“In punta
di piedi in Episcopio”
Meditazioni di
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
Vieni, Signore Gesù!
ovvero
Grammatica dei desideri
Teano, 28 Novembre 2008
~
Innanzi
tutto benvenuti.
Per chi
fosse nuovo di questa follia, chiamiamola così, cioè
di queste serate di preghiera, mettiamo insieme la riflessione, un momento per
ritrovarci, per stare fermi, per ripensarci, per riprendere in mano la nostra
vita, con una contemplazione musicale. Quindi ringraziamo già prima di
iniziare, Fabio e Maria Teresa che sono gli artisti che questa sera ci aiutano
a pregare. Per la prima parte seguite il programma che trovate sul foglietto.
Come vedete è un programma barocco (d’altra parte gli strumenti stessi lo
richiamano) che spero ci metta un po’ di ottimismo perché la musica barocca ha
sempre questa tonalità di visione luminosa, ottimistica della vita. Magari
storicamente non è stato proprio così, erano anche tempi difficili; ci sono
tempi difficili sempre, ma ci sono persone che riescono a estrapolare dal
problema una luce: è quello che cerchiamo di fare anche noi questa sera.
Iniziamo con un segno di croce.
Nel nome del Padre…
Cimarosa Domenico (1749-1801)
Concerto in Do minore: Laghetto, Allegro, Siciliana,
Allegro giusto
Iniziamo
il nostro cammino di lettura, di approfondimento, di vocazione, come negli
altri incontri: parto dal tema “Vieni, Signore Gesù! Ovvero grammatica dei
desideri” (sembrano due cose che non hanno alcuna attinenza). Innanzi tutto
“Vieni, Signore Gesù” è il tema dell’Avvento nel quale stiamo per entrare tra
appena un giorno (praticamente domani sera siamo già nel tempo di Avvento). Per
chi abbia un po’ più di sensibilità liturgica, questi
ultimi giorni dell’anno che si chiude vengono vissuti sempre con una
particolare tensione, più o meno quella tensione che abbiamo il 28, 29, 30
Dicembre, per quanto concerne l’anno civile. Ci chiediamo: cosa ho fatto
quest’anno? Quali mete ho raggiunto? Come quello che mi ero prefissato si è
realizzato? In parte? Per niente? Totalmente? Impossibile. C’è questo rapporto
tra ciò che noi avevamo in mente, avevamo nel cuore e ciò che poi si è andato
realizzando lungo il corso dei mesi, quindi anche da un punto di vista
liturgico, delle celebrazioni. Siamo cresciuti? Siamo diventati più uomini, più
donne, più cristiani, in questo tempo? Sono domande ineludibili che comportano
sempre un po’ di tristezza perché i conti non tornano mai, ma immediatamente vi
dico a vostro conforto: guai se tornassero. Se qualcuno di noi, in questo
momento, ha la presunzione (perché è tale) di dire: “Ho cominciato l’Avvento
l’anno scorso e adesso lo chiudo tra stasera e domani mattina e penso d’aver realizzato quello che avevo in mente”, è un illuso. Allora
vi chiederete: ma siamo condannati dunque a non realizzare mai ciò che abbiamo
in mente? Ecco allora “Vieni, Signore Gesù” che è il tema degli ultimi giorni
dell’anno che si chiude, ma anche il tema dell’Avvento perché è la preghiera
che ci viene dalle primissime comunità cristiane, da quelle del I secolo, dove ci sono ancora gli apostoli, persone che
hanno visto il Signore e che invocano il suo ritorno. Se invochiamo un ritorno,
evidentemente c’è qualcosa che non va: aspettiamo una pienezza, aspettiamo una
realizzazione che nella storia non si può realizzare appieno. Ecco, questa è la
prima consolazione. Di qui dunque “Grammatica dei desideri”, cioè come se in
questo incontro - sia pure sempre in una maniera un po’ evocativa, come sa
essere il mio linguaggio e il mio ordito di pensiero - a partire da questa
distanza, tra ciò che dovremmo essere e ciò che siamo, tra ciò che siamo
chiamati ad essere e ciò che concretamente riusciamo a realizzare, insieme potessimo guardare il desiderio e il desiderare, cercandovi
una “grammatica essenziale”. Si dice “grammatica” per intendere i rudimenti, i fondamenti
della lingua. Le suore dell’Episcopio un po’ hanno sorriso – perché qui c’è
anche la tipografia ovviamente, che fanno sempre loro –
quando piegavano i foglietti. “C’è anche la grammatica, questa sera”
perché ogni tanto il Vescovo fa anche i rilievi per aiutarle a entrare appieno
- sono già bravissime, eh? – nella lingua italiana. Ma mentre noi riusciamo a
prendere gli elementi essenziali di una lingua, è difficile che impariamo
quella lingua comune a tutte le lingue che è la lingua umana. Cosa significa
“lingua umana”? Significa capire io chi sono e capire come si snodano certi
eventi, certi episodi, certe stagioni della mia vita, essendo io nella
possibilità di leggere questi eventi in una maniera chiara: ecco la grammatica.
C’è una grammatica dei desideri? Oggi ce n’è particolarmente bisogno, perché vi
rendete conto che le persone non desiderano più: si parla di calo dei desideri,
non vi scandalizzate (d’altra parte siete abituati a queste
sortite del vostro Vescovo tutti gli anni), anche sul piano sessuale.
Come mai?, cos’è successo?, che sta succedendo?, è
colpa delle donne?, è colpa degli uomini?, c’è qualche virus che è entrato nel
DNA? Come mai anche questo interessamento, che faceva venire il torcicollo a
Dante, come a tutti quelli del suo tempo in chiesa, a girarsi per vedere e
guardare Beatrice sembra appiattito? Sapete, si parla di libidogramma piatto.
Qui sono ovviamente termini che ci vengono da studiosi (sono sempre un po’ gonfiati), ma esprimono una verità e la verità è che non
sappiamo più desiderare: non si desidera più niente - e questo già un’altra
volta in altro ambito ve lo dicevo - perché lo spazio tra l’emissione del
desiderio e la realizzazione del desiderio si fa sempre più breve. “Voglio il
diamante per Natale”? “Eccolo!” - dice il marito (voi starete pensando:
“Magari”), a dire che lo scrivere la lettera a Gesù Bambino, per ricordare cose
della nostra infanzia, e sentire il balocco che scende nel camino è tutt’uno.
Questa riduzione dello spazio porta ad un’assenza di desiderio e di forza di
desideri. Già la questione ve la starete ponendo prima ancora che io la enunci:
“Attento, Eccellenza! Lei sta confondendo ‘desideri’
con ‘bisogni’”. Effettivamente sono i bisogni che
stanno uccidendo i desideri, non che i bisogni siano da cancellare. Noi siamo
una fascia di bisogni sul piano fisico, psichico, ma questo “supermercato dei
bisogni”, sta uccidendo questa forza dell’uomo che è sempre stata la forza del
desiderio e del desiderare. Perché i sogni uccidono a volte il desiderio? Perché
l’immediata soddisfazione crea un’opulenza, per così dire, psico-fisica che non
stimola l’azione desiderante della mente, del cuore, quasi come una sorta di
ottundimento a causa di questa orgia dei bisogni. Come sempre voi siete
abituati alle mie citazioni poco ortodosse: Pierpaolo Pasolini, che non era un
santo e non era certamente un padre della Chiesa (ma come tutte le persone
pensanti noi dobbiamo accogliere gli avvertimenti da qualsiasi parte ci
vengano), in uno degli ultimi articoli, prima della morte tragica, come
ricorderete, scrisse su “Il Corriere della Sera” un articolo con questo tema
“Il penitenziario dei consumi”. Questo fatto che c’è il supermercato (adesso
c’è la città-mercato come simbolo) sembra che tutto sia facile, accessibile,
fruibile, comprabile: in effetti, diceva già allora in tempi non sospetti
(Pasolini non è di oggi, neanche di ieri), è una forma di “penitenziario”, cioè
a noi sembra di star bene, di andare in vacanza, di fare le file interminabili
per accedere alla visione di un film, ma in realtà tutto questo è circondato da
un muro altissimo che ci tiene prigionieri. Desumiamo questa immagine, che
viene da una letteratura non proprio vicina alla nostra, per dire che il
desiderio è “il tentativo di fuga dal penitenziario dei consumi”: qualcuno di
noi riuscirà a rendersi conto che questo carnevale in atto, d’altra parte già
finito (come sapete negli ultimi mesi le notizie sono allarmanti) è
un’illusione e che quindi forse per la felicità è il caso che io scavalchi
questo muro altissimo del penitenziario, tentando una fuga per riaccedere al
desiderio. Chiudo questa parte con questa definizione: l’oggetto del desiderio
non c’è (sempre in una maniera un po’ paradossale). Non stiamo parlando di
“voglio la pelliccia di visone”, “voglio il diamante”, “voglio il brillante”,
“voglio la doppia casa”, ma di un desiderio di bene,
di bellezza, di armonia, di una relazione pienamente soddisfacente (tantissimi
di voi sono marito e moglie). Ebbene l’oggetto del desiderio non esiste, perché
se ci fosse, se fosse fruibile, se fosse immediatamente afferrabile, sarebbe un
bisogno e non un desiderio. Sembra una frase che ci condanna, ma attenti, in
questa definizione (l’oggetto del desiderio non è possibile) c’è in realtà una
via di liberazione dal “penitenziario dei bisogni”: significa che io sarò in
tensione continuamente,
che nessuno di noi può essere soddisfatto, significa che stiamo
riuniti qui, nel salone dell’Episcopio, non per un salotto settecentesco, come
i suoni ma anche l’ambiente (perché questo salone è settecentesco) farebbero
intendere; non siamo persone che si baloccano tra ventagli, brillanti, nei e
cicisbei, ma questa nostra assemblea è un gruppo di sovversivi, nel senso più
bello del termine (mi avvince sempre questa immagine), che vuole evadere dal
“penitenziario dei bisogni” e ha chiesto l’ausilio di due artisti: aiutateci a
volare e a salire oltre questo muro che non vediamo ma che c’è, che ci chiude
in questa pseudo-libertà, in questa facilità di
raccogliere soddisfazioni, svilendo la nostra facoltà più profonda d’esser
felici che è legata al desiderio. “Vieni, Signore Gesù” è il desiderio che il
Signore torni, come desiderio di vita piena: è un’invocazione che si radica
nella migliore attesa antropologica. In effetti, facendo questo piccolo giro (a
voi è sembrato d’essere un po’ strapazzati, tirati di qua e di là),
semplicemente ho voluto attestarvi come “Vieni, Signore Gesù” si poggia su un
impianto dell’uomo, quindi antropologico, profondissimo, perché è il desiderio
di ciò che non puoi avere subito: sono duemila anni che siamo in tensione verso
questa venuta; sono duemila anni che si attende che il Signore venga a
restaurare l’umanità nel suo splendore. Il fatto che non sia venuto ancora
significa che l’umanità, e quindi
Andreozzi Gaetano (1755-1826)
Adesso
che ci siamo un po’ riscaldati le mani, si dice così
in termini musicali per i concertisti, e noi spero un po’ riscaldato i muscoli
mentali e quelli del cuore, entriamo nel vivo di questa “Grammatica dei
desideri”, lavorando intorno al concetto che il desiderio è sempre desiderio
dell’altro, dell’alterità, desiderio del nuovo, del diverso da me. Ovviamente,
come sempre, vi sembra che io dica delle cose del tutto scontate e per certi
aspetti è così, ma per altre sono queste cose scontate quanto mai disattese.
“Non è bene che l’uomo sia solo”. È scritto nelle primissime pagine della
Bibbia, a indicare non solo il desiderio dell’uomo per la donna e della donna
per l’uomo, ma per dare il comune denominatore di ogni desiderio: il desiderio
è sempre un ponte verso un tempo nuovo, una persona, un’alterità, verso il
totalmente altro che è Dio. Quando nell’intervento precedente ho parlato di
libidogramma piatto, c’è da aggiungere anche che oggi c’è una paura del nuovo e
una paura dell’altro, dell’alterità. Voi siete venuti stasera qui con quali
sentimenti? “Andiamoci a riposare in Episcopio - speriamo non a dormire! - Il
Vescovo ci offre questa pausa di contemplazione musicale e di riflessione”. Ma
io immagino, e dovete scavarla questa paura, che ci sia stata in voi anche una
sorta di paura a venir qui. Paura perché? Forse che
non ci siamo trovati bene altre volte? Sì, ma ogniqualvolta usciamo di casa, usciamo
con una certa apprensione (Fabio è stato due ore sulla tangenziale temendo di
non arrivare in tempo). Non mi riferisco solo alle
difficoltà che si frappongono all’atto in cui noi usciamo di casa, ma mi
riferisco al fatto che possiamo sentire una cosa che ci destabilizza,
che ci mette in crisi, che ci rivela a noi stessi, che ci può far dire: “Ma
allora non è colpa dell’altro se il mio matrimonio non va bene”. Quando le cose
non vanno bene nel Matrimonio, in parrocchia, a scuola, nel lavoro, diciamo sempre
che la colpa è degli altri. Allora venire a un incontro - qualsiasi incontro,
non solo questo - incontrare un’altra persona significa sempre metterci un po’
in crisi: “Quello che ho pensato fino adesso lo penserò anche dopo, quando sarò
uscito da questa sala?”. Questa paura della novità è un deterrente terribile
per l’arte del desiderare, cioè noi abbiamo paura del nuovo, abbiamo paura che
qualcuno ci dica: “Non va bene la tua vita”. Abbiamo paura di chi possa destabilizzarci: per questo motivo noi siamo,
fondamentalmente e strutturalmente, uomini tradizionalisti, nel senso deteriore
del termine, cioè non amiamo gli sconvolgimenti, non amiamo i cambiamenti. Il
cambiamento ci mette in ansia, questo lo vivono in particolare gli anziani in
quelle loro manie di mettere le cose sempre allo stesso posto: guai se gliele
sposti!, guai se ne metti una davanti all’altra e non
rispetti quell’ordine! Man mano che si va avanti
nella vita c’è questa paura del disordine rispetto all’“ordine-secondo-me”. Ma l’ordine secondo me è anche l’ordine in sé, è anche l’ordine secondo l’altro?
Questa tensione, questa paura dell’altro è anche alla base di questo calo del
desiderare. Perché la paura dell’altro non mi fa desiderare? Faccio alcuni
esempi, il primo di natura psicologica. Sapete che il narcisismo, da quando Freud ed altri hanno messo in luce questa malattia, è
diventato sempre più imperante, una malattia molto diffusa: il narcisista vede
sé e le immagini di sé riflesse negli altri. Non aspetta che
l’altro parli: se incontra un altro è solo perché l’altro gli dica: “Bravo!
Ottimo! Sei bellissima! Sei vestita meravigliosamente!”, che gli altri ci
facciano dei complimenti. A volte gli altri sono la platea delle nostre
esibizioni. Ecco, spesso noi e altri insieme con noi, vivono questo problema
d’essere centrati su di sé, perché all’atto in cui io dovessi
scoprire che c’è un altro diverso, la mia integrità, la mia bellezza, il mio
essere al top viene a cadere e dunque abbiamo paura dell’altro. Il narcisismo,
come malattia psicologica, è questa negazione dell’altro e autoaffermazione di
sé, comunque e al di sopra di tutti. Un’altra riflessione, diciamo da un altro
ambito, porta alla stessa meta e mi riferisco ai nazionalismi: certamente
appartenevano forse all’Ottocento,
ma vedete che tornano con altri nomi, con nuove forme. Cos’è il nazionalismo se
non la negazione dell’altro?, per esempio dell’altro
che viene da paesi extracomunitari?, dell’altro diverso da me?, dell’altro che
non crede come me? Ci dobbiamo anche interrogare come Chiesa se siamo
sufficientemente accoglienti. “Accoglienti” non significa che accettiamo il
supermercato delle fedi (saremmo di nuovo nell’errore), ma “accoglienti” nel
senso che riteniamo di avere, non per nostro merito, un dono e lo vogliamo in qualche
maniera condividere. Allora la paura dell’altro genera l’assolutizzazione di
quello che penso io, di quello che pensiamo noi e finiamo col ripetere
l’identico. La ripetizione dell’identico è la monotonia. A differenza di tutti
questi suoni sempre vari, è come se noi avessimo qui sempre lo stesso accordo,
sempre la stessa nota: immediatamente voi iniziereste a sbuffare (“Ma che
musica è questa?”). È la varietà che genera l’armonia e com’è che questo poi
noi non lo mutuiamo sul piano del dialogo, sul piano di una interculturalità, come oggi si ama dire, e non riusciamo a
viverlo? Vi sembra che io adesso vi abbia portato altrove, ma il tema è lo
stesso e cioè il desiderio è apertura all’altro e l’altro lo troverò sempre
diverso da me. Terzo esempio: anche questa cultura del “single”, che oggi
diventa sempre più alla moda, è un’attestazione della paura dell’altro. Vedete
c’è una paura anche nel Matrimonio, c’è una paura nella relazione con un uomo,
con una donna. C’è la paura dell’intimità, c’è la paura di esporsi:
sarebbe meglio vivere da soli, in fondo la cultura del single dice: “Il
matrimonio ormai è vietato ai minori di 80 anni: quindi fino a ottant’anni lasciatemi libero, poi si vedrà”. Ma
anche qui abbiamo la paura dell’altro e quindi la caduta del desiderio. Infine,
mi sembra di cogliere nella nostra cultura (i cartelloni pubblicitari ve lo
dicono, ve lo raccontano, ve lo indottrinano) questa omosessualità strisciante,
dove per me va bene “l’identico a me”. E dov’è il desiderio? Vedete,
ho fatto vari esempi per dirvi come in questo “penitenziario dei consumi”
stiamo uccidendo il desiderio, perché la paura dell’altro, del nuovo,
dell’alterità ci frena a tal punto da dire: bastiamo noi, basta che ci siamo
noi e quindi vedete gruppi dove è difficile entrare (anche nelle parrocchie),
piccoli clan, piccoli salotti dove bisogna fare le prove di Ercole per essere
ammessi, bisogna fare tutti i riti di iniziazione altrimenti “non sei dei
nostri”, “non fai parte del Rotary oppure dei Lions”, per dire due “club in” (chiedo scusa se ci sono qui
esponenti di questa…): è una sorta di tendenza a chiuderci precludendoci
l’altro come ricchezza e uccidendo il desiderio.
“Vieni,
Signore Gesù” - torno al tema e chiudo questo secondo intervento - è questa forza
esplosiva che è nel cuore della nostra fede, dove invochiamo una venuta che
stravolge tutte le nostre impalcature - non vi scandalizzate - alla fine
probabilmente anche quelle teologiche, perché anche quelle sono impalcature
perché sono mentali: ovviamente bisogna studiare Teologia, bisogna argomentare
- io stesso lo faccio - il tema della fede. L’impalcatura deve aiutarti a
costruire e ad aprirti al Mistero. Bene, il Signore viene e viene a rimetterti
per la strada, viene a rimetterti in cammino, a dire: “Sei un fallito?
Bravissimo!”. Spero che almeno questo passi stasera. È andata male quest’anno?
Ottimo! Sei promossa! Se tu avessi detto che è andato tutto bene, saresti stata
bocciata. È andata male? E sai perché è andata male? Perché c’è bisogno
d’altro: apriamo le finestre, incontriamo, gettiamo ponti, perché il desiderio
è fondamentalmente desiderio dell’altro, di altro, del nuovo, della novità
assoluta che è Dio.
Handel Georg Friedrich (1685-1759)
Sonata in Do Maggiore op.1
N°7: Laghetto, Allegro, Laghetto, Gavotta, Allegro
Ovviamente
la parte concertistica del nostro incontro non è un intrattenimento
ma è una continuazione del discorso. In fondo, mentre Fabio e Maria
Teresa modulavano, noi abbiamo continuato da un lato a ruminare questo
“carosello” di idee, di sollecitazioni, dall’altra, anche dalla musica stessa
ci vengono degli apporti, dei colori, delle immagini, dei paesaggi. La musica è così: è descrittiva, rievoca dei luoghi, delle
sensazioni, dei sentimenti e noi, come ho detto l’altra volta, entriamo in
sintonia con Handel e poi in sintonia con loro due
che stanno suonando Handel e con tutti quelli che
hanno eseguito questo spartito: si crea comunque un dialogo a più voci.
Quindi non è solo il Vescovo che parla, ma abbiamo ascoltato cosa pensasse Handel del desiderare e
come, attraverso questo spartito, è entrato nell’alterità, ha invocato
l’alterità. Nessuno scrive musica per sé, per diletto (“Ho scritto questa cosa,
ma non la faccio sentire a nessuno”). Anche quelli le cui opere sono state
ritrovate ed eseguite post mortem, in qualche maniera
gettavano un messaggio in una bottiglia e qualcuno l’ha raccolto: penso a Bach
in questo momento dopo un secolo e più di dimenticanza. I desideri non
annullano i bisogni: i bisogni costituiscono una sorta di motore anche dei
desideri, ma il desiderio si pone ad un’altitudine del bisogno, dove il bisogno
da solo non arriverebbe. Pensiamo adesso per un attimo al bisogno primario del
mangiare che è un bisogno fisiologico, fisico perché dobbiamo assumere delle proteine
che si trasformano in energia, e poi in sangue. Bene, questo è un bisogno, ma
noi desideriamo mangiare con altri. Adesso la butto lì, tanto per farvi
sorridere (tanto è impossibile): “Vorrei invitare il Vescovo a cena”. È un bel
desiderio. “Ho pensato di invitare il Vescovo a cena”. Dico è impossibile,
faccio questo esempio, perché è quello di terzo tipo, come ci insegnavano per
il latino. Perché comunque è un bel desiderio? Perché vorrei che questo momento
di assunzione del cibo, diventasse convivialità e poiché ho sentito che tirava fuori dal cappello, dal cilindro tutte queste cose strane,
magari a tavola se ne potrebbe riparlare in una maniera un po’ distesa e fare
anche un dibattito, cosa che ovviamente qui non può accadere per il “genere
letterario” del nostro stare insieme. Se noi ci guardiamo, mangiamo lo stesso
cibo e diciamo: “È buono” e facciamo i complimenti alla cuoca e poi
progettiamo, e poi ricordiamo, e poi ci confortiamo, e iniziamo un po’ freddini certe mense e concludiamo sempre con grande
rumorosità, è segno, è sacramento di un bisogno che è diventato desiderio di
comunione. Quindi come vedete il desiderio non uccide il bisogno, lo esalta; se
poi questa convivialità diventa Eucaristica, allora niente meno che ho invitato
a cena Gesù, mangio con Lui e Lui mi dice
Pergolesi
Giovanni Battista (1710-1736)
Siciliano
***
Seconda
parte
Ascolteremo
tre brani in questa parte molto più breve (ne abbiamo
aggiunto uno tra i due, poi ve lo annuncerò). Avete letto l’espressione di Gesù
che viene dall’Antico Testamento: “Non di solo pane vive l’uomo” che è appunto
un’apertura sui desideri rispetto ai bisogni. Brevemente vi racconto questo
episodio, che alcuni di voi già conoscono, della vita di Rilke questo poeta,
che nella sua biografia si dice passava spesso per una via e lì c’era una
povera donna che chiedeva l’elemosina. Il poeta, generoso, lasciava una moneta.
E così un giorno, due, tre, quattro… insomma era diventato un habitué. La donna
sapeva che questo signore, con il cappello e il cappotto elegante, le avrebbe
dato un obolo. Un giorno il poeta lasciò nelle mani della donna una rosa (non
provate a farlo, non avreste la stessa reazione). La donna si illuminò e andò a
ringraziare il poeta e diceva agli altri: “Finalmente mi ha vista!”. La donna
cui tu dai l’elemosina è un oggetto, è una statua e non si stabilisce nessuna
relazione. Ma se tu porti una rosa a una donna, sia pur povera, questa donna si
sente guardata. È bellissimo questo episodio perché fa capire bene lo
spartiacque tra il bisogno (certamente questa donna aveva bisogno), la
relazione e il desiderio. Il desiderio è desiderio dell’alterità: all’atto in
cui il poeta consegna una rosa a questa donna poverissima, privandola
dell’obolo di cui forse aveva bisogno, desta in lei la
gioia di essere riconosciuta come persona.
Bach Johann Sebastian (1685-1750)
Sonata IV in Do Maggiore: Andante, presto,
Allegro, Adagio, Minuetto
Prendo
spunto dalla conformazione del flauto, come di ogni strumento a fiato, per
questa penultima riflessione sul desiderio. Il flauto è cavo, è vuoto e poi
pensavo anche all’acustica. Penso che abbiate colto anche l’acustica di questo
salone, dovuta non solo alle dimensioni, ma anche agli spazi vuoti. Oggi nelle
nuove sale da concerto si cercano tante leggi dell’acustica per rendere al meglio.
Nell’antichità queste cose erano avvertite dagli architetti, quasi per un senso
innato, senza la scienza, perché si sentisse il suono puro. Quindi abbiamo due
vuoti (dovremmo aggiungerne anche un terzo): il vuoto dello strumento cavo
attraverso cui passa il soffio, il fiato del flautista (gli strumenti a fiato
sono un’immagine anche sacramentale dello Spirito Santo, che entra nelle
persone e genera melodie), il vuoto che lo accoglie e il terzo vuoto è il
nostro ascolto. Questi tre vuoti non sono a perdere, non sono negativi, ma sono
positivi: guai se non ci fossero. Se non ci fossero, non ci sarebbe possibilità
di suono. Che cosa scava lo strumento? Ovviamente il dolore. Pensate in
particolare al flauto in legno, dove l’artigiano scava
e questo scavo è doloroso, si toglie legno perché il fiato, l’aria, il soffio,
lo Spirito possa passare. Questa è l’azione del desiderio, secondo la
definizione di Sant’Agostino, che trovate qui sul
vostro foglietto: “Con il desiderio Dio scava le anime e le rende più capaci di ricevere”. “Con il desiderio”, non con la realizzazione.
Quindi attenti che se entriamo in questa dimensione, forse, le grazie più
grandi sono quelle che non abbiamo avuto: non quelle avute che si concludono
con l’ex voto “per grazia ricevuta”. “Per grazia non ricevuta”, perché il non
ricevere la grazia ci pone in una tensione e in uno scavo ulteriore che rende
possibile il suono. La sazietà non genera nulla, l’abbondanza nel senso del
ricco epulone, non attiva nessuno strumento. È il dolore, è lo scavo, è il
vuoto, è il desiderio inappagato che scava e – dice Agostino – rende l’uomo più
capace, cioè questo scavo è finalizzato a un ricevere e capite che qui non è
ricevere un dono o una grazia chiesta a lungo, ma ricevere Dio stesso: questo è
l’apice del desiderio, cioè il desiderio è bene come se fosse bene in se
stesso. Uno dei titoli di questi libri, che parlano del calo del desiderio, ha
come titolo: desiderare il desiderio, cioè tornare a desiderare perché non si
desidera più nulla e non si sogna e quindi non si cerca e non ci si mette in
cammino; ma desiderare il desiderio può essere anche presa come espressione in
positivo, cioè tornare a desiderare il desiderio. Nel testo dell’Ultima Cena quando Gesù dice: “Ho desiderato ardentemente di
mangiare questa pasqua con voi” la traduzione della vulgata, cioè nella
traduzione latina dal greco, dice: “Desiderio desideravi”. Ho desiderato questo
desiderio, cioè questo che si sta realizzando l’ho desiderato. “Desiderium desideravi” è questo desiderare il desiderio,
cioè desidero desiderare. Vi sembra un gioco di parole, ma
credo che ci comprendiamo in questa rivalutazione del desiderio come la nostra
grande forza che, dice Agostino, realizza anche uno scavo, ti rende più umano.
Questo dolore, questo rimando dell’incontro – questo vale anche per quelli fra
voi che sono sposati – “poi ci capiremo meglio domani, tra dieci anni,
nell’eternità” è non un sottrarre la preda a chi sta per prenderla, una sorta
di condanna, ma è una via educativa. Allora ascoltando questo brano, ora
ringraziamo il Signore per tutte le volte in cui non ci ha esauditi e quindi ci
siamo lamentati, abbiamo protestato e stasera scopriamo che forse le uniche
grazie sono quelle non ancora ricevute.
Reverberi
Andante veneziano
Cogliamo
anche questa sospensione del brano che finisce come un bel messaggio. Vorrei
concludere il nostro incontro stasera, leggendo con voi questo quadro,
brevemente.
Questo
è un quadro di Pasquale Cipolletta,
un pittore della Penisola Sorrentina, un originale. Tra l’altro normalmente io
espongo sempre delle copie e dei falsi, ma questo è un originale che mi è stato
donato. È un quadro che probabilmente nessuno avrebbe
comprato perché c’è questa bitta, si chiama così, questo paletto di
ferro con la ruggine che è al porto, dove attraccano le barche, che occupa la
scena in una maniera oscena, per cui uno dice: “Ma io vorrei un panorama”.
Quindi noi avremmo cercato un’altra inquadratura, magari la bitta l’avremmo messa giù, solo per creare profondità e invece l’artista ha
voluto proprio dipingere la bitta, cioè quest’oggetto di attracco, tra l’altro
con tutte le sfumature di ruggine, di colorazioni varie dovute alla salsedine.
Quindi è un invito all’approdo, ma questo invito è
espresso in due maniere: all’approdo o alla partenza, perché per ogni viaggio –
dice il cantautore che conoscete – c’è sempre un viaggio da ricominciare. Ci
sono questi due linguaggi che a me affascinano della gomena vecchia, sdrucita,
giù, che dice di tante difficoltà di navigazione, dice anche stanchezza in
qualche maniera, ma alla fine dice abbraccio. Io leggo così e vi trasmetto
queste sensazioni che questo quadro mi dà. Dall’altra c’è la fune nuova,
sintetica che dice del giovane. Se ci fate caso, quella dell’anziano è
abbandonata e avviluppata in una maniera molto dolce, come in un abbraccio,
quella del giovane è tesa come chi voglia dare uno strappo: abbiamo anche due
generazioni o due stagioni della vita rispetto all’approdo e rispetto alla
partenza, dove c’è chi ha fretta d’andar via (la fune sintetica) e c’è chi
invece dice “lasciatemi così come una cosa posata e dimenticata”, dice il poeta
Ungaretti, nella poesia “Natale”; chi ha fretta, urgenza, smania di partire e
di chi invece di partenze ne ha fatte tante e vuole per un attimo riposare.
Sono anche due linguaggi rispetto a un punto fisso che deve starci, altrimenti
non approdiamo a niente nella vita: è un principio, un valore, o se volete, se
non vi sembra blasfemo che una bitta possa esprimere anche questo, Dio stesso. Allora se la bitta è Dio, c’è chi morde il freno ed è il figlio
prodigo che vuole sperimentare e dice: “No, forse Dio non è così buono come da
intendersi” e c’è il figlio che è tornato, dopo tante delusioni, e che si
avviluppa intorno al padre dicendo: “Lasciatemi qui, perché questa è la
felicità”. Ecco, io voglio concludere così stasera, chiedendovi,
chiedendomi: quale delle due condizioni rispecchia meglio la mia vita in questo
momento? Del giovane esasperato (adesso non è importante l’età cronologica) che
vuole partire e ha fretta di prendere il largo, o di chi è un po’ stanco e si
aggrappa a Dio, dicendo con Agostino “Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro
cuore è inquieto finché non riposa in te”? La fune vecchia è
come se dicesse: “Non voglio più partire: ho trovato”. La fune giovane
dice: “Lasciatemi cercare, c’è ancora un mare aperto da solcare”. Ovviamente
non do letture positive e negative, perché nell’uno e nell’altro atteggiamento
c’è un bene, ma certamente auguro a tutti voi stasera di trovarlo un approdo
dove agganciarvi. L’importante, soprattutto al sopravvenire dell’inverno, al
sopravvenire della tempesta, è avere - si dice in termini tecnici - dove
attraccare la mia vita. Certamente è un attracco anche il Matrimonio, è un
attracco, per Maria Teresa, Nunzio con cui ha suonato nell’ultimo incontro.
Abbiamo bisogno di questi attracchi, ma cerchiamo un approdo a
cui aggrapparci in una maniera “dolcemente disperata”, ma anche da cui
saper partire, in modo tale che, questo attracco, sia desiderato di più
(“Desiderio desideravi”). Se l’incontro di stasera può lasciarvi qualcosa, è la
voglia di scavare e di lasciarci scavare ancora. Non è finita
qui la nostra avventura: c’è ancora molto da scavare e allora lasciamo che il
desiderio operi questo, in modo tale che al prossimo attracco siamo più pronti,
più decisi ad abbarbicarci alla bitta dicendo: “Non ti lascerò: ti ho trovato”.
Agostino stesso dice che chi ha trovato Dio deve continuare a cercarlo perché
qui non c’è definitività, non c’è approdo pieno. I
nostri defunti, quelli che abbiamo ricordato nell’incontro precedente del 31
ottobre, invece sono pienamente rappresentati dalla fune sfilacciata, ma
serenamente aggrappata a Dio: noi siamo ancora quelli che tirano pensando che
possa essere preferibile il mare aperto. Vi tenete per mano in silenzio e
diciamo insieme:
Padre nostro…
Benedizione
del Vescovo
Bach Johann Sebastian (1685-1750)
dalla Suite in Si
minore: Minuetto, Badinerie
Grazie
a tutti. Mi va di affidarvi anche questo ricordo. Questa sera è importante nella
mia storia perché tre anni fa io cominciai a mettermi in cammino a piccoli
passi verso l’episcopato, perché Monsignor Cece, questa sera del 28 Novembre,
mi chiamò e mi disse: “Io ho pensato... Io ho iniziato
questo iter” e quindi è come se allora io mi fossi messo mentalmente e nel
cuore in cammino, non sapevo verso dove, ma poi ho scoperto che la bitta stava
qui. Buona serata.
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Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.