatori che portano sulle spalle le gerle con l’uva da versare per la torchiatura. Questo per dire come una stagione si coglie pienamente nell’altra, in quella che segue, perché l’autunno è il tempo della vendemmia. Nella nostra cultura mediterranea c’è il tempo della vendemmia e il tempo della raccolta delle olive. La nostra cultura mediterranea, che è anche la cultura della Bibbia, ha due grandi frutti: l’uva e l’olivo, il vino e l’olio. Lo troviamo anche nei salmi di benedizione, dove l’abbondanza è indicata con “botte piena” e “olio fluente”. È il tempo della premitura, della pressura.

Pensiamo all’immagine dei nostri frantoi dove c’è la premitura (adesso la premitura a freddo è particolarmente quotata rispetto all’altra), cioè si premono dei frutti: c’è il senso del dolore, perché è una morte, perché è un gesto violento sul grappolo dorato, abbronzato. Ai nostri tempi – magari i giovani inorridiranno – si ponevano i piedi. La vendemmia per noi era una festa, quand’eravamo bambini, perché venivamo ammessi in una stanza dove si poteva calpestare l’uva con i nostri piedini. Ovviamente potete immaginare che grande produzione di mosto possano fare i bambini, ma eravamo ammessi a questa festa, tutti a calpestare, con i piedi nudi ovviamente ben lavati. C’era la vita, ma era una vita che dava la morte, come è morte anche questa premitura dell’uva perché poi, attraverso questa stanza, che era un po’ più in alto, attraverso una tubazione il mosto veniva condotto direttamente nelle botti.

Vi ricordo, come ho detto altre volte - ma a volte le cose vi sfuggono dalla memoria - che Getsemani (siamo stati al Getsemani con alcuni di voi) è “luogo del frantoio”, ma anche luogo dell’oppressione, perché il frantoio, nel frangere le olive, le schiaccia, quindi è il luogo dove Gesù è schiacciato, dove vive la sua agonia. Questo per dire che le immagini di vita e di morte vanno insieme. L’autunno che vendemmiamo: è come se stessimo vendemmiando non l’uva, ma la stagione, che produce un vino che beviamo a sorsi; è il contrario dell’ubriacarsi, proprio dell’eccesso giovanile. Un giovane con difficoltà sorseggia il vino o sorseggia qualcosa: il giovane beve tutto di botto. Viene un tempo per sorseggiare, come nel quadro precedente era il tempo del sillabare; adesso la vita è a sorsi, perché prendere un caffè è veramente un piacere immenso se fatto con calma, sorseggiando. Bisogna imparare a sorseggiare la vita, altrimenti arriveremo alla fine e neanche ce ne saremo accorti, a furia di bere di botto, senza gustare, anche se abbiamo avuto a disposizione 70’anni, 80’anni. Il giovane non gusta. Io spero che quelli fra voi che non sono più giovani non abbiano nostalgia, nel senso deteriore del termine, della propria giovinezza, ma possano dire: sono più contento oggi, sono più bello adesso, perché adesso sorseggio. Beviamo a sorsi.

L’altro quadro è sull’immagine di Giosuè che, per concludere la sua battaglia, dice: Fermati, o sole, su Gabaon / e tu, luna, sulla valle di Aialon. Anche noi vorremmo fermare il tempo, ma il tempo non si ferma. Quindi, “Fermati, o sole!”. Ma l’astro già declina, sembra indulgere ad una sorta di tristezza e non vorrei che questa mia riflessione avesse un tono dolente, perché non ce l’ha dentro (spero non l’accogliate così), perché questa voglia di fermare il tempo, di restare giovani, eternamente giovani, sempre quarantenni, è un’illusione. Il tempo va, la sabbia scorre nella clessidra, ma è bello questa eco di luce (e lascia eco di luce). Le giornate che cominciano già da tempo a tramontare presto, con la voglia di rincasare di cui dicevo già all’inizio, hanno però una qualità di luce ramata che è come una carezza. Allora rispetto alla voglia di fermare il tempo, c’è invece la dolcezza della luce dell’autunno, la bellezza dei colori caldi, la bellezza di una luce che, anziché opprimere, pressare, accarezza e quindi esalta. Una luce che accarezza esalta, come per le lampadine (Luca lo sa, quando gli chiedo: “Per favore, una luce calda”), perché ci sono più tipologie di lampade: luce fredda, che è la luce del neon di una volta (adesso anche i neon sono caldi), che dava un senso di freddezza, di disagio, ampliava i luoghi in una maniera oppressiva, e la luce calda, che è come se ci accarezzasse i volti, le vite. Così è la luce dell’autunno, e dunque sono gli occhi degli anziani che guardano così: guardano con la tonalità di una luce ramata, guardano senza nostalgie inutili, false. Sì, era bello quand’ero giovane, ma va meglio adesso, dove c’è - direbbe un poeta latino - un’aurea mediocritas. Ricordate questo verso, almeno quelli fra voi che hanno fatto studi classici? I nostri insegnanti si scervellavano a far capire a noi giovani come potesse esserci una mediocrità aurea, cioè dorata; non è la mediocrità della grettezza, del giocare al risparmio, ma mi sembra che sia qui l’aurea mediocritas: eco di luce ramata come una carezza.

Magari per voi saranno solo sensazioni: il Vescovo si sta aggrappando sugli specchi, che ha voluto dire? Aveva in mente – mi salvo così – di raccontarvi la bellezza dei colori dell’autunno, la bellezza del taglio di luce dell’autunno, che è sempre calda.

È calda anche la luce dei nostri occhi? È caldo anche il modo con cui guardiamo la vita senza fretta? È calda anche la nostra mediocrità dorata, aurea, dove non presumiamo di noi, non partecipiamo a gare, a lotte, a concorsi, ma guardiamo dalla finestra con una infinita riconoscenza?

 

J. Brahms

Sonata per pianoforte e violoncello

in MI min op 38 I tempo

***

Quando si ascolta musica, si fa musica, ognuno di noi segue i suoi pensieri e, libero dalle sollecitazioni oggettive che vengono dalle note, fa i suoi percorsi, i suoi viaggi. Devo confessarvi il mio viaggio durante questo brano di dialogo tra violoncello e pianoforte. Ho pensato al Cardinale Carlo Maria Martini, che ho avuto la gioia anche se dolorosa – può essere dolorosa una gioia? – di rincontrare il 1° ottobre a Milano. Il Cardinale Martini, che è stato un uomo fantastico, solenne, che ha segnato la storia della Chiesa, non solo di quella italiana, per più di 20’anni, come arcivescovo di Milano, è ammalato da anni di Parkinson ed è, non in una fase terminale, ma in uno stato “pietoso”, nel senso bello del termine. È un uomo che ha parlato, che ha affascinato le folle, migliaia e migliaia di persone (pensate a quelle che assiepavano il Duomo di Milano, nei banchi, seduti a terra, migliaia di giovani partecipavano alla “Scuola della Parola” negli anni ’80), ora sulla sedia a rotelle, sempre più rigido nella muscolatura, impossibilitato a parlare e che quindi parla sottovoce. Ovviamente è lucidissimo come ieri, ma è ridotto proprio nell’aspetto che lo ha caratterizzato di più - a volte la vita sembra essere crudele - ma ovviamente tutto questo è vissuto con una grande serenità.

Gesù dice a Pietro (capitolo 21 di Giovanni): “Quando eri giovane, ti cingevi la veste e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio, altri ti cingeranno e ti porteranno dove tu non vuoi”, per indicargli con quale morte avrebbe reso gloria a Dio. Quindi Gesù stesso parla dell’autunno in Giovanni 21, perché parla della stagione in cui ci si veste da soli e si va dove si vuole, ci si cinge - dice Gesù - perché i fianchi cinti sono gesti del pellegrino; poi viene il tempo - dice Gesù - in cui altri ci vestono e ci portano: ci portano dove non vorremmo andare. Dove non vorremmo andare? Nella dipendenza, ovviamente. È chiaro che gli infermieri e tutte le persone che stanno intorno a questo uomo fantastico hanno una devozione per lui, ma c’è una piena dipendenza. Lui stesso, forse nell’ultimo anno in cui è stato a Milano come arcivescovo, utilizzava un’espressione, mutuandola da un proverbio indù. Ci sono tre stagioni nella vita: il tempo di imparare (quindi tutto l’arco evolutivo, la scuola, l’università), il tempo di insegnare (che è la maturità, cioè il tempo in cui quello che ho imparato lo insegno ad altri; il maestro anziano di violoncello, che avrà avuto centinaia e centinaia di allievi, ha insegnato a tanti. Molti di noi sono in questa stagione), poi si va nel bosco, nella foresta, si torna e si inizia a mendicare. Viene il tempo di diventare mendicanti.

Quindi prima si impara, poi si insegna e poi si diventa mendicanti, che è un’arte. Attenti, che l’orgoglio, che è in ciascuno di noi, ci fa dire: “Io vorrei morire di infarto!”. Non conosco i vostri desideri, ma certamente non vorrei arrivare al tempo in cui i miei figli dovranno prendermi a carico, curarmi, prendermi… È il nostro orgoglio che ci fa parlare così; non saremo noi a scegliere la possibilità, che è un’arte - perché poi è la massima sapienza - di mendicare.

Non è sapienza insegnare, non è sapienza imparare: è sapienza chiedere l’elemosina (Mi aiuti? Mi sollevi? Mi metti a letto?).

Ecco, vi trasmetto questa “gioia dolorosa” che ho vissuto stando un giorno con lui. È un uomo nell’autunno e questo duo di violoncello e pianoforte me l’ha fatto rincontrare.

 

Sono rimaste due scene che voglio dedicare ad Angela e Luca, che oggi festeggiano 47 anni di Matrimonio:

 

È nata una rosa

inaspettata a novembre

regina in abito da sera

su un campo di sconfitte.    

 

Nel giardino del Vescovo l’anno scorso, a gennaio, è fiorita una rosa, nonostante il freddo, e sono stato a guardarla per ore, perché era un miracolo. È nata una rosa inaspettata a novembre. Non è maggio, non è giugno: è novembre! Ma anche su questa pianta nodosa di rose c’è un fiore. Allora, com’è questa rosa di novembre, questa rosa d’inverno? Una regina in abito da sera su un campo di sconfitte, perché è bellissima in abito in lamé (immaginate i colori che preferite), che incede, ma su un campo dove si è svolta una battaglia e ci sono tanti caduti. Questo non riguarda la vita di Luca e Angela, ma parlo di noi, di me: c’è questa rosa che nasce, che fiorisce in autunno, che certamente è una promessa, è una speranza, è un segno di vita. È certamente una regina in abito da sera, ma su un campo di sconfitte, come è sconfitto Martini, come sono sconfitti tanti anziani, come sono sconfitti quelli che hanno insegnato e adesso balbettano, quelli che hanno arbitrato e adesso non riescono a muovere un passo, quelli che hanno partecipato alle Olimpiadi e ora hanno bisogno d’essere sostenuti in tutto. Allora l’augurio che faccio loro è di gustare questa rosa. Quello che ho detto prima vale anche per voi: sillabare, eco di luce ramata di carezza. Vi auguro di guardarla questa rosa, anche se siamo sconfitti; inevitabilmente siamo sconfitti dalla vita, non loro, ma tutti. Quando affrontiamo la vita, ne usciamo sempre sconfitti; anche il Vescovo non ha la regina in abito da sera su un campo di vittorie, ma su un campo di sconfitte.

 

Non l’infanzia che arride

né gioventù che corre

non nell’età matura

ma nell’autunno è vita.

 

Non nella tanto cantata e decantata epoca d’oro dell’infanzia è vita, neanche nella gioventù, perché i giovani sono più infelici di noi, oggi particolarmente, non per colpa loro ma per l’orizzonte chiuso che hanno dinanzi. Neanche nell’età matura - l’età d’insegnare, direbbe Martini - ma nel mendicare è la vita, nell’autunno è la vita.

Consegno questo piccolo bouquet ad Angela, a proposito di rose che nascono, perché le spose hanno sempre il bouquet, anche una sposa che abbia 47 anni di tappeto attraversato (quello del giorno del Matrimonio è più semplice da attraversare, anche se vi ha fatto battere il cuore). Quindi alla fine vi auguro, auguro a me e a voi, di guardare la vita scandendola e raccogliendo la sapienza che l’autunno ci svela, ci consegna.

Vai piano, sorseggia, sillaba: guarda che bei colori, guarda che luce ramata, perché quello che è accaduto prima era un preludio, ma la vita è adesso, direbbe anche un cantautore che conoscete.

 

Benedizione del Vescovo

 

C. Saint –Saens

Allegro Appassionato

 

      

***

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.