“In punta di piedi in Episcopio”

 

Meditazioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

Vieni, Signore Gesù!

ovvero

Grammatica dei desideri

 

 

Teano, 28 Novembre 2008

 

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Innanzi tutto benvenuti.

Per chi fosse nuovo di questa follia, chiamiamola così, cioè di queste serate di preghiera, mettiamo insieme la riflessione, un momento per ritrovarci, per stare fermi, per ripensarci, per riprendere in mano la nostra vita, con una contemplazione musicale. Quindi ringraziamo già prima di iniziare, Fabio e Maria Teresa che sono gli artisti che questa sera ci aiutano a pregare. Per la prima parte seguite il programma che trovate sul foglietto. Come vedete è un programma barocco (d’altra parte gli strumenti stessi lo richiamano) che spero ci metta un po’ di ottimismo perché la musica barocca ha sempre questa tonalità di visione luminosa, ottimistica della vita. Magari storicamente non è stato proprio così, erano anche tempi difficili; ci sono tempi difficili sempre, ma ci sono persone che riescono a estrapolare dal problema una luce: è quello che cerchiamo di fare anche noi questa sera. Iniziamo con un segno di croce.

 

Nel nome del Padre…

 

Cimarosa Domenico (1749-1801)

Concerto in Do minore: Laghetto, Allegro, Siciliana, Allegro giusto

 

Iniziamo il nostro cammino di lettura, di approfondimento, di vocazione, come negli altri incontri: parto dal tema “Vieni, Signore Gesù! Ovvero grammatica dei desideri” (sembrano due cose che non hanno alcuna attinenza). Innanzi tutto “Vieni, Signore Gesù” è il tema dell’Avvento nel quale stiamo per entrare tra appena un giorno (praticamente domani sera siamo già nel tempo di Avvento). Per chi abbia un po’ più di sensibilità liturgica, questi ultimi giorni dell’anno che si chiude vengono vissuti sempre con una particolare tensione, più o meno quella tensione che abbiamo il 28, 29, 30 Dicembre, per quanto concerne l’anno civile. Ci chiediamo: cosa ho fatto quest’anno? Quali mete ho raggiunto? Come quello che mi ero prefissato si è realizzato? In parte? Per niente? Totalmente? Impossibile. C’è questo rapporto tra ciò che noi avevamo in mente, avevamo nel cuore e ciò che poi si è andato realizzando lungo il corso dei mesi, quindi anche da un punto di vista liturgico, delle celebrazioni. Siamo cresciuti? Siamo diventati più uomini, più donne, più cristiani, in questo tempo? Sono domande ineludibili che comportano sempre un po’ di tristezza perché i conti non tornano mai, ma immediatamente vi dico a vostro conforto: guai se tornassero. Se qualcuno di noi, in questo momento, ha la presunzione (perché è tale) di dire: “Ho cominciato l’Avvento l’anno scorso e adesso lo chiudo tra stasera e domani mattina e penso d’aver realizzato quello che avevo in mente”, è un illuso. Allora vi chiederete: ma siamo condannati dunque a non realizzare mai ciò che abbiamo in mente? Ecco allora “Vieni, Signore Gesù” che è il tema degli ultimi giorni dell’anno che si chiude, ma anche il tema dell’Avvento perché è la preghiera che ci viene dalle primissime comunità cristiane, da quelle del I secolo, dove ci sono ancora gli apostoli, persone che hanno visto il Signore e che invocano il suo ritorno. Se invochiamo un ritorno, evidentemente c’è qualcosa che non va: aspettiamo una pienezza, aspettiamo una realizzazione che nella storia non si può realizzare appieno. Ecco, questa è la prima consolazione. Di qui dunque “Grammatica dei desideri”, cioè come se in questo incontro - sia pure sempre in una maniera un po’ evocativa, come sa essere il mio linguaggio e il mio ordito di pensiero - a partire da questa distanza, tra ciò che dovremmo essere e ciò che siamo, tra ciò che siamo chiamati ad essere e ciò che concretamente riusciamo a realizzare, insieme potessimo guardare il desiderio e il desiderare, cercandovi una “grammatica essenziale”. Si dice “grammatica” per intendere i rudimenti, i fondamenti della lingua. Le suore dell’Episcopio un po’ hanno sorriso – perché qui c’è anche la tipografia ovviamente, che fanno sempre loro – quando piegavano i foglietti. “C’è anche la grammatica, questa sera” perché ogni tanto il Vescovo fa anche i rilievi per aiutarle a entrare appieno - sono già bravissime, eh? – nella lingua italiana. Ma mentre noi riusciamo a prendere gli elementi essenziali di una lingua, è difficile che impariamo quella lingua comune a tutte le lingue che è la lingua umana. Cosa significa “lingua umana”? Significa capire io chi sono e capire come si snodano certi eventi, certi episodi, certe stagioni della mia vita, essendo io nella possibilità di leggere questi eventi in una maniera chiara: ecco la grammatica. C’è una grammatica dei desideri? Oggi ce n’è particolarmente bisogno, perché vi rendete conto che le persone non desiderano più: si parla di calo dei desideri, non vi scandalizzate (d’altra parte siete abituati a queste sortite del vostro Vescovo tutti gli anni), anche sul piano sessuale. Come mai?, cos’è successo?, che sta succedendo?, è colpa delle donne?, è colpa degli uomini?, c’è qualche virus che è entrato nel DNA? Come mai anche questo interessamento, che faceva venire il torcicollo a Dante, come a tutti quelli del suo tempo in chiesa, a girarsi per vedere e guardare Beatrice sembra appiattito? Sapete, si parla di libidogramma piatto. Qui sono ovviamente termini che ci vengono da studiosi (sono sempre un po’ gonfiati), ma esprimono una verità e la verità è che non sappiamo più desiderare: non si desidera più niente - e questo già un’altra volta in altro ambito ve lo dicevo - perché lo spazio tra l’emissione del desiderio e la realizzazione del desiderio si fa sempre più breve. “Voglio il diamante per Natale”? “Eccolo!” - dice il marito (voi starete pensando: “Magari”), a dire che lo scrivere la lettera a Gesù Bambino, per ricordare cose della nostra infanzia, e sentire il balocco che scende nel camino è tutt’uno. Questa riduzione dello spazio porta ad un’assenza di desiderio e di forza di desideri. Già la questione ve la starete ponendo prima ancora che io la enunci: “Attento, Eccellenza! Lei sta confondendo ‘desideri’ conbisogni’”. Effettivamente sono i bisogni che stanno uccidendo i desideri, non che i bisogni siano da cancellare. Noi siamo una fascia di bisogni sul piano fisico, psichico, ma questo “supermercato dei bisogni”, sta uccidendo questa forza dell’uomo che è sempre stata la forza del desiderio e del desiderare. Perché i sogni uccidono a volte il desiderio? Perché l’immediata soddisfazione crea un’opulenza, per così dire, psico-fisica che non stimola l’azione desiderante della mente, del cuore, quasi come una sorta di ottundimento a causa di questa orgia dei bisogni. Come sempre voi siete abituati alle mie citazioni poco ortodosse: Pierpaolo Pasolini, che non era un santo e non era certamente un padre della Chiesa (ma come tutte le persone pensanti noi dobbiamo accogliere gli avvertimenti da qualsiasi parte ci vengano), in uno degli ultimi articoli, prima della morte tragica, come ricorderete, scrisse su “Il Corriere della Sera” un articolo con questo tema “Il penitenziario dei consumi”. Questo fatto che c’è il supermercato (adesso c’è la città-mercato come simbolo) sembra che tutto sia facile, accessibile, fruibile, comprabile: in effetti, diceva già allora in tempi non sospetti (Pasolini non è di oggi, neanche di ieri), è una forma di “penitenziario”, cioè a noi sembra di star bene, di andare in vacanza, di fare le file interminabili per accedere alla visione di un film, ma in realtà tutto questo è circondato da un muro altissimo che ci tiene prigionieri. Desumiamo questa immagine, che viene da una letteratura non proprio vicina alla nostra, per dire che il desiderio è “il tentativo di fuga dal penitenziario dei consumi”: qualcuno di noi riuscirà a rendersi conto che questo carnevale in atto, d’altra parte già finito (come sapete negli ultimi mesi le notizie sono allarmanti) è un’illusione e che quindi forse per la felicità è il caso che io scavalchi questo muro altissimo del penitenziario, tentando una fuga per riaccedere al desiderio. Chiudo questa parte con questa definizione: l’oggetto del desiderio non c’è (sempre in una maniera un po’ paradossale). Non stiamo parlando di “voglio la pelliccia di visone”, “voglio il diamante”, “voglio il brillante”, “voglio la doppia casa”, ma di un desiderio di bene, di bellezza, di armonia, di una relazione pienamente soddisfacente (tantissimi di voi sono marito e moglie). Ebbene l’oggetto del desiderio non esiste, perché se ci fosse, se fosse fruibile, se fosse immediatamente afferrabile, sarebbe un bisogno e non un desiderio. Sembra una frase che ci condanna, ma attenti, in questa definizione (l’oggetto del desiderio non è possibile) c’è in realtà una via di liberazione dal “penitenziario dei bisogni”: significa che io sarò in tensione continuamente,  che nessuno di noi può essere soddisfatto, significa che stiamo riuniti qui, nel salone dell’Episcopio, non per un salotto settecentesco, come i suoni ma anche l’ambiente (perché questo salone è settecentesco) farebbero intendere; non siamo persone che si baloccano tra ventagli, brillanti, nei e cicisbei, ma questa nostra assemblea è un gruppo di sovversivi, nel senso più bello del termine (mi avvince sempre questa immagine), che vuole evadere dal “penitenziario dei bisogni” e ha chiesto l’ausilio di due artisti: aiutateci a volare e a salire oltre questo muro che non vediamo ma che c’è, che ci chiude in questa pseudo-libertà, in questa facilità di raccogliere soddisfazioni, svilendo la nostra facoltà più profonda d’esser felici che è legata al desiderio. “Vieni, Signore Gesù” è il desiderio che il Signore torni, come desiderio di vita piena: è un’invocazione che si radica nella migliore attesa antropologica. In effetti, facendo questo piccolo giro (a voi è sembrato d’essere un po’ strapazzati, tirati di qua e di là), semplicemente ho voluto attestarvi come “Vieni, Signore Gesù” si poggia su un impianto dell’uomo, quindi antropologico, profondissimo, perché è il desiderio di ciò che non puoi avere subito: sono duemila anni che siamo in tensione verso questa venuta; sono duemila anni che si attende che il Signore venga a restaurare l’umanità nel suo splendore. Il fatto che non sia venuto ancora significa che l’umanità, e quindi la Chiesa, deve ancora esercitarsi sulla “tastiera del desiderio”, perché non è ancora forte, perché i bisogni di cui noi ci riempiamo allentano questa grande tensione. Capite che tensione e sofferenza sono un tutt’uno. Chiudo facendo riferimento al clavicembalo: come tutti gli strumenti a corda si basa sulla vibrazione di una corda in tensione. Se le corde del clavicembalo, che Maria Teresa sta suonando, fossero flaccide, non avremmo nessun suono e non certamente un suono artistico: è la tensione. Forse prima l’avrete vista anche mentre girava, tendendo ulteriormente le corde, in modo tale che nella sofferenza potesse venir fuori questo suono: è un esempio plastico di cosa significhi che il desiderio è questa lacerazione continua cui ci dobbiamo sottoporre per uscire da questo penitenziario. Buona libertà.

 

Andreozzi Gaetano (1755-1826)

La Vergine del sole: Largo, Allegro 

 

Adesso che ci siamo un po’ riscaldati le mani, si dice così in termini musicali per i concertisti, e noi spero un po’ riscaldato i muscoli mentali e quelli del cuore, entriamo nel vivo di questa “Grammatica dei desideri”, lavorando intorno al concetto che il desiderio è sempre desiderio dell’altro, dell’alterità, desiderio del nuovo, del diverso da me. Ovviamente, come sempre, vi sembra che io dica delle cose del tutto scontate e per certi aspetti è così, ma per altre sono queste cose scontate quanto mai disattese. “Non è bene che l’uomo sia solo”. È scritto nelle primissime pagine della Bibbia, a indicare non solo il desiderio dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo, ma per dare il comune denominatore di ogni desiderio: il desiderio è sempre un ponte verso un tempo nuovo, una persona, un’alterità, verso il totalmente altro che è Dio. Quando nell’intervento precedente ho parlato di libidogramma piatto, c’è da aggiungere anche che oggi c’è una paura del nuovo e una paura dell’altro, dell’alterità. Voi siete venuti stasera qui con quali sentimenti? “Andiamoci a riposare in Episcopio - speriamo non a dormire! - Il Vescovo ci offre questa pausa di contemplazione musicale e di riflessione”. Ma io immagino, e dovete scavarla questa paura, che ci sia stata in voi anche una sorta di paura a venir qui. Paura perché? Forse che non ci siamo trovati bene altre volte? Sì, ma ogniqualvolta usciamo di casa, usciamo con una certa apprensione (Fabio è stato due ore sulla tangenziale temendo di non arrivare in tempo). Non mi riferisco solo alle difficoltà che si frappongono all’atto in cui noi usciamo di casa, ma mi riferisco al fatto che possiamo sentire una cosa che ci destabilizza, che ci mette in crisi, che ci rivela a noi stessi, che ci può far dire: “Ma allora non è colpa dell’altro se il mio matrimonio non va bene”. Quando le cose non vanno bene nel Matrimonio, in parrocchia, a scuola, nel lavoro, diciamo sempre che la colpa è degli altri. Allora venire a un incontro - qualsiasi incontro, non solo questo - incontrare un’altra persona significa sempre metterci un po’ in crisi: “Quello che ho pensato fino adesso lo penserò anche dopo, quando sarò uscito da questa sala?”. Questa paura della novità è un deterrente terribile per l’arte del desiderare, cioè noi abbiamo paura del nuovo, abbiamo paura che qualcuno ci dica: “Non va bene la tua vita”. Abbiamo paura di chi possa destabilizzarci: per questo motivo noi siamo, fondamentalmente e strutturalmente, uomini tradizionalisti, nel senso deteriore del termine, cioè non amiamo gli sconvolgimenti, non amiamo i cambiamenti. Il cambiamento ci mette in ansia, questo lo vivono in particolare gli anziani in quelle loro manie di mettere le cose sempre allo stesso posto: guai se gliele sposti!, guai se ne metti una davanti all’altra e non rispetti quell’ordine! Man mano che si va avanti nella vita c’è questa paura del disordine rispetto all’“ordine-secondo-me”. Ma l’ordine secondo me è anche l’ordine in sé, è anche l’ordine secondo l’altro? Questa tensione, questa paura dell’altro è anche alla base di questo calo del desiderare. Perché la paura dell’altro non mi fa desiderare? Faccio alcuni esempi, il primo di natura psicologica. Sapete che il narcisismo, da quando Freud ed altri hanno messo in luce questa malattia, è diventato sempre più imperante, una malattia molto diffusa: il narcisista vede sé e le immagini di sé riflesse negli altri. Non aspetta che l’altro parli: se incontra un altro è solo perché l’altro gli dica: “Bravo! Ottimo! Sei bellissima! Sei vestita meravigliosamente!”, che gli altri ci facciano dei complimenti. A volte gli altri sono la platea delle nostre esibizioni. Ecco, spesso noi e altri insieme con noi, vivono questo problema d’essere centrati su di sé, perché all’atto in cui io dovessi scoprire che c’è un altro diverso, la mia integrità, la mia bellezza, il mio essere al top viene a cadere e dunque abbiamo paura dell’altro. Il narcisismo, come malattia psicologica, è questa negazione dell’altro e autoaffermazione di sé, comunque e al di sopra di tutti. Un’altra riflessione, diciamo da un altro ambito, porta alla stessa meta e mi riferisco ai nazionalismi: certamente appartenevano forse  all’Ottocento, ma vedete che tornano con altri nomi, con nuove forme. Cos’è il nazionalismo se non la negazione dell’altro?, per esempio dell’altro che viene da paesi extracomunitari?, dell’altro diverso da me?, dell’altro che non crede come me? Ci dobbiamo anche interrogare come Chiesa se siamo sufficientemente accoglienti. “Accoglienti” non significa che accettiamo il supermercato delle fedi (saremmo di nuovo nell’errore), ma “accoglienti” nel senso che riteniamo di avere, non per nostro merito, un dono e lo vogliamo in qualche maniera condividere. Allora la paura dell’altro genera l’assolutizzazione di quello che penso io, di quello che pensiamo noi e finiamo col ripetere l’identico. La ripetizione dell’identico è la monotonia. A differenza di tutti questi suoni sempre vari, è come se noi avessimo qui sempre lo stesso accordo, sempre la stessa nota: immediatamente voi iniziereste a sbuffare (“Ma che musica è questa?”). È la varietà che genera l’armonia e com’è che questo poi noi non lo mutuiamo sul piano del dialogo, sul piano di una interculturalità, come oggi si ama dire, e non riusciamo a viverlo? Vi sembra che io adesso vi abbia portato altrove, ma il tema è lo stesso e cioè il desiderio è apertura all’altro e l’altro lo troverò sempre diverso da me. Terzo esempio: anche questa cultura del “single”, che oggi diventa sempre più alla moda, è un’attestazione della paura dell’altro. Vedete c’è una paura anche nel Matrimonio, c’è una paura nella relazione con un uomo, con una donna. C’è la paura dell’intimità, c’è la paura di esporsi: sarebbe meglio vivere da soli, in fondo la cultura del single dice: “Il matrimonio ormai è vietato ai minori di 80 anni: quindi fino a ottant’anni lasciatemi libero, poi si vedrà”. Ma anche qui abbiamo la paura dell’altro e quindi la caduta del desiderio. Infine, mi sembra di cogliere nella nostra cultura (i cartelloni pubblicitari ve lo dicono, ve lo raccontano, ve lo indottrinano) questa omosessualità strisciante, dove per me va bene “l’identico a me”. E dov’è il desiderio? Vedete, ho fatto vari esempi per dirvi come in questo “penitenziario dei consumi” stiamo uccidendo il desiderio, perché la paura dell’altro, del nuovo, dell’alterità ci frena a tal punto da dire: bastiamo noi, basta che ci siamo noi e quindi vedete gruppi dove è difficile entrare (anche nelle parrocchie), piccoli clan, piccoli salotti dove bisogna fare le prove di Ercole per essere ammessi, bisogna fare tutti i riti di iniziazione altrimenti “non sei dei nostri”, “non fai parte del Rotary oppure dei Lions”, per dire due “club in” (chiedo scusa se ci sono qui esponenti di questa…): è una sorta di tendenza a chiuderci precludendoci l’altro come ricchezza e uccidendo il desiderio.

“Vieni, Signore Gesù” - torno al tema e chiudo questo secondo intervento -  è questa forza esplosiva che è nel cuore della nostra fede, dove invochiamo una venuta che stravolge tutte le nostre impalcature - non vi scandalizzate - alla fine probabilmente anche quelle teologiche, perché anche quelle sono impalcature perché sono mentali: ovviamente bisogna studiare Teologia, bisogna argomentare - io stesso lo faccio - il tema della fede. L’impalcatura deve aiutarti a costruire e ad aprirti al Mistero. Bene, il Signore viene e viene a rimetterti per la strada, viene a rimetterti in cammino, a dire: “Sei un fallito? Bravissimo!”. Spero che almeno questo passi stasera. È andata male quest’anno? Ottimo! Sei promossa! Se tu avessi detto che è andato tutto bene, saresti stata bocciata. È andata male? E sai perché è andata male? Perché c’è bisogno d’altro: apriamo le finestre, incontriamo, gettiamo ponti, perché il desiderio è fondamentalmente desiderio dell’altro, di altro, del nuovo, della novità assoluta che è Dio.  

 

Handel Georg Friedrich (1685-1759)

Sonata in Do Maggiore op.1 N°7: Laghetto, Allegro, Laghetto, Gavotta, Allegro    

 

Ovviamente la parte concertistica del nostro incontro non è un intrattenimento ma è una continuazione del discorso. In fondo, mentre Fabio e Maria Teresa modulavano, noi abbiamo continuato da un lato a ruminare questo “carosello” di idee, di sollecitazioni, dall’altra, anche dalla musica stessa ci vengono degli apporti, dei colori, delle immagini, dei paesaggi. La musica è così: è descrittiva, rievoca dei luoghi, delle sensazioni, dei sentimenti e noi, come ho detto l’altra volta, entriamo in sintonia con Handel e poi in sintonia con loro due che stanno suonando Handel e con tutti quelli che hanno eseguito questo spartito: si crea comunque un dialogo a più voci. Quindi non è solo il Vescovo che parla, ma abbiamo ascoltato cosa pensasse Handel del desiderare e come, attraverso questo spartito, è entrato nell’alterità, ha invocato l’alterità. Nessuno scrive musica per sé, per diletto (“Ho scritto questa cosa, ma non la faccio sentire a nessuno”). Anche quelli le cui opere sono state ritrovate ed eseguite post mortem, in qualche maniera gettavano un messaggio in una bottiglia e qualcuno l’ha raccolto: penso a  Bach in questo momento dopo un secolo e più di dimenticanza. I desideri non annullano i bisogni: i bisogni costituiscono una sorta di motore anche dei desideri, ma il desiderio si pone ad un’altitudine del bisogno, dove il bisogno da solo non arriverebbe. Pensiamo adesso per un attimo al bisogno primario del mangiare che è un bisogno fisiologico, fisico perché dobbiamo assumere delle proteine che si trasformano in energia, e poi in sangue. Bene, questo è un bisogno, ma noi desideriamo mangiare con altri. Adesso la butto lì, tanto per farvi sorridere (tanto è impossibile): “Vorrei invitare il Vescovo a cena”. È un bel desiderio. “Ho pensato di invitare il Vescovo a cena”. Dico è impossibile, faccio questo esempio, perché è quello di terzo tipo, come ci insegnavano per il latino. Perché comunque è un bel desiderio? Perché vorrei che questo momento di assunzione del cibo, diventasse convivialità e poiché ho sentito che tirava fuori dal cappello, dal cilindro tutte queste cose strane, magari a tavola se ne potrebbe riparlare in una maniera un po’ distesa e fare anche un dibattito, cosa che ovviamente qui non può accadere per il “genere letterario” del nostro stare insieme. Se noi ci guardiamo, mangiamo lo stesso cibo e diciamo: “È buono” e facciamo i complimenti alla cuoca e poi progettiamo, e poi ricordiamo, e poi ci confortiamo, e iniziamo un po’ freddini certe mense e concludiamo sempre con grande rumorosità, è segno, è sacramento di un bisogno che è diventato desiderio di comunione. Quindi come vedete il desiderio non uccide il bisogno, lo esalta; se poi questa convivialità diventa Eucaristica, allora niente meno che ho invitato a cena Gesù, mangio con Lui e Lui mi dice la Parola ed io controbatto. Questa è l’Eucaristia che è un grande desiderio che Dio stesso ci ha messo nel cuore attraverso le parole di Gesù: “Fate questo in memoria di me”. Quindi il rapporto “bisogno-desiderio” è che il bisogno può essere una forza propulsiva per innalzare il desiderio, ma il desiderio rimane sempre inappagato: è l’ultimo concetto che vi affido. Dico “concetto” non perché stiamo a scuola, ma per dire un punto per la mia riflessione, per la mia preghiera stasera o nei giorni prossimi ed è questa espressione che vedete qui di Lèvinas, un grande antropologo, che afferma (anche qui non credente, ma noi in questa convivialità delle differenze accettiamo qualsiasi paternità): “Il desiderio non aspira al ritorno di ciò che abbiamo già sperimentato, ma è tensione verso un paese in cui non siamo mai stati”. Quando noi desideriamo tornare bambini, per entrare un po’ anche nell’atmosfera di Natale - ma sul Natale abbiamo l’incontro specifico proprio al ridosso del venticinque - noi desideriamo tornare come eravamo? Quando noi ricordiamo l’infanzia, abbiamo una memoria fotografica o una memoria del cuore? E la memoria del cuore è fotografica? No. Quando diciamo “Vorrei tornare bambino, vorrei rivivere un Natale come l’ho vissuto a dieci anni, a cinque anni…” tu desideri riassaggiare una cosa che hai già sperimentato? No, perché se andate a fondo, se voi passate al setaccio, con attenzione, quelli che sono i ricordi dell’infanzia, vi rendete conto che il ricordo dell’infanzia non è l’infanzia, non è quello che abbiamo vissuto, perché magari siamo stati anche infelici, tristissimi, tanti di noi, credo, in precarietà economica disastrosa, allarmante, avevamo il desiderio di diventar grandi. Adesso dite “vorrei tornare bambino” ma quando tu vuoi tornare bambino, non vuoi tornare quel bambino che eri, vuoi diventare un bambino che sarai. L’infanzia non è alle nostre spalle, l’infanzia è avanti a noi e questo vale per ogni desiderio, per cui il rapporto desiderio-nostalgia va tematizzato. La nostalgia è un’altra cosa: la nostalgia è dolore, la voglia di tornare in un posto in cui sono stato, o di rivivere una situazione che ho vissuto. Non so, quelli fra voi che sono sposati, immagino, spesso si dicono: “Com’era bello quando stavamo in viaggio di nozze”, “Com’era bello quando eravamo fidanzati”, “Com’era bello quando aspettavamo il primo figlio”.  Questa è nostalgia. Il desiderio è più della nostalgia, perché la nostalgia ti porta indietro, il desiderio ti proietta avanti. Allora verissima, e possiamo sottoscriverla, anche nei termini della fede, questa espressione di Lévinas che dice che “Il desiderio non aspira al ritorno di ciò che abbiamo sperimentato, ma è tensione verso un paese in cui non siamo mai stati”. Si può desiderare una cosa che io non ho mai avuto? Adesso ho incrociato gli occhi di Anna Maria e allora Anna Maria dice, come qualche altra fra voi che è vedova: “Vorrei che tornasse mio marito”. Questo desiderio è la nostalgia del marito con cui siamo stati in comunione, che adesso è defunto, o è desiderio di stare con lui in una nuova dimensione? Perché poi alla fine, se facciamo i conti, se ricordiamo bene, quando ci siamo stati, c’erano anche delle difficoltà, c’erano anche dei problemi, c’erano anche delle incomprensioni (questo vale per tutti). Per cui capite: altra è la nostalgia, altro è il desiderio. La nostalgia sembra imprigionarti nel passato, il desiderio ti spalanca le porte verso un nuovo modo d’essere con Lui, col marito e con la moglie defunti, con quell’amico che non c’è più, con quella persona che è lontana. “Vorrei tornare…”. No, tu vuoi entrare con lui in una nuova dimensione che ancora non sai. Questa è la speranza cristiana, cioè tensione verso un luogo che non c’è ancora, verso una comunione che non abbiamo ancora sperimentato. È bello per voi che siete sposati e che a volte sentite anche il peso, segnate il passo, perché non tutte le sere sono belle, perché non sempre ci si intende, dire: “Guardiamo avanti: noi saremo insieme veramente là”. Dove là? In seguito, in questo paese dove non siamo mai stati. È bello che il desiderio sia questo voler abitare il nuovo, l’inedito e questo si chiama “vita eterna”, questo si chiama “Paradiso”, questo si chiama “speranza cristiana”, questo si chiama “Cristo tutto in tutti”, come ci ricordava la Seconda Lettura di Cristo Re domenica scorsa, questo significa “Natale”, questo significa “Pasqua”. Vedete come adesso tutte le parole della fede trovano consistenza e armonia in questa voglia-desiderio di un paese di sole. Concludo così. Prima abbiamo ascoltato “La Vergine del Sole” e io sono andato con “Il paese del sole” che non è Napoli, ma la canzone ottocentesca. Un paese di sole, non il mio paese natale, ma il paese dove sarò veramente io, dove noi saremo finalmente noi.   

 

Pergolesi Giovanni Battista (1710-1736)

Siciliano   

***

 

Seconda parte

 

Ascolteremo tre brani in questa parte molto più breve (ne abbiamo aggiunto uno tra i due, poi ve lo annuncerò). Avete letto l’espressione di Gesù che viene dall’Antico Testamento: “Non di solo pane vive l’uomo” che è appunto un’apertura sui desideri rispetto ai bisogni. Brevemente vi racconto questo episodio, che alcuni di voi già conoscono, della vita di Rilke questo poeta, che nella sua biografia si dice passava spesso per una via e lì c’era una povera donna che chiedeva l’elemosina. Il poeta, generoso, lasciava una moneta. E così un giorno, due, tre, quattro… insomma era diventato un habitué. La donna sapeva che questo signore, con il cappello e il cappotto elegante, le avrebbe dato un obolo. Un giorno il poeta lasciò nelle mani della donna una rosa (non provate a farlo, non avreste la stessa reazione). La donna si illuminò e andò a ringraziare il poeta e diceva agli altri: “Finalmente mi ha vista!”. La donna cui tu dai l’elemosina è un oggetto, è una statua e non si stabilisce nessuna relazione. Ma se tu porti una rosa a una donna, sia pur povera, questa donna si sente guardata. È bellissimo questo episodio perché fa capire bene lo spartiacque tra il bisogno (certamente questa donna aveva bisogno), la relazione e il desiderio. Il desiderio è desiderio dell’alterità: all’atto in cui il poeta consegna una rosa a questa donna poverissima, privandola dell’obolo di cui forse aveva bisogno, desta in lei la gioia di essere riconosciuta come persona.

 

Bach Johann Sebastian (1685-1750)

Sonata IV in Do Maggiore: Andante, presto, Allegro, Adagio, Minuetto

 

Prendo spunto dalla conformazione del flauto, come di ogni strumento a fiato, per questa penultima riflessione sul desiderio. Il flauto è cavo, è vuoto e poi pensavo anche all’acustica. Penso che abbiate colto anche l’acustica di questo salone, dovuta non solo alle dimensioni, ma anche agli spazi vuoti. Oggi nelle nuove sale da concerto si cercano tante leggi dell’acustica per rendere al meglio. Nell’antichità queste cose erano avvertite dagli architetti, quasi per un senso innato, senza la scienza, perché si sentisse il suono puro. Quindi abbiamo due vuoti (dovremmo aggiungerne anche un terzo): il vuoto dello strumento cavo attraverso cui passa il soffio, il fiato del flautista (gli strumenti a fiato sono un’immagine anche sacramentale dello Spirito Santo, che entra nelle persone e genera melodie), il vuoto che lo accoglie e il terzo vuoto è il nostro ascolto. Questi tre vuoti non sono a perdere, non sono negativi, ma sono positivi: guai se non ci fossero. Se non ci fossero, non ci sarebbe possibilità di suono. Che cosa scava lo strumento? Ovviamente il dolore. Pensate in particolare al flauto in legno, dove l’artigiano scava e questo scavo è doloroso, si toglie legno perché il fiato, l’aria, il soffio, lo Spirito possa passare. Questa è l’azione del desiderio, secondo la definizione di Sant’Agostino, che trovate qui sul vostro foglietto: “Con il desiderio Dio scava le anime e le rende più capaci di ricevere”. “Con il desiderio”, non con la realizzazione. Quindi attenti che se entriamo in questa dimensione, forse, le grazie più grandi sono quelle che non abbiamo avuto: non quelle avute che si concludono con l’ex voto “per grazia ricevuta”. “Per grazia non ricevuta”, perché il non ricevere la grazia ci pone in una tensione e in uno scavo ulteriore che rende possibile il suono. La sazietà non genera nulla, l’abbondanza nel senso del ricco epulone, non attiva nessuno strumento. È il dolore, è lo scavo, è il vuoto, è il desiderio inappagato che scava e – dice Agostino – rende l’uomo più capace, cioè questo scavo è finalizzato a un ricevere e capite che qui non è ricevere un dono o una grazia chiesta a lungo, ma ricevere Dio stesso: questo è l’apice del desiderio, cioè il desiderio è bene come se fosse bene in se stesso. Uno dei titoli di questi libri, che parlano del calo del desiderio, ha come titolo: desiderare il desiderio, cioè tornare a desiderare perché non si desidera più nulla e non si sogna e quindi non si cerca e non ci si mette in cammino; ma desiderare il desiderio può essere anche presa come espressione in positivo, cioè tornare a desiderare il desiderio. Nel testo dell’Ultima Cena quando Gesù dice: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi” la traduzione della vulgata, cioè nella traduzione latina dal greco, dice: “Desiderio desideravi”. Ho desiderato questo desiderio, cioè questo che si sta realizzando l’ho desiderato. “Desiderium desideravi” è questo desiderare il desiderio, cioè desidero desiderare. Vi sembra un gioco di parole, ma credo che ci comprendiamo in questa rivalutazione del desiderio come la nostra grande forza che, dice Agostino, realizza anche uno scavo, ti rende più umano. Questo dolore, questo rimando dell’incontro – questo vale anche per quelli fra voi che sono sposati – “poi ci capiremo meglio domani, tra dieci anni, nell’eternità” è non un sottrarre la preda a chi sta per prenderla, una sorta di condanna, ma è una via educativa. Allora ascoltando questo brano, ora ringraziamo il Signore per tutte le volte in cui non ci ha esauditi e quindi ci siamo lamentati, abbiamo protestato e stasera scopriamo che forse le uniche grazie sono quelle non ancora ricevute.

 

Reverberi

Andante veneziano 

 

Cogliamo anche questa sospensione del brano che finisce come un bel messaggio. Vorrei concludere il nostro incontro stasera, leggendo con voi questo quadro, brevemente.

 

Questo è un quadro di Pasquale Cipolletta, un pittore della Penisola Sorrentina, un originale. Tra l’altro normalmente io espongo sempre delle copie e dei falsi, ma questo è un originale che mi è stato donato. È un quadro che probabilmente nessuno avrebbe comprato perché c’è questa bitta, si chiama così, questo paletto di ferro con la ruggine che è al porto, dove attraccano le barche, che occupa la scena in una maniera oscena, per cui uno dice: “Ma io vorrei un panorama”. Quindi noi avremmo cercato un’altra inquadratura, magari la bitta l’avremmo messa giù, solo per creare profondità e invece l’artista ha voluto proprio dipingere la bitta, cioè quest’oggetto di attracco, tra l’altro con tutte le sfumature di ruggine, di colorazioni varie dovute alla salsedine. Quindi è un invito all’approdo, ma questo invito è espresso in due maniere: all’approdo o alla partenza, perché per ogni viaggio – dice il cantautore che conoscete – c’è sempre un viaggio da ricominciare. Ci sono questi due linguaggi che a me affascinano della gomena vecchia, sdrucita, giù, che dice di tante difficoltà di navigazione, dice anche stanchezza in qualche maniera, ma alla fine dice abbraccio. Io leggo così e vi trasmetto queste sensazioni che questo quadro mi dà. Dall’altra c’è la fune nuova, sintetica che dice del giovane. Se ci fate caso, quella dell’anziano è abbandonata e avviluppata in una maniera molto dolce, come in un abbraccio, quella del giovane è tesa come chi voglia dare uno strappo: abbiamo anche due generazioni o due stagioni della vita rispetto all’approdo e rispetto alla partenza, dove c’è chi ha fretta d’andar via (la fune sintetica) e c’è chi invece dice “lasciatemi così come una cosa posata e dimenticata”, dice il poeta Ungaretti, nella poesia “Natale”; chi ha fretta, urgenza, smania di partire e di chi invece di partenze ne ha fatte tante e vuole per un attimo riposare. Sono anche due linguaggi rispetto a un punto fisso che deve starci, altrimenti non approdiamo a niente nella vita: è un principio, un valore, o se volete, se non vi sembra blasfemo che una bitta possa esprimere anche questo, Dio stesso. Allora se la bitta è Dio, c’è chi morde il freno ed è il figlio prodigo che vuole sperimentare e dice: “No, forse Dio non è così buono come da intendersi” e c’è il figlio che è tornato, dopo tante delusioni, e che si avviluppa intorno al padre dicendo: “Lasciatemi qui, perché questa è la felicità”. Ecco, io voglio concludere così stasera, chiedendovi, chiedendomi: quale delle due condizioni rispecchia meglio la mia vita in questo momento? Del giovane esasperato (adesso non è importante l’età cronologica) che vuole partire e ha fretta di prendere il largo, o di chi è un po’ stanco e si aggrappa a Dio, dicendo con Agostino “Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”? La fune vecchia è come se dicesse: “Non voglio più partire: ho trovato”. La fune giovane dice: “Lasciatemi cercare, c’è ancora un mare aperto da solcare”. Ovviamente non do letture positive e negative, perché nell’uno e nell’altro atteggiamento c’è un bene, ma certamente auguro a tutti voi stasera di trovarlo un approdo dove agganciarvi. L’importante, soprattutto al sopravvenire dell’inverno, al sopravvenire della tempesta, è avere - si dice in termini tecnici - dove attraccare la mia vita. Certamente è un attracco anche il Matrimonio, è un attracco, per Maria Teresa, Nunzio con cui ha suonato nell’ultimo incontro. Abbiamo bisogno di questi attracchi, ma cerchiamo un approdo a cui aggrapparci in una maniera “dolcemente disperata”, ma anche da cui saper partire, in modo tale che, questo attracco, sia desiderato di più (“Desiderio desideravi”). Se l’incontro di stasera può lasciarvi qualcosa, è la voglia di scavare e di lasciarci scavare ancora. Non è finita qui la nostra avventura: c’è ancora molto da scavare e allora lasciamo che il desiderio operi questo, in modo tale che al prossimo attracco siamo più pronti, più decisi ad abbarbicarci alla bitta dicendo: “Non ti lascerò: ti ho trovato”. Agostino stesso dice che chi ha trovato Dio deve continuare a cercarlo perché qui non c’è definitività, non c’è approdo pieno. I nostri defunti, quelli che abbiamo ricordato nell’incontro precedente del 31 ottobre, invece sono pienamente rappresentati dalla fune sfilacciata, ma serenamente aggrappata a Dio: noi siamo ancora quelli che tirano pensando che possa essere preferibile il mare aperto. Vi tenete per mano in silenzio e diciamo insieme:

Padre nostro…

Benedizione del Vescovo

 

Bach Johann Sebastian (1685-1750)

dalla Suite in Si minore: Minuetto, Badinerie

 

Grazie a tutti. Mi va di affidarvi anche questo ricordo. Questa sera è importante nella mia storia perché tre anni fa io cominciai a mettermi in cammino a piccoli passi verso l’episcopato, perché Monsignor Cece, questa sera del 28 Novembre, mi chiamò e mi disse: “Io ho pensato... Io ho iniziato questo iter” e quindi è come se allora io mi fossi messo mentalmente e nel cuore in cammino, non sapevo verso dove, ma poi ho scoperto che la bitta stava qui. Buona serata.       

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.