“In punta
di piedi in Episcopio”
Meditazioni di
S.E. Rev.ma Mons.
Arturo Aiello
Teano, 31 Ottobre 2008
~
Serenate d’altri tempi
Raffaele Calace (1863-1934)
Enrico Marucelli (1877-1907)
Carlo Munier (1859-1911)
Duo
Mandolino – Pianoforte
“Ensemble Estense”
Mandolino: Roberto Palumbo
Pianoforte: Nunzio Salierno
***
Gli ingredienti della nostra serata, come sempre, mettono insieme
arte ed arte, cioè l’arte musicale con il duo - questa sera seguiremo lo
schema, tranne una variazione che vi indicherò alla fine - e percorsi vocali.
Non si tratterà di vocalizzi, ma, come sapete, di riflessioni intessute intorno
ad un tema; quindi è il modo migliore, già ormai sperimentato da anni, qui e
altrove, di distendere, di creare un momento distensivo, contemplativo, ma
anche di riflessione un po’ più approfondita, che la fretta normalmente ci
impedisce di realizzare e di operare.
Iniziamo facendoci un Segno di Croce perché staremo in silenzio
tutto il tempo e perché questa è una preghiera.
Nel nome del Padre…
Serenata
malinconica Op.120 (Raffaele Calace)
Qualcuno, scherzando (ma mi ha sollecitato in questa maniera),
vedendo che questa serata coincideva con il 31 Ottobre, ha pensato che il
Vescovo volesse fare una festa alternativa, una Halloween
ribattezzata e allora proprio a partire da questa battuta mi sono inoltrato per
il percorso che vi suggerisco, innanzi tutto perché credo che dobbiamo fare
pace anche con la festa di Halloween. Qualcuno, anche da parte del mondo
cattolico, ha lanciato strali recentemente e negli anni scorsi, dicendo: è una festa
pagana, c’è una sorta di non rispetto della morte, degli eventi luttuosi…
Questi cadaverini, questi scheletri che pendono dai
negozi sembrano essere indulgenti verso una lettura un po’ comica della morte…
Forse conviene fare un piccolo percorso storico, perché la storia aiuta a
renderci conto da dove è uscita Halloween e se questa festa può avere o abbia
vantato in passato delle radici cristiane. La risposta è: “Sì”. Quindi già, in
qualche maniera, vi destabilizzo rispetto ad una
possibile demonizzazione della festa di Halloween. Perché sì? Innanzi tutto
facciamo un passo ancora previo, che riguarda la saggezza della Chiesa antica,
di innestare le feste cristiane su feste pagane. Valga per
tutte il Natale, come ho già spiegato in questa sala qualche anno fa,
dove la festa del “sole vittorioso” viene sostituita con la nascita del
Redentore. Quindi
VI
Mazurka Op.141 (Raffaele Calace)
La nostra Halloween ribattezzata ha, come avete potuto già
avvertire, delle modulazioni molto partenopee e questo è anche bello:
riscoprire questo patrimonio che sembra minore, ma
minore non è, della musica napoletana, della produzione partenopea, dove il
mandolino non è solo lo strumento delle serenate o delle canzoni popolari, ma
anche strumento da concerto, con tutto l’onore che si deve a questo termine.
C’è una parola che credo “porta” per affrontare l’evento della morte, di ciò
che ci attende, del rapporto con i nostri defunti ed è la parola “limite”. Non
possiamo formulare nessun pensiero intorno alla morte e ai morti senza
familiarizzare con questa parola: limite. “Limite” nel senso che la morte
segna, batte un solco che limita la vita qui. Un filosofo esistenzialista dice
che l’uomo è essere per la morte e gli esistenzialisti, più di altri, hanno
tematizzato questa dimensione della finitudine che non riguarda solo la morte
fisica, ma riguarda anche questa sera. Questa è una sera, siete venuti che è
già notte, cioè questo giorno finisce, finisce qui, tra l’altro in una cornice
e con degli aiuti, con delle suggestioni che vorremmo avere ogni sera ma non è possibile. Si conclude un ciclo. Tra l’altro
stasera si conclude anche un mese: finisce il mese di ottobre, è finito, è
stata un’esplosione di primavera per lo più, tranne gli ultimi giorni di
pioggia. Qui c’è il limite, c’è il finire di un tempo, sia pure convenzionale
che noi indichiamo come mese. Allora finisce questo giorno, finisce un mese. A
volte finiscono delle epoche, finiscono delle mode, si conclude un periodo, un
segmento della nostra vita personale, professionale: andare in pensione
riguarda la finitudine, andare in ospedale riguarda la finitudine, aver mal di
testa (per dire la cosa più banale) riguarda la finitudine, non riuscire a
dialogare con la moglie o con i figli riguarda la finitudine. Voglio dire che
noi siamo strutturati alla morte e questo che sembra essere un pensiero
negativo, pessimista, in realtà è l’osservazione degli eventi, di quello che
succede nella nostra vita. Un abito non può durare sempre, una sciarpa non è
eterna, un oggetto si rompe. Non so se vi siete mai soffermati sull’incidente
di un bicchiere che si rompe: è la cosa più normale nelle nostre case, è una
morte. “Fermi, si è rotto il bicchiere!” cioè quel bicchiere è finito, almeno
nella forma di bicchiere. Forse potrà essere ricomposto, sarà un coccio; se è
il bicchiere del brindisi al nostro fidanzamento sarà posto in un reliquiario,
ma la rottura di un bicchiere è la fine di un oggetto che ti dice: “Attento!
Qui siamo nella finitudine”. Bisogna ragionare in questa maniera anche sugli
incidenti, sugli eventi, sulla vita delle cose, su un canarino, un bengalino
che ho trovato morto in gabbia, o un passerotto che è caduto dal nido… cose con
le quali noi continuamente dobbiamo fare i conti e che portano sempre scritto
questo messaggio: “Tu stai vivendo una vita finita”. “Finita” non che sia
finita adesso, ma che è circoscritta, è limitata: sei nato e morirai. Questa
cosa, detta in una maniera così cruda come l’ho espressa ora, sembra una sorta
di “ricordati che devi morire”. No, in realtà, a ben pensarci, questo annuncio
del bicchiere che si rompe, del vino che è finito nella bottiglia, per dire le
cose più semplici, del quadro che è caduto dal chiodo, è un invito – vi
sembrerà strano che ve lo dica un vescovo – a goderci questo piccolo tratto di
strada che abbiamo davanti. Stasera tu sei stato invitato ad un concerto:
questi due maestri suonano per te. Tu hai le tue preoccupazioni, hai quello che
t’aspetta, i problemi insoluti, ma questa è la vita. È la tua vita, vivila
bene, perché questo concerto tra un’ora sarà finito,
perché finisce anche un concerto - e staranno pensando i maestri: “Per fortuna,
dal momento che dobbiamo sorbirci anche la predica del vescovo” - cioè finisce
tutto e allora questo annuncio che tutto finisce può condurre a due
atteggiamenti. Il primo: se finisce tutto, non serve. Se tutto finisce è
inutile che ci impegniamo. Allora si vive in una maniera superficiale o
impregnati di tristezza: non è l’atteggiamento cristiano. È breve questo
concerto, ma goditelo. Questo messaggio che vi sembra così banale, così
semplice tanto da sembrare semplicistico, in realtà è una sapienza di vita che nasce
dal senso del limite. Stiamo ancora insieme, abbiamo ancora in casa i nostri
figli, i nostri figli sono ancora bambini, siamo ancora fidanzati, ci vogliamo
ancora bene, non ci detestiamo ancora: godiamoci questo momento, godiamoci
questa stagione perché finirà, perché tutto finisce proprio perché siamo sul
limitare sempre di qualcosa che si chiude. Il chiudersi di una porta, la cosa
più semplice che facciamo cento volte al giorno, è un
segno di finitudine. Ma prima che questa porta si chiuda, vorrei dare uno
sguardo, vorrei guardare il mondo, vorrei rendermi conto che ci sono delle cose
belle, che forse questo tempo non posso perderlo in banalità, forse vale la
pena vivere questo attimo, che è la mia vita, in una maniera piena… Ecco come
la finitudine da pensiero pessimista diventa sorgente di vita e di produzione
artistica. In questo momento, noi – loro, ma anche noi perché chi partecipa ad
un concerto non è assente - stiamo facendo rivivere dei brani che hanno cento,
centocinquanta anni di vita e ovviamente stiamo facendo rivivere gli autori di
cui vedete sul programma, che stanno qui e guardano come il pianista e il
mandolinista traducono ciò che essi hanno scritto allora. Se fossero stati
presi dal pessimismo non avrebbero scritto, ma al tempo stesso, più o meno
consapevolmente, spesso inconsapevolmente, questa percezione che avevano poco
tempo li ha spinti a scrivere. Dico una cosa che sembra paradossale: se non ci
fosse la morte, se non ci fosse stata la morte, questi autori non avrebbero
scritto, perché avrebbero detto: “Va be’ lo facciamo
domani, tra 10 anni, tra 50 anni, tra 100 anni, tra 500 anni, ho tutto il tempo”. Invece no: domani
posso non esserci. Allora se ho un’intuizione musicale, se ho un bacio da dare,
se ho un messaggio da consegnare, se ho una parola da dire, è il caso che la dica ora, in modo tale che tra 100 anni, tra 500 anni
qualcuno percepirà l’eco di questa mia parola detta nella finitudine e mi
“risusciterà” dicendo: “Il vescovo di Teano-Calvi,
quella sera ha detto la parola finitudine”.
L’eco di questa parola, tra 150 anni sarà un modo con cui io e voi (che mi
state facendo dire questa parola, perché se non ci fossero persone ad ascoltare
nessuno parlerebbe) saremo risuscitati dal ricordo di qualcuno che ha annotato
la parola “finitudine”. Terzo brano: stiamo per assistere alla risurrezione
dell’autore di questo brano, nato dalla percezione della morte.
Soirée de printemps – Nocturne Op.53 (Raffaele Calace)
Probabilmente alcuni di voi, non abituati a questo linguaggio, potrebbero
ritenere queste parole non nell’alveo della nostra fede cristiana: “Ma non ci
avete sempre insegnato che bisogna essere tristi, flagellarci? Non ci avete
detto che non bisognava legarsi alle cose perché passano?”. Questa è una
lettura non cristiana, non cristiana della vita, del mondo: il cristiano non è
uno che se ne sta lontano per non sporcarsi del mondo, ma è uno che sta dentro.
Quindi il matrimonio, l’amore, l’amicizia, il lavoro, la vita civica, la
cultura, la bellezza debbono appassionarci in questo brevissimo orizzonte. Dice
un autore, Bonhoeffer - in questo momento mi ricordo di lui - che chi non
valuta abbastanza le cose del mondo e non le valorizza e non vi coglie
l’impronta della bellezza, non riuscirà a gustare neanche le cose di Dio.
D’altra parte, il mondo da dove viene? Chi l’ha fatto? Che impronta porta?
Viene dalle Sue mani. Il mondo non è altro da Dio: Dio è nel mondo, il mondo è
in Dio. Vedete che questa riflessione, che a piccole pillole stiamo facendo
insieme, una sorta di percorso, ci porta a valorizzare le cose belle che la
vita ci offre pur nella percezione della loro finitudine. Un fiore dura poco,
ma guardalo, ma annusane il profumo, lasciati prendere dal messaggio che porta.
Se io, a partire dalla percezione “Questo fiore dura poco”, non lo guardo,
commetto anche un peccato. Vi rendete conto che per errate impostazioni,
concezioni della vita cristiana, noi corriamo il rischio di commetterlo e anche
tanti han corso questo rischio, cioè di non aver
visto. Alla fine, ti sembra che il Signore ci chiederà: “Ma hai visto? Chi hai
visto?”. Quando dobbiamo fare un tema descrittivo: “Descrivi una bella giornata
- probabilmente questi sono i temi della nostra infanzia - trascorsa con la tua
famiglia”. “Non mi ricordo!”… Se quando ti presenterai al cospetto di Dio, non
saprai raccontare nulla, sarai condannato. E perché non saprai raccontare?
Perché non hai visto! Ho percorso…, ho camminato…, sono passato attraverso tante bellezze bendato e allora il Signore mi dirà: “Ma tu
che non mi hai visto nel luccichio delle cose, delle persone, degli eventi,
nello scorrere delle stagioni, non puoi entrare in Paradiso!”. Sto dicendo
questo in una maniera un po’ paradossale ovviamente, per farvi comprendere come
quello che vi ho detto poc’anzi non è altro dalla fede o non è una picca che il vescovo
ha perché ha una predisposizione estetica. No, questo deve appartenere alla
vita di ogni credente, perché la vita è breve ma è
bella, anzi – aggiungo – è bella perché è breve. E qui probabilmente avreste qualche
obiezione da farmi: in che senso “è bella perché è breve”? Nel senso che la
bellezza è anche in questa striatura del cielo, di una stella cadente o di
un’aurora boreale che è l’effetto di un attimo: ma che forse la bellezza della
stella cadente del cielo estivo non è data dal suo durare l’attimo fuggente?
Sto scolpendo in qualche maniera sul piano verbale questo concetto della
finitudine. Adesso quello che mi interessa in questo terzo momento è farvelo
vedere nel suo aspetto positivo, cioè la nostra vita è bella perché è limitata,
è bella perché è una stagione, la giovinezza è bella perché passa. Se fossimo
condannati ad un’eterna giovinezza, la giovinezza non sarebbe più bella,
sarebbe noiosa!, e questo valga per tutte le gioie
della vita che sono passeggere e proprio nel loro essere passeggere hanno un
fascino, un’attrazione, perché dico: “Adesso c’è e tra un attimo può non
esserci, voglio guardarla, voglio cantarla, voglio viverla”. Ecco come
l’esperienza della finitudine, da tema da requiem,
da tema da Dies irae - anche se il Dies irae è un inno bellissimo e
dolcissimo della Chiesa antica - diventa un canto alla vita. In fondo sia pure
con le modulazioni, le colorazioni un po’ malinconiche che la letteratura
mandolinistica in qualche maniera porta con sé, non fosse altro nel tremolo che
contraddistingue l’arte di questo strumento, diventa un canto alla vita,
proprio perché c’è questo tremito, questo tremolio di queste due corde
pizzicate continuamente col plettro e che danno questa… a me veniva anche una
sonorità da organino, una cosa molto romantica per alcuni di noi che forse ne
hanno visto qualcuno in vita loro, queste note a volte anche
un tantino non proprio precise, ma che tendono un po’ al malinconico. In
questo tremolio c’è la vita: guardala perché tra un attimo non ci sarà. Ti
salverai se la guardi e se la vivi.
Tarantella
Op.18 (Raffaele Calace)
Lo so che siete tentati subito di fare un applauso, ma lo farete
alla fine. È bello comunque che queste emozioni tornino dentro, esplodano dentro,
anche questa di una tarantella. Siamo nel pieno della letteratura musicale
partenopea legata alla danza, come sapete, ma legata anche a questo essere
morsi dalla tarantola, questo movimento un po’ sincopato di chi è ferito e
quindi danza. Parto da questo, da una ferita che genera una danza, per
presentarvi una pagina di letteratura interreligiosa che fa al caso nostro. Si
riferisce alla vita di Buddha, una sorta di fiaba sull’infanzia e sulla
adolescenza di questo profeta. Il re, suo padre – dice il testo – volle tenere
questo giovane, questo bambino fuori d’ogni visione negativa. Lo tenne in
questo palazzo magnifico dove c’erano animali meravigliosi, una natura
lussureggiante, grandi maestri: tutto perfetto, tutto dorato, tutto al top. Sul
varcare dell’adolescenza il giovane Buddha chiede a suo padre, il re, di poter
uscire (perché a volte anche una prigione dorata è una prigione): vuole
scoprire il mondo. Ovviamente il re si preoccupa perché questo ragazzo non ha
mai visto il male, non ha mai visto una realtà brutta che potesse
ferirlo e quindi prepara una visita falsa come qualche volta succede ancora
oggi per i politici: G8, G7, G12 e quindi si spazzano le strade, si mettono i
fiori nelle aiuole perché passano i grandi. Ricordo che in una visita di
Giovanni Paolo II, in un ospedale, avevano fatto in modo che il Papa
percorresse solo certi settori. Il Papa, intelligente, avendo percepito che lo
stavano teleguidando, dice: “No, voglio andare lì” e varcò un corridoio dove
c’erano malati orribili a vedersi. Torniamo alla nostra storia: il re ha fatto
spazzare le strade, ha messo tutti chiusi in casa i poveri, gli storpi, le
persone che potessero ferire gli occhi di questo figlio che era stato educato a
vedere solo la bellezza. Dice la fiaba, il racconto che gli
dei si misero d’accordo e crearono dal nulla un vecchio. Quindi facendo questa
passeggiata in una carrozza meravigliosa attraverso la città, dove tutto doveva
essere perfetto, ecco che gli occhi del giovane Buddha incontrarono un uomo
deforme, capelli bianchi, rugoso: l’avevano creato gli
dei proprio per educarlo. “Ma chi sei? Chi è? – chiese all’auriga che conduceva
il cocchio velocemente – Chi è quest’uomo?”. Si accorse che esisteva la
vecchiaia. Ne fu talmente ferito che tornò nella sua reggia. Aveva scoperto il
tempo. Aveva scoperto che non si è sempre giovani. Aveva scoperto che l’uomo
bellissimo, che la donna bellissima diventano vecchi, invecchiano, e questa
cosa lo contristò enormemente. Dopo un lasso di tempo chiese di nuovo di
uscire. Nuovamente tutto spazzato... ma gli dei
intervengono e mettono sulla strada un malato. È interessante questa storia,
diciamo nel suo ordito, e quindi nuovamente il giovane Buddha dice: “Ma chi è
quest’uomo dal ventre gonfio che grida? Perché grida?”. È ammalato. Quindi
esiste la malattia che deforma i corpi, che deturpa anche un corpo giovane, che
sconvolge un equilibrio, che insinua un’energia di morte laddove la vita vuole
vivere. Avete già intuito, terza scena: torna di nuovo intristito, poi vuole
uscire di nuovo e gli dei gli mettono davanti un
cadavere. “Ma chi è - chiede – quest’uomo che è adornato di
gioielli, immobile su un catafalco e tutti piangono? Perché piangono se
è così ricco?”. E l’auriga deve rivelargli: “Era ricco, adesso gli manca la
ricchezza per eccellenza che è la vita”. Quindi il giovane Buddha scopre la
morte. Perché vi ho citato questa pagina di letteratura d’altra religione?
Perché in questo racconto, in una maniera molto semplice, ma anche concreta, viene messa dinanzi la scena delle tre limitazioni, cioè
parlare del limite: ma qual è questo limite? Il limite è il tempo (e quindi
l’invecchiamento), la malattia (abbiamo già i nostri acciacchi qui da
lamentare, una limitazione già adesso) e quindi la morte. Attenti! Le altre due
limitazioni non sono altro che una morte a piccole gocce, un istante che passa,
un anno che passa… Per questo certi compleanni a volte
hanno il sapore di una marcia funebre e a volte uno non vorrebbe festeggiarli,
ma vanno sempre festeggiati, anche quando sono 70 e 80. Il tempo che passa e la
malattia, il limite, anche nelle sue forme minime, quale può essere
un’influenza, un raffreddore, tanto più poi le realtà più drammatiche, sono una
piccola morte. Forse il verso “La morte si sconta vivendo” vale anche in questo
senso, cioè non è solo la morte conclusiva, ma è anche la morte di stasera, è
anche la morte di questa tarantella che è finita, ma è anche la morte di questa
esperienza che abbiamo condiviso e che adesso ci disperde ciascuno per la sua
vita, per la sua strada, per la sua missione. Ecco, questi sono i limiti e
quando noi parliamo di morte, noi non dobbiamo solo far riferimento alla morte
fisica, che null’altro è che la somma di tanti addendi legati al tempo, legati
alla malattia, legati alla delusione, legati al distacco, agli addii detti, ma
in questo senso noi siamo già morti e noi stiamo già morendo. E forse gli unici
che non muoiono più sono quelli che noi andremo a visitare, i cui resti andremo
a venerare al cimitero: loro hanno smesso di morire. Noi no, noi stiamo ancora
morendo, noi chiamiamo “morti” loro e “vivi” noi: è l’esatto contrario. Loro
sono vivi e non hanno più nulla da morire, noi stiamo ancora morendo.
Rondò
Op.127 (Raffaele Calace)
Vorrei ora brevemente - e questo ci aiuterà nel vivere
Romanza
S.P. Op. 134 (Raffaele Calace)
Molte cose di noi resteranno dopo di noi. Questo è un richiamo di
eternità nella nostra piccola esperienza umana. Vi dicevo, già qualche
riflessione fa, stiamo eseguendo, stiamo ascoltando – chiedo scusa del plurale
(la mosca stava sulle corna del bue e disse: “Stiamo arando”)
però “stiamo” nel senso che un concerto riguarda tutti - stiamo
risuscitando questi spartiti e quindi ne L’eterno
riposo che diremo alla fine c’entra anche il nostro Calace.
Il fatto che ci siano delle cose da noi prodotte che resistono oltre la nostra
morte è un’indicazione spirituale: se l’uomo può fare qualcosa che gli
sopravvive, allora anche ad una riflessione molto semplice,
molto terra-terra, c’è nell’uomo un’esigenza d’eternità scritta nel
codice genetico. D’altra parte, se noi dovessimo fare le cose col pensiero
della morte, di cui ho detto all’inizio (quello negativo), non faremmo nulla,
cioè la morte diventa un elemento frenante, in senso negativo, invece può
diventare un eccitante della vita, nel senso bello del termine, perché ci porta
a produrre e a lanciare messaggi oltre noi. Questo vale anche per le cose
piccole: hai costruito una casa?, hai edificato una
casa? Ti sopravviverà. Hai comprato un diamante? “Il diamante è per sempre”
dice la reclamistica, per regalare un brillante alla moglie: “Il diamante è per
sempre”. Tante cose parleranno di noi quando noi non
ci saremo più. Adesso voi siete venuti qui “In punta
di piedi in Episcopio” che è pensata anche, come vi ho detto all’inizio, due
anni fa, perché questi ambienti siano condivisi. “Il vescovo che ci fa in tutte
quelle sale, lui solo?”. Il vescovo vi ha invitati e questo adesso è un modo
per condividere questo ambiente che è anche vostro, anzi soprattutto vostro, ma quante persone hanno dimorato qui?, hanno
abbellito queste stanze, hanno fatto degli stucchi, hanno ordinato delle porte,
hanno … e non ci sono più, nel senso della percezione visibile, ma sono qui:
queste cose sono andate oltre loro. Qui ci sono oggetti di due, tre, quattro,
cinque secoli fa, commissionati, quindi anche le cose più semplici dicono di
un’esigenza che l’uomo ha di eternità. Questo poi nell’arte, nella produzione
artistica raggiunge il top, perché se oltre a fare una porta o una sedia, o a
costruire una casa, tu sei riuscito, per dono di Dio ovviamente, ad avere anche
un’impronta creatrice e artistica ecco che quello spartito, quella statua, quel
quadro, quel palazzo sarà ammirato da generazioni e generazioni e ti sopravviverà addirittura per un millennio. Cos’è questo? È
un’ironia terribile a dire che le cose vivono più a lungo dell’uomo che le
produce? Sarebbe una lettura negativa, pessimistica. Invece è il fatto che
nell’uomo è depositato il segno dell’eternità. L’amore è sempre “per sempre”:
anche quando dovesse finire, parte con questa
connotazione. “Ci promettemmo il sempre degli amanti” dice Alda Merini in una
poesia che si chiama Lettere. Ma forse non c’è anche in questo “sempre degli
amanti” una stilla di eternità? Come vedete, l’eternità è il senso che la
nostra vita va ben oltre questi pochi giorni, questa manciata di giorni che noi
viviamo. È una percezione molto forte che è preesistente anche alla rivelazione
cristiana del senso della vita. Tra un po’ ascolteremo un pezzo fuori programma
del pianista, composto da lui. Auguriamo a Nunzio che
ci sia in questo spartito quel quid che rende uno
spartito non un semplice spartito, ma un’opera d’arte e l’opera d’arte è
patrimonio dell’umanità e può essere suonata per decenni, per secoli dopo di
noi. In altri termini: siamo eterni. Siamo per l’eternità, non siamo per la
morte.
Bolero Op. 26 (Raffaele Calace)
Con questo Bolero ci congediamo da Raffaele Calace,
anche se continua ad essere presente nella nostra preghiera. Vorrei prendere
spunto dalla piccolezza del mandolino per incoraggiare quelli fra voi che hanno
liquidato la mia precedente suggestione, dicendo: “Sì, però noi non siamo
artisti! Sì, ma noi siamo povera gente: a stento siamo riusciti a mettere su un
appartamento. Di noi non resterà nulla”. Non so se avete mai visto quanto sia
piccola la tastiera del mandolino - si chiama così, come per la chitarra -
quanto sia piccola. Probabilmente a conclusione potete anche vedere. Voi forse
con un dito riuscireste a coprirla tutta, mentre il nostro concertista va
danzandovi e creando melodie: non c’è piccolezza che non possa diventare opera
d’arte. È bello anche stasera vedere il mandolino assurgere, almeno per tanti
di noi che non l’avevano visto in questa veste, a
strumento da concerto. Non c’è vita così piccola, esperienza così semplice da
cui non poter trarre un’opera d’arte. Posso avere un pianoforte a coda, o un
organo, re degli strumenti, un organo a canne, con diecimila canne!, ma non so suonare. Voglio dirvi che qui l’importante non
è lo strumento, piccolo, grande, una vita meravigliosa, una piccola vita. Chi
vuoi che si renda conto dei fiori che ho messo sul balcone, del canto che io
posso modulare? Non è nella piccolezza il pericolo, è nella banalità. Il vero
pericolo è la banalità, è la banalità che uccide l’arte. Una persona banale da
un grande strumento non riuscirà a tirar fuori nulla. Un artista da un piccolo
strumento saprà produrre, saprà trarre un’opera d’arte. Vuole essere un
incoraggiamento perché a volte questi discorsi sembrano riguardare solo le
persone eccellenti, quelle che superano i primati, quelle che sono al di sopra
della norma. No, quello che sto dicendo vale per tutti, anche per la persona
più semplice tra voi, tra noi che stasera dice: “Sono un mandolino piccolissimo?, una tastiera che a guardarla dal fondo della sala neanche
si vede?”. Bene, l’importante è l’amore che tu poni in quello che tu sei, in
quello che tu fai, nella giornata che adesso comincia e che adesso finisce: è
l’amore che rende bella, avvincente, da trasmettere, da raccontare, una
semplice vita. Credo che questo sia anche il modo più bello di
ricordare i nostri defunti che non credo - i defunti che andremo a ricordare in
questi giorni (speriamo non solo in questi giorni) - abbiano lasciato
testamenti miliardari o composto romanze e rondò e bolero… Magari mio padre,
tua madre, tuo marito non ha lasciato… ma se ci fai caso ha vissuto
semplicemente col suo mandolino, col suo piccolo strumento. Mi piace dare
questa definizione (spero che il concertista mi perdoni): un Parkinson ad arte.
Non so se qualcuno ti ha mai dato questa… un Parkinson finalmente che assurge
ad arte. Bene, anche se sono un mandolino, l’amore può trarre da questo piccolo
strumento una melodia meravigliosa.
Valtzer
Fantastico (Enrico Marucelli)
L’autore di questo brano, di questo Valtzer
Fantastico - spero abbiate fatto i conti come me - ha vissuto solo trent’anni. L’importanza di una vita non sta nella sua
durata. A volte pensiamo che sia importante vivere a
lungo: è importante vivere bene, è importante vivere intensamente, è importante
vivere con amore. Basta anche un giorno, addirittura. E questa è una
preoccupazione mia, tutta mia: a volte una lunga vita, può portarci a demolire
quello che abbiamo costruito, a smentire nell’ultima parte quello che abbiamo
affermato nella giovinezza, nella maturità. Voglio dirvi: questo fatto di
augurarci di vivere cent’anni proprio non credo che
sia il top, anche guardando come vivono gli anziani, e a quante difficoltà
vadano incontro. Certamente non dobbiamo scegliere noi i giorni della nostra
vita, sono già segnati, il Signore sa quanto vivrò, quanto vivrai, ma quello
che è importante chiedergli stasera, davanti a questa riflessione sulla
finitudine, nel ricordo dei defunti in questa Halloween che abbiamo
ribattezzato, che abbiamo riportato nel suo alveo, è non voler vivere tanto, ma
nel voler vivere bene. Questo dipende da te. Se questo Valtzer
Fantastico ci viene da un autore che abbiamo risuscitato
in quest’istante che ha vissuto solo per trent’anni
ed ha prodotto questo ed altre opere - questo era veramente virtuosistico nelle difficoltà esecutive - tanto più in una giornata io
posso dare il meglio di me. Allora questo ci distende, ci snebbia dalla
preoccupazione che comunque dobbiamo investire nel tempo. Lasciamo che sia Dio
- per fortuna non decidiamo noi - che sia Lui a dire “Ritornate figli
dell’uomo” dice il Salmo
Isole
(Nunzio Salierno)
È giunto il momento di dire grazie. Grazie rispetto a quest’ultima
suggestione di dondolio delle onde che ci hanno dolcemente portato ad approdi.
Io spero - e lo chiedo al Signore, ovviamente chiudendo - che abbiate trovato vari approdi, durante questo tempo che siamo
stati insieme, una parola dove gettare l’ancora, dove collegarvi per non colare
a picco, un ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà, una sorta di sintesi
intorno a questo termine “finitudine” su cui abbiamo intessuto parole e note.
Ti ringraziamo, Signore, per questo momento. Grazie per quello che tu hai
operato al di là di ciò che noi stessi avevamo progettato. Grazie per la pace
che ha preso il volo e ci ha condotti in
più spirabil aere. Grazie perché ci hai fatto
comprendere come questa brevità della vita ne è la vera ricchezza. Un padre
della Chiesa ricorda che la morte è un dono per chiudere con il peccato e il
limite. Il Cardinale Martini aggiunge che la morte è l’esperienza in cui ci
affideremo completamente a Te, Signore, senza più paura. Grazie per queste
suggestioni, grazie per la speranza che hai acceso o rinfocolato nel nostro
cuore. Avendo vissuto questa preghiera nel ricordo dei defunti, ovviamente
utilizziamo la preghiera classica per questi autori, per i nostri defunti, per
tanti che ci verranno incontro in questi giorni.
L’eterno riposo…
Benedizione del Vescovo
Capriccio
Spagnolo Op. 276 (Carlo Munier)
***
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.