“In punta di piedi in Episcopio”

 

Meditazioni di

 

S.E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

 

Teano, 31 Ottobre 2008

 

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Serenate d’altri tempi

 

 

Raffaele Calace (1863-1934)

 

  1. Serenata malinconica Op. 120
  2. VI Mazurka Op.141
  3. Soirée de printempsNocturne Op. 53
  4. Tarantella Op. 18
  5. Rondò Op. 127
  6. Romanza S.P. Op. 134
  7. Bolero Op. 26

 

Enrico Marucelli (1877-1907)

 

  1. Valtzer Fantastico

 

Carlo Munier (1859-1911)

 

  1. Capriccio Spagnolo Op. 276

 

 

Duo Mandolino – Pianoforte

“Ensemble Estense”

Mandolino: Roberto Palumbo

Pianoforte: Nunzio Salierno

 

***

 

Gli ingredienti della nostra serata, come sempre, mettono insieme arte ed arte, cioè l’arte musicale con il duo - questa sera seguiremo lo schema, tranne una variazione che vi indicherò alla fine - e percorsi vocali. Non si tratterà di vocalizzi, ma, come sapete, di riflessioni intessute intorno ad un tema; quindi è il modo migliore, già ormai sperimentato da anni, qui e altrove, di distendere, di creare un momento distensivo, contemplativo, ma anche di riflessione un po’ più approfondita, che la fretta normalmente ci impedisce di realizzare e di operare.

Iniziamo facendoci un Segno di Croce perché staremo in silenzio tutto il tempo e perché questa è una preghiera.

 

Nel nome del Padre…

 

Serenata malinconica Op.120 (Raffaele Calace)

 

Qualcuno, scherzando (ma mi ha sollecitato in questa maniera), vedendo che questa serata coincideva con il 31 Ottobre, ha pensato che il Vescovo volesse fare una festa alternativa, una Halloween ribattezzata e allora proprio a partire da questa battuta mi sono inoltrato per il percorso che vi suggerisco, innanzi tutto perché credo che dobbiamo fare pace anche con la festa di Halloween. Qualcuno, anche da parte del mondo cattolico, ha lanciato strali recentemente e negli anni scorsi, dicendo: è una festa pagana, c’è una sorta di non rispetto della morte, degli eventi luttuosi… Questi cadaverini, questi scheletri che pendono dai negozi sembrano essere indulgenti verso una lettura un po’ comica della morte… Forse conviene fare un piccolo percorso storico, perché la storia aiuta a renderci conto da dove è uscita Halloween e se questa festa può avere o abbia vantato in passato delle radici cristiane. La risposta è: “Sì”. Quindi già, in qualche maniera, vi destabilizzo rispetto ad una possibile demonizzazione della festa di Halloween. Perché sì? Innanzi tutto facciamo un passo ancora previo, che riguarda la saggezza della Chiesa antica, di innestare le feste cristiane su feste pagane. Valga per tutte il Natale, come ho già spiegato in questa sala qualche anno fa, dove la festa del “sole vittorioso” viene sostituita con la nascita del Redentore. Quindi la Chiesa in questo è Maestra ed è Madre e ha saputo nella sua sapienza fare questi innesti. Forse dovremmo essere bravi anche oggi a farne, cioè a cercare anche nelle occasioni più pagane un innesto, una possibilità, un aggancio, una concordanza, un’allusione che ci permetta di introdurci, di inserirci con il nostro specifico, con la nostra fede. È accaduto così anche per la festa, diciamo “pagana”, che era all’origine della festa di Halloween che, così come ci giunge ora, viene già attraverso un battesimo avvenuto ai tempi di Carlo Magno, quindi un po’ indietro. In epoca carolingia, c’era una festa pagana che riguardava i defunti, per cui si pensava che nella sera, nella notte, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre i defunti tornassero nei luoghi dove avevano dimorato e quindi in qualche maniera potessero creare disordine, mettere le cose in un posto anziché in un altro, disorientare i viventi o lanciare dei messaggi. Questa era la festa pagana, quindi nell’archeologia della festa di tutti i Santi, prima di Halloween, c’è questa festa che probabilmente ha radici nell’Impero Romano, nella cultura pagana che era sottesa alla cultura imperiale. Allora Carlo Magno pensa - lui o i suoi saggi - di trasformare questa festa in una festa cristiana e nasce così la Solennità di tutti i Santi e la commemorazione dei defunti. Quindi c’era questa consuetudine, questa credenza che comunque manifestava una fede nell’eternità, e nel permanere di qualcosa dell’uomo, in epoca pagana, dove si inserisce la fede cristiana. Poi cosa è accaduto?, (vedete come a volte la storia è strana nei suoi movimenti) che questa festa fortemente cristiana, quindi i Santi e i defunti, a partire come regione dal Nord dell’Inghilterra, genera una festa nuovamente pagana. Quindi dal paganesimo siamo passati alla festa cristiana, dalla festa cristiana, per degenerazione in qualche maniera, nasce la festa di Halloween. Dunque, io adesso non sono bravo: ho chiesto anche la consulenza delle suore dell’Episcopio che sono di madrelingua. In inglese il termine Halloween è la crasi, la condensazione di alcuni termini, che originariamente significa: vigilia di tutti i Santi. Quindi festa pagana, festa cristiana, deriva (nuova deriva) a partire da un’impronta celtica, anglosassone della festa cristiana, in una solennità, in una festa dove entrano gli scheletri. Poi qui si inserisce anche il Romanticismo con la sua cultualità dei cimiteri, gli incontri in luoghi strani con la luna piena... Ovviamente a noi la festa di Halloween arriva dagli Stati Uniti e quindi è databile da noi con gli alleati, più o meno salutati, più o meno benefici, che, tra le tante cose, ci han portato, han riportato in Europa quello che dall’Europa era partito, quindi dall’Inghilterra. Come vedete, facendo questa piccola riflessione archeologica, forse c’entriamo anche noi e ci stiamo di casa anche nella festa di Halloween. Nulla rigettare: questo deve essere un principio di grande equilibrio che deve dirigere ogni riconversione culturale. Bisogna cercare di prendere il più possibile dagli ambiti più disparati per cercare una sintesi, per trovare un comune denominatore, per evidenziare un valore. Qui il valore – ed è quello di cui questa sera noi brevemente tratteremo, intercalati da questa riflessione musicale – è il tema della morte. Adesso se io ve l’avessi scritto sull’invito, probabilmente molti di voi avrebbero declinato la partecipazione; invece né nella visione macabra, né nella visione un po’ demitizzante e giocherellona di “scherzetto o dolcetto” troviamo un nostro pensiero cristiano e umano, umano e cristiano, nel guardare a questa realtà. Ovviamente non farò una riflessione filosofica, ma cercherò degli addentellati, anche esistenziali, perché abbiamo a prepararci alla solennità di domani e anche alla visita che faremo ai cimiteri: che non sia una semplice consuetudine, ma possa essere un reale riaggancio con persone che ci sono ancora, anche se non si vedono.

 

VI Mazurka Op.141 (Raffaele Calace)

 

La nostra Halloween ribattezzata ha, come avete potuto già avvertire, delle modulazioni molto partenopee e questo è anche bello: riscoprire questo patrimonio che sembra minore, ma minore non è, della musica napoletana, della produzione partenopea, dove il mandolino non è solo lo strumento delle serenate o delle canzoni popolari, ma anche strumento da concerto, con tutto l’onore che si deve a questo termine. C’è una parola che credo “porta” per affrontare l’evento della morte, di ciò che ci attende, del rapporto con i nostri defunti ed è la parola “limite”. Non possiamo formulare nessun pensiero intorno alla morte e ai morti senza familiarizzare con questa parola: limite. “Limite” nel senso che la morte segna, batte un solco che limita la vita qui. Un filosofo esistenzialista dice che l’uomo è essere per la morte e gli esistenzialisti, più di altri, hanno tematizzato questa dimensione della finitudine che non riguarda solo la morte fisica, ma riguarda anche questa sera. Questa è una sera, siete venuti che è già notte, cioè questo giorno finisce, finisce qui, tra l’altro in una cornice e con degli aiuti, con delle suggestioni che vorremmo avere ogni sera ma non è possibile. Si conclude un ciclo. Tra l’altro stasera si conclude anche un mese: finisce il mese di ottobre, è finito, è stata un’esplosione di primavera per lo più, tranne gli ultimi giorni di pioggia. Qui c’è il limite, c’è il finire di un tempo, sia pure convenzionale che noi indichiamo come mese. Allora finisce questo giorno, finisce un mese. A volte finiscono delle epoche, finiscono delle mode, si conclude un periodo, un segmento della nostra vita personale, professionale: andare in pensione riguarda la finitudine, andare in ospedale riguarda la finitudine, aver mal di testa (per dire la cosa più banale) riguarda la finitudine, non riuscire a dialogare con la moglie o con i figli riguarda la finitudine. Voglio dire che noi siamo strutturati alla morte e questo che sembra essere un pensiero negativo, pessimista, in realtà è l’osservazione degli eventi, di quello che succede nella nostra vita. Un abito non può durare sempre, una sciarpa non è eterna, un oggetto si rompe. Non so se vi siete mai soffermati sull’incidente di un bicchiere che si rompe: è la cosa più normale nelle nostre case, è una morte. “Fermi, si è rotto il bicchiere!” cioè quel bicchiere è finito, almeno nella forma di bicchiere. Forse potrà essere ricomposto, sarà un coccio; se è il bicchiere del brindisi al nostro fidanzamento sarà posto in un reliquiario, ma la rottura di un bicchiere è la fine di un oggetto che ti dice: “Attento! Qui siamo nella finitudine”. Bisogna ragionare in questa maniera anche sugli incidenti, sugli eventi, sulla vita delle cose, su un canarino, un bengalino che ho trovato morto in gabbia, o un passerotto che è caduto dal nido… cose con le quali noi continuamente dobbiamo fare i conti e che portano sempre scritto questo messaggio: “Tu stai vivendo una vita finita”. “Finita” non che sia finita adesso, ma che è circoscritta, è limitata: sei nato e morirai. Questa cosa, detta in una maniera così cruda come l’ho espressa ora, sembra una sorta di “ricordati che devi morire”. No, in realtà, a ben pensarci, questo annuncio del bicchiere che si rompe, del vino che è finito nella bottiglia, per dire le cose più semplici, del quadro che è caduto dal chiodo, è un invito – vi sembrerà strano che ve lo dica un vescovo – a goderci questo piccolo tratto di strada che abbiamo davanti. Stasera tu sei stato invitato ad un concerto: questi due maestri suonano per te. Tu hai le tue preoccupazioni, hai quello che t’aspetta, i problemi insoluti, ma questa è la vita. È la tua vita, vivila bene, perché questo concerto tra un’ora sarà finito, perché finisce anche un concerto - e staranno pensando i maestri: “Per fortuna, dal momento che dobbiamo sorbirci anche la predica del vescovo” - cioè finisce tutto e allora questo annuncio che tutto finisce può condurre a due atteggiamenti. Il primo: se finisce tutto, non serve. Se tutto finisce è inutile che ci impegniamo. Allora si vive in una maniera superficiale o impregnati di tristezza: non è l’atteggiamento cristiano. È breve questo concerto, ma goditelo. Questo messaggio che vi sembra così banale, così semplice tanto da sembrare semplicistico, in realtà è una sapienza di vita che nasce dal senso del limite. Stiamo ancora insieme, abbiamo ancora in casa i nostri figli, i nostri figli sono ancora bambini, siamo ancora fidanzati, ci vogliamo ancora bene, non ci detestiamo ancora: godiamoci questo momento, godiamoci questa stagione perché finirà, perché tutto finisce proprio perché siamo sul limitare sempre di qualcosa che si chiude. Il chiudersi di una porta, la cosa più semplice che facciamo cento volte al giorno, è un segno di finitudine. Ma prima che questa porta si chiuda, vorrei dare uno sguardo, vorrei guardare il mondo, vorrei rendermi conto che ci sono delle cose belle, che forse questo tempo non posso perderlo in banalità, forse vale la pena vivere questo attimo, che è la mia vita, in una maniera piena… Ecco come la finitudine da pensiero pessimista diventa sorgente di vita e di produzione artistica. In questo momento, noi – loro, ma anche noi perché chi partecipa ad un concerto non è assente - stiamo facendo rivivere dei brani che hanno cento, centocinquanta anni di vita e ovviamente stiamo facendo rivivere gli autori di cui vedete sul programma, che stanno qui e guardano come il pianista e il mandolinista traducono ciò che essi hanno scritto allora. Se fossero stati presi dal pessimismo non avrebbero scritto, ma al tempo stesso, più o meno consapevolmente, spesso inconsapevolmente, questa percezione che avevano poco tempo li ha spinti a scrivere. Dico una cosa che sembra paradossale: se non ci fosse la morte, se non ci fosse stata la morte, questi autori non avrebbero scritto, perché avrebbero detto: “Va be’ lo facciamo domani, tra 10 anni, tra 50 anni, tra 100 anni, tra 500 anni,  ho tutto il tempo”. Invece no: domani posso non esserci. Allora se ho un’intuizione musicale, se ho un bacio da dare, se ho un messaggio da consegnare, se ho una parola da dire, è il caso che la dica ora, in modo tale che tra 100 anni, tra 500 anni qualcuno percepirà l’eco di questa mia parola detta nella finitudine e mi “risusciterà” dicendo: “Il vescovo di Teano-Calvi, quella sera ha detto la parola finitudine”. L’eco di questa parola, tra 150 anni sarà un modo con cui io e voi (che mi state facendo dire questa parola, perché se non ci fossero persone ad ascoltare nessuno parlerebbe) saremo risuscitati dal ricordo di qualcuno che ha annotato la parola “finitudine”. Terzo brano: stiamo per assistere alla risurrezione dell’autore di questo brano, nato dalla percezione della morte.

 

Soirée de printempsNocturne Op.53 (Raffaele Calace)

 

Probabilmente alcuni di voi, non abituati a questo linguaggio, potrebbero ritenere queste parole non nell’alveo della nostra fede cristiana: “Ma non ci avete sempre insegnato che bisogna essere tristi, flagellarci? Non ci avete detto che non bisognava legarsi alle cose perché passano?”. Questa è una lettura non cristiana, non cristiana della vita, del mondo: il cristiano non è uno che se ne sta lontano per non sporcarsi del mondo, ma è uno che sta dentro. Quindi il matrimonio, l’amore, l’amicizia, il lavoro, la vita civica, la cultura, la bellezza debbono appassionarci in questo brevissimo orizzonte. Dice un autore, Bonhoeffer - in questo momento mi ricordo di lui - che chi non valuta abbastanza le cose del mondo e non le valorizza e non vi coglie l’impronta della bellezza, non riuscirà a gustare neanche le cose di Dio. D’altra parte, il mondo da dove viene? Chi l’ha fatto? Che impronta porta? Viene dalle Sue mani. Il mondo non è altro da Dio: Dio è nel mondo, il mondo è in Dio. Vedete che questa riflessione, che a piccole pillole stiamo facendo insieme, una sorta di percorso, ci porta a valorizzare le cose belle che la vita ci offre pur nella percezione della loro finitudine. Un fiore dura poco, ma guardalo, ma annusane il profumo, lasciati prendere dal messaggio che porta. Se io, a partire dalla percezione “Questo fiore dura poco”, non lo guardo, commetto anche un peccato. Vi rendete conto che per errate impostazioni, concezioni della vita cristiana, noi corriamo il rischio di commetterlo e anche tanti han corso questo rischio, cioè di non aver visto. Alla fine, ti sembra che il Signore ci chiederà: “Ma hai visto? Chi hai visto?”. Quando dobbiamo fare un tema descrittivo: “Descrivi una bella giornata - probabilmente questi sono i temi della nostra infanzia - trascorsa con la tua famiglia”. “Non mi ricordo!”… Se quando ti presenterai al cospetto di Dio, non saprai raccontare nulla, sarai condannato. E perché non saprai raccontare? Perché non hai visto! Ho percorso…, ho camminato…, sono passato attraverso tante bellezze bendato e allora il Signore mi dirà: “Ma tu che non mi hai visto nel luccichio delle cose, delle persone, degli eventi, nello scorrere delle stagioni, non puoi entrare in Paradiso!”. Sto dicendo questo in una maniera un po’ paradossale ovviamente, per farvi comprendere come quello che vi ho detto poc’anzi non è altro dalla fede o non è una picca che il vescovo ha perché ha una predisposizione estetica. No, questo deve appartenere alla vita di ogni credente, perché la vita è breve ma è bella, anzi – aggiungo – è bella perché è breve. E qui probabilmente avreste qualche obiezione da farmi: in che senso “è bella perché è breve”? Nel senso che la bellezza è anche in questa striatura del cielo, di una stella cadente o di un’aurora boreale che è l’effetto di un attimo: ma che forse la bellezza della stella cadente del cielo estivo non è data dal suo durare l’attimo fuggente? Sto scolpendo in qualche maniera sul piano verbale questo concetto della finitudine. Adesso quello che mi interessa in questo terzo momento è farvelo vedere nel suo aspetto positivo, cioè la nostra vita è bella perché è limitata, è bella perché è una stagione, la giovinezza è bella perché passa. Se fossimo condannati ad un’eterna giovinezza, la giovinezza non sarebbe più bella, sarebbe noiosa!, e questo valga per tutte le gioie della vita che sono passeggere e proprio nel loro essere passeggere hanno un fascino, un’attrazione, perché dico: “Adesso c’è e tra un attimo può non esserci, voglio guardarla, voglio cantarla, voglio viverla”. Ecco come l’esperienza della finitudine, da tema da requiem, da tema da Dies irae - anche se il Dies irae è un inno bellissimo e dolcissimo della Chiesa antica - diventa un canto alla vita. In fondo sia pure con le modulazioni, le colorazioni un po’ malinconiche che la letteratura mandolinistica in qualche maniera porta con sé, non fosse altro nel tremolo che contraddistingue l’arte di questo strumento, diventa un canto alla vita, proprio perché c’è questo tremito, questo tremolio di queste due corde pizzicate continuamente col plettro e che danno questa… a me veniva anche una sonorità da organino, una cosa molto romantica per alcuni di noi che forse ne hanno visto qualcuno in vita loro, queste note a volte anche un tantino non proprio precise, ma che tendono un po’ al malinconico. In questo tremolio c’è la vita: guardala perché tra un attimo non ci sarà. Ti salverai se la guardi e se la vivi.

 

Tarantella Op.18 (Raffaele Calace)

 

Lo so che siete tentati subito di fare un applauso, ma lo farete alla fine. È bello comunque che queste emozioni tornino dentro, esplodano dentro, anche questa di una tarantella. Siamo nel pieno della letteratura musicale partenopea legata alla danza, come sapete, ma legata anche a questo essere morsi dalla tarantola, questo movimento un po’ sincopato di chi è ferito e quindi danza. Parto da questo, da una ferita che genera una danza, per presentarvi una pagina di letteratura interreligiosa che fa al caso nostro. Si riferisce alla vita di Buddha, una sorta di fiaba sull’infanzia e sulla adolescenza di questo profeta. Il re, suo padre – dice il testo – volle tenere questo giovane, questo bambino fuori d’ogni visione negativa. Lo tenne in questo palazzo magnifico dove c’erano animali meravigliosi, una natura lussureggiante, grandi maestri: tutto perfetto, tutto dorato, tutto al top. Sul varcare dell’adolescenza il giovane Buddha chiede a suo padre, il re, di poter uscire (perché a volte anche una prigione dorata è una prigione): vuole scoprire il mondo. Ovviamente il re si preoccupa perché questo ragazzo non ha mai visto il male, non ha mai visto una realtà brutta che potesse ferirlo e quindi prepara una visita falsa come qualche volta succede ancora oggi per i politici: G8, G7, G12 e quindi si spazzano le strade, si mettono i fiori nelle aiuole perché passano i grandi. Ricordo che in una visita di Giovanni Paolo II, in un ospedale, avevano fatto in modo che il Papa percorresse solo certi settori. Il Papa, intelligente, avendo percepito che lo stavano teleguidando, dice: “No, voglio andare lì” e varcò un corridoio dove c’erano malati orribili a vedersi. Torniamo alla nostra storia: il re ha fatto spazzare le strade, ha messo tutti chiusi in casa i poveri, gli storpi, le persone che potessero ferire gli occhi di questo figlio che era stato educato a vedere solo la bellezza. Dice la fiaba, il racconto che gli dei si misero d’accordo e crearono dal nulla un vecchio. Quindi facendo questa passeggiata in una carrozza meravigliosa attraverso la città, dove tutto doveva essere perfetto, ecco che gli occhi del giovane Buddha incontrarono un uomo deforme, capelli bianchi, rugoso: l’avevano creato gli dei proprio per educarlo. “Ma chi sei? Chi è? – chiese all’auriga che conduceva il cocchio velocemente – Chi è quest’uomo?”. Si accorse che esisteva la vecchiaia. Ne fu talmente ferito che tornò nella sua reggia. Aveva scoperto il tempo. Aveva scoperto che non si è sempre giovani. Aveva scoperto che l’uomo bellissimo, che la donna bellissima diventano vecchi, invecchiano, e questa cosa lo contristò enormemente. Dopo un lasso di tempo chiese di nuovo di uscire. Nuovamente tutto spazzato... ma gli dei intervengono e mettono sulla strada un malato. È interessante questa storia, diciamo nel suo ordito, e quindi nuovamente il giovane Buddha dice: “Ma chi è quest’uomo dal ventre gonfio che grida? Perché grida?”. È ammalato. Quindi esiste la malattia che deforma i corpi, che deturpa anche un corpo giovane, che sconvolge un equilibrio, che insinua un’energia di morte laddove la vita vuole vivere. Avete già intuito, terza scena: torna di nuovo intristito, poi vuole uscire di nuovo e gli dei gli mettono davanti un cadavere. “Ma chi è - chiede – quest’uomo che è adornato di gioielli, immobile su un catafalco e tutti piangono? Perché piangono se è così ricco?”. E l’auriga deve rivelargli: “Era ricco, adesso gli manca la ricchezza per eccellenza che è la vita”. Quindi il giovane Buddha scopre la morte. Perché vi ho citato questa pagina di letteratura d’altra religione? Perché in questo racconto, in una maniera molto semplice, ma anche concreta, viene messa dinanzi la scena delle tre limitazioni, cioè parlare del limite: ma qual è questo limite? Il limite è il tempo (e quindi l’invecchiamento), la malattia (abbiamo già i nostri acciacchi qui da lamentare, una limitazione già adesso) e quindi la morte. Attenti! Le altre due limitazioni non sono altro che una morte a piccole gocce, un istante che passa, un anno che passa… Per questo certi compleanni a volte hanno il sapore di una marcia funebre e a volte uno non vorrebbe festeggiarli, ma vanno sempre festeggiati, anche quando sono 70 e 80. Il tempo che passa e la malattia, il limite, anche nelle sue forme minime, quale può essere un’influenza, un raffreddore, tanto più poi le realtà più drammatiche, sono una piccola morte. Forse il verso “La morte si sconta vivendo” vale anche in questo senso, cioè non è solo la morte conclusiva, ma è anche la morte di stasera, è anche la morte di questa tarantella che è finita, ma è anche la morte di questa esperienza che abbiamo condiviso e che adesso ci disperde ciascuno per la sua vita, per la sua strada, per la sua missione. Ecco, questi sono i limiti e quando noi parliamo di morte, noi non dobbiamo solo far riferimento alla morte fisica, che null’altro è che la somma di tanti addendi legati al tempo, legati alla malattia, legati alla delusione, legati al distacco, agli addii detti, ma in questo senso noi siamo già morti e noi stiamo già morendo. E forse gli unici che non muoiono più sono quelli che noi andremo a visitare, i cui resti andremo a venerare al cimitero: loro hanno smesso di morire. Noi no, noi stiamo ancora morendo, noi chiamiamo “morti” loro e “vivi” noi: è l’esatto contrario. Loro sono vivi e non hanno più nulla da morire, noi stiamo ancora morendo.

 

Rondò Op.127 (Raffaele Calace)

 

Vorrei ora brevemente - e questo ci aiuterà nel vivere la Celebrazione di domani e la Commemorazione di dopodomani - tematizzare come siamo collegati con i nostri defunti, santi (domani), parenti defunti (dopodomani) ma sono santi anch’essi. Innanzi tutto c’è qualcosa di loro che vive in noi. Questo lo sentiamo molto forte nei confronti dei nostri genitori defunti: noi viviamo e in noi essi continuano a vivere, ma questo valga anche per uno sposo, per un marito, una moglie, per un amico, un’amica, per un vescovo, un prete nei confronti della comunità, della diocesi. Non c’è una demarcazione, così come noi la avvertiamo, che certamente temporalmente è la morte: nella realtà loro sono con noi e noi siamo con loro ed è molto dolce, molto bello, percepire – lo diceva già il Foscolo che credente non era, almeno non nei termini “classici” – celeste questa corrispondenza d’amorosi sensi, a dire che c’è un dialogo. C’è un dialogo anche senza parole, c’è un dialogo fisico perché io sono nato da mia madre e anche tu, perché una parola detta, un bacio condiviso, un’esperienza vissuta insieme, l’essere stati insieme a mensa, per dire le esperienze fondamentali della vita che certamente si sono verificate in quel momento, e sono iniziate e sono finite, hanno creato una sorta di santa commistione, di santa confusione tra noi e loro: per questo non siamo più disgiungibili. Noi da loro e loro da noi. Noi lo percepiamo più nel senso che qualcosa di mio madre, di mio padre, di tuo marito, di tuo padre vive in te, vive in noi, ma dobbiamo tematizzarlo anche nell’altra dimensione e cioè loro – e non si tratta di un fatto spaziale, ma purtroppo dobbiamo utilizzare questi parametri – ci han portato con loro. È  per questo che la campana suona sempre per tutti e quindi, sì, non muore una persona, ma muore una comunità, muore un mondo ma al tempo stesso un mondo, una comunità viene trasbordata oltre questo tempo e una parte di me è già nell’eternità, una parte di voi è già in Dio, non solo in grazia del Battesimo, ma perché alcune persone che ci hanno voluto bene non sono più qui nel senso spaziale e temporale del termine. Certamente sono qui, ma noi diciamo sono in Dio, ma non sono andate da sole, ci hanno portato con loro: una parte di te è già nell’eternità e una parte dell’eternità è ancora in te. Vi consegno questo piccolo pensiero. Io spero di non stare, di non strattonarvi, ecco, perché poi ciascuna di queste riflessioni avrebbe bisogno di… Proprio per l’aspetto rapsodico, bastano degli accenni. Magari ognuno di voi di questa serata porterà una nota e una parola: basta. “Tutto quello che ha detto il Vescovo, Dio mio, mi ha fatto venire il mal di testa!”. No, una parola, quella che ti ha interrogato, dove hai sentito il tuo mandolino del cuore vibrare (perché vibrano le corde del cuore come le corde degli strumenti), quella è la parola su cui devi lavorare. Ecco allora la demarcazione - questo è il tema che ho brevemente esposto - la demarcazione netta, tra tempo ed eternità non esiste, è una convenzione, perché l’eternità è nel tempo e il tempo è nell’eternità e se lo applichiamo ai nostri defunti, loro sono qui in me, in noi. E noi, una parte di noi, è già al sicuro nell’eternità.

 

Romanza S.P. Op. 134 (Raffaele Calace)

 

Molte cose di noi resteranno dopo di noi. Questo è un richiamo di eternità nella nostra piccola esperienza umana. Vi dicevo, già qualche riflessione fa, stiamo eseguendo, stiamo ascoltando – chiedo scusa del plurale (la mosca stava sulle corna del bue e disse: “Stiamo arando”) però “stiamo” nel senso che un concerto riguarda tutti - stiamo risuscitando questi spartiti e quindi ne L’eterno riposo che diremo alla fine c’entra anche il nostro Calace. Il fatto che ci siano delle cose da noi prodotte che resistono oltre la nostra morte è un’indicazione spirituale: se l’uomo può fare qualcosa che gli sopravvive, allora anche ad una riflessione molto semplice, molto terra-terra, c’è nell’uomo un’esigenza d’eternità scritta nel codice genetico. D’altra parte, se noi dovessimo fare le cose col pensiero della morte, di cui ho detto all’inizio (quello negativo), non faremmo nulla, cioè la morte diventa un elemento frenante, in senso negativo, invece può diventare un eccitante della vita, nel senso bello del termine, perché ci porta a produrre e a lanciare messaggi oltre noi. Questo vale anche per le cose piccole: hai costruito una casa?, hai edificato una casa? Ti sopravviverà. Hai comprato un diamante? “Il diamante è per sempre” dice la reclamistica, per regalare un brillante alla moglie: “Il diamante è per sempre”. Tante cose parleranno di noi quando noi non ci saremo più. Adesso voi siete venuti qui “In punta di piedi in Episcopio” che è pensata anche, come vi ho detto all’inizio, due anni fa, perché questi ambienti siano condivisi. “Il vescovo che ci fa in tutte quelle sale, lui solo?”. Il vescovo vi ha invitati e questo adesso è un modo per condividere questo ambiente che è anche vostro, anzi soprattutto vostro, ma quante persone hanno dimorato qui?, hanno abbellito queste stanze, hanno fatto degli stucchi, hanno ordinato delle porte, hanno … e non ci sono più, nel senso della percezione visibile, ma sono qui: queste cose sono andate oltre loro. Qui ci sono oggetti di due, tre, quattro, cinque secoli fa, commissionati, quindi anche le cose più semplici dicono di un’esigenza che l’uomo ha di eternità. Questo poi nell’arte, nella produzione artistica raggiunge il top, perché se oltre a fare una porta o una sedia, o a costruire una casa, tu sei riuscito, per dono di Dio ovviamente, ad avere anche un’impronta creatrice e artistica ecco che quello spartito, quella statua, quel quadro, quel palazzo sarà ammirato da generazioni e generazioni  e ti sopravviverà addirittura per un millennio. Cos’è questo? È un’ironia terribile a dire che le cose vivono più a lungo dell’uomo che le produce? Sarebbe una lettura negativa, pessimistica. Invece è il fatto che nell’uomo è depositato il segno dell’eternità. L’amore è sempre “per sempre”: anche quando dovesse finire, parte con questa connotazione. “Ci promettemmo il sempre degli amanti” dice Alda Merini in una poesia che si chiama Lettere. Ma forse non c’è anche in questo “sempre degli amanti” una stilla di eternità? Come vedete, l’eternità è il senso che la nostra vita va ben oltre questi pochi giorni, questa manciata di giorni che noi viviamo. È una percezione molto forte che è preesistente anche alla rivelazione cristiana del senso della vita. Tra un po’ ascolteremo un pezzo fuori programma del pianista, composto da lui. Auguriamo a Nunzio che ci sia in questo spartito quel quid che rende uno spartito non un semplice spartito, ma un’opera d’arte e l’opera d’arte è patrimonio dell’umanità e può essere suonata per decenni, per secoli dopo di noi. In altri termini: siamo eterni. Siamo per l’eternità, non siamo per la morte.

 

Bolero Op. 26 (Raffaele Calace)

 

Con questo Bolero ci congediamo da Raffaele Calace, anche se continua ad essere presente nella nostra preghiera. Vorrei prendere spunto dalla piccolezza del mandolino per incoraggiare quelli fra voi che hanno liquidato la mia precedente suggestione, dicendo: “Sì, però noi non siamo artisti! Sì, ma noi siamo povera gente: a stento siamo riusciti a mettere su un appartamento. Di noi non resterà nulla”. Non so se avete mai visto quanto sia piccola la tastiera del mandolino - si chiama così, come per la chitarra - quanto sia piccola. Probabilmente a conclusione potete anche vedere. Voi forse con un dito riuscireste a coprirla tutta, mentre il nostro concertista va danzandovi e creando melodie: non c’è piccolezza che non possa diventare opera d’arte. È bello anche stasera vedere il mandolino assurgere, almeno per tanti di noi che non l’avevano visto in questa veste, a strumento da concerto. Non c’è vita così piccola, esperienza così semplice da cui non poter trarre un’opera d’arte. Posso avere un pianoforte a coda, o un organo, re degli strumenti, un organo a canne, con diecimila canne!, ma non so suonare. Voglio dirvi che qui l’importante non è lo strumento, piccolo, grande, una vita meravigliosa, una piccola vita. Chi vuoi che si renda conto dei fiori che ho messo sul balcone, del canto che io posso modulare? Non è nella piccolezza il pericolo, è nella banalità. Il vero pericolo è la banalità, è la banalità che uccide l’arte. Una persona banale da un grande strumento non riuscirà a tirar fuori nulla. Un artista da un piccolo strumento saprà produrre, saprà trarre un’opera d’arte. Vuole essere un incoraggiamento perché a volte questi discorsi sembrano riguardare solo le persone eccellenti, quelle che superano i primati, quelle che sono al di sopra della norma. No, quello che sto dicendo vale per tutti, anche per la persona più semplice tra voi, tra noi che stasera dice: “Sono un mandolino piccolissimo?, una tastiera che a guardarla dal fondo della sala neanche si vede?”. Bene, l’importante è l’amore che tu poni in quello che tu sei, in quello che tu fai, nella giornata che adesso comincia e che adesso finisce: è l’amore che rende bella, avvincente, da trasmettere, da raccontare, una semplice vita. Credo che questo sia anche il modo più bello di ricordare i nostri defunti che non credo - i defunti che andremo a ricordare in questi giorni (speriamo non solo in questi giorni) - abbiano lasciato testamenti miliardari o composto romanze e rondò e bolero… Magari mio padre, tua madre, tuo marito non ha lasciato… ma se ci fai caso ha vissuto semplicemente col suo mandolino, col suo piccolo strumento. Mi piace dare questa definizione (spero che il concertista mi perdoni): un Parkinson ad arte. Non so se qualcuno ti ha mai dato questa… un Parkinson finalmente che assurge ad arte. Bene, anche se sono un mandolino, l’amore può trarre da questo piccolo strumento una melodia meravigliosa.

 

Valtzer Fantastico (Enrico Marucelli)

 

L’autore di questo brano, di questo Valtzer Fantastico - spero abbiate fatto i conti come me - ha vissuto solo trent’anni. L’importanza di una vita non sta nella sua durata. A volte pensiamo che sia importante vivere a lungo: è importante vivere bene, è importante vivere intensamente, è importante vivere con amore. Basta anche un giorno, addirittura. E questa è una preoccupazione mia, tutta mia: a volte una lunga vita, può portarci a demolire quello che abbiamo costruito, a smentire nell’ultima parte quello che abbiamo affermato nella giovinezza, nella maturità. Voglio dirvi: questo fatto di augurarci di vivere cent’anni proprio non credo che sia il top, anche guardando come vivono gli anziani, e a quante difficoltà vadano incontro. Certamente non dobbiamo scegliere noi i giorni della nostra vita, sono già segnati, il Signore sa quanto vivrò, quanto vivrai, ma quello che è importante chiedergli stasera, davanti a questa riflessione sulla finitudine, nel ricordo dei defunti in questa Halloween che abbiamo ribattezzato, che abbiamo riportato nel suo alveo, è non voler vivere tanto, ma nel voler vivere bene. Questo dipende da te. Se questo Valtzer Fantastico ci viene da un autore che abbiamo risuscitato in quest’istante che ha vissuto solo per trent’anni ed ha prodotto questo ed altre opere - questo era veramente virtuosistico nelle difficoltà esecutive - tanto più in una giornata io posso dare il meglio di me. Allora questo ci distende, ci snebbia dalla preoccupazione che comunque dobbiamo investire nel tempo. Lasciamo che sia Dio - per fortuna non decidiamo noi - che sia Lui a dire “Ritornate figli dell’uomo” dice il Salmo 89, a dire che a un certo punto Dio chiama, perché la morte – vi sembrerà strano - è una vocazione, è una chiamata. Anche la morte è una chiamata, una vocazione. Dice il Salmo 89: ritornate figli dell’uomo. Dice Dio: ritornate, tornate a me, è finito il vostro tempo. Adesso io non voglio sapere, e spero neanche voi: il mio tempo sarà molto o breve? Ma quello che dipende da me è che questo tempo sia vero, sia impegnato al meglio. Allora adesso approdiamo - ed è il penultimo testo - ad Isole che non è sul vostro depliant ma è di Nunzio, opera sua: vediamo dove ci conducono queste Isole, cosa descrivono, se sono isole fortunate cui approdare.

 

Isole (Nunzio Salierno)

 

È giunto il momento di dire grazie. Grazie rispetto a quest’ultima suggestione di dondolio delle onde che ci hanno dolcemente portato ad approdi. Io spero - e lo chiedo al Signore, ovviamente chiudendo - che abbiate trovato vari approdi, durante questo tempo che siamo stati insieme, una parola dove gettare l’ancora, dove collegarvi per non colare a picco, un ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà, una sorta di sintesi intorno a questo termine “finitudine” su cui abbiamo intessuto parole e note. Ti ringraziamo, Signore, per questo momento. Grazie per quello che tu hai operato al di là di ciò che noi stessi avevamo progettato. Grazie per la pace che ha preso il volo e ci ha condotti in più spirabil aere. Grazie perché ci hai fatto comprendere come questa brevità della vita ne è la vera ricchezza. Un padre della Chiesa ricorda che la morte è un dono per chiudere con il peccato e il limite. Il Cardinale Martini aggiunge che la morte è l’esperienza in cui ci affideremo completamente a Te, Signore, senza più paura. Grazie per queste suggestioni, grazie per la speranza che hai acceso o rinfocolato nel nostro cuore. Avendo vissuto questa preghiera nel ricordo dei defunti, ovviamente utilizziamo la preghiera classica per questi autori, per i nostri defunti, per tanti che ci verranno incontro in questi giorni.

 

L’eterno riposo…

 

Benedizione del Vescovo

 

Capriccio Spagnolo Op. 276 (Carlo Munier)  

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.