DIOCESI
DI TEANO-CALVI
“In punta di piedi in Episcopio”
Meditazioni di
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
Peccato e redenzione ne
“I promessi sposi”
Teano, 5 marzo 2009
~
Concerto di musica New Age
per piano (M° Maria Teresa Roncone)
e virtual orchestra del M°
Francesco Gravina.
~
Iniziamo
questa nostra piccola esperienza come sempre, mettendo insieme riflessione,
preghiera e arte. Ringraziamo il Maestro Francesco Gravina che ci propone, come
avete visto dal foglio, un repertorio di brani contemporanei un po’ New Age, con un impasto di pianoforte dal vivo e orchestra
virtuale che egli stesso ha provveduto a registrare. Ci sono - come avete visto
dal programma - alcuni brani anche di Francesco, firmati da lui. Ci disponiamo
all’ascolto. Ringraziamo il Signore per questa “pausa” e iniziamo.
Nel nome del Padre…
Guardando il mare – Francesco Gravina
“Peccato
e redenzione ne I promessi sposi” potrebbe essere il
tema di una conferenza, ma il genere letterario che ci tiene insieme è altro,
per cui si tratterà di sollecitazioni. Vorrei anche leggere alcuni brani in una
maniera diffusa. Forse potremmo anche limitarci alla lettura: i brani de “I
promessi sposi” sono intrisi di fede, della fede del Manzoni, anche della fede
di un secolo, e quindi già da soli bastano ad innescare una serie di
riflessioni. Prima di entrare nel merito, noi esamineremo i capitoli della
notte dell’Innominato e dell’incontro con il Cardinale Federigo. Perché ho
scelto questo tema? Perché al centro della Quaresima c’è questo tema: noi
perché siamo entrati in Quaresima? Cosa intendiamo celebrare? Cosa ci muove?
Cosa muove
Romancing time – Yuhki Kuramoto
Voglio
fare insieme con voi un esperimento di lettura corale, cioè torniamo a leggere
“i grandi”. Adesso vi leggerò il tormento dell’Innominato. Riassunto delle
puntate precedenti: Renzo e Lucia si dovevano sposare, poi i bravi fermano don
Abbondio in maniera intimidatoria; i due cercano di fare il Matrimonio davanti
a don Abbondio senza che egli ne sia a conoscenza (è la notte degli imbrogli),
poi scappano, l’“Addio ai monti” di Lucia, poi don Rodrigo, il signorotto che
ha adocchiato la giovane Lucia, non certamente per recitare un Rosario con lei,
incarica questo masnadiero, questo mafioso – ecco, utilizziamo questo termine –
questo mafioso dell’epoca per rapire Lucia e quindi portare a compimento il suo
piano di male. Siamo arrivati al punto in cui l’Innominato, quest’uomo che si è
macchiato di tutti i crimini, che non ha nessun sentimento di compassione, ha
rapito Lucia ed è rimasto colpito, nell’incontro con lei, dalle parole di
lamento e di richiesta di liberazione. In particolare lo ha colpito questa
frase: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. A questo punto
diamo la parola al Manzoni. Lucia si addormenta dopo aver fatto il voto di
castità purché sia liberata: ha indossato, a mo’ di atto di consacrazione, la
corona come una collana e stranamente si è addormentata.
Ma c'era qualchedun altro in
quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai.
Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una
consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva
nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era
andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se
avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in
furia, era andato a letto. Ma quell'immagine, più che mai presente, parve che
in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla? Ha ragione
quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo,
io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne
strillano? Strillano anche gli uomini alle volte,
quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho
mai sentito belar donne?" E
qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da
sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano
punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la
rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli
mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta pietà;
vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento.
Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di
Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È
viva costei, - pensava, - è qui; sono a tempo; le posso
dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche
dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono?
a una donna? io...! Ah, eppure! se
una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di
questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A
che cosa son ridotto! Non son
più uomo, non son più uomo!...
Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel
letto divenuto duro duro,
sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi son
passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".
E per farla passare, andò
cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che
solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò
nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte
stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di
desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non voleva più andare avanti.
Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece
d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel
momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto
d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie
intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che
gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella
fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno
di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra
loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera
fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella
poverina.
"La libererò, sì;
appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò
accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante
d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta
lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un
tratto, sorgeva come a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni
per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender
l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice
sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in
quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare
a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una
deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a
sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il
tormentato esaminator di se stesso, per rendersi
ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita.
Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue,
di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e
nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta
volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano
allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla
disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete
accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una
vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da
un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure
continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con
raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa
del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno
dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove.
Immaginava i discorsi che se ne sarebber
fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi
nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di
spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno,
all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in
queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza
convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un
altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero
ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non
c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa?
è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra
vita...!"
A un tal dubbio, a un tal
rischio, gli venne addosso una disperazione più nera,
più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur
con la morte. Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli,
battendo i denti, tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che
aveva sentite e risentite, poche ore prima: "Dio
perdona tante cose, per un'opera di misericordia!" E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui
erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva
una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle
tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei
da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera,
non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni.
Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla
bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui
stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il
resto della giornata? che farò doman
l'altro? che farò dopo doman
l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici
ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto
nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un
impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva
d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva
che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di
ripigliar l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio
passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo
vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo
sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco,
appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco
che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi
all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so
che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e
dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva
languidamente il concento, e si confondeva con esso.
Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino,
anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno
di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi
a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che
nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a
poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente
che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa
parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e
con un'alacrità straordinaria.
"Che
diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo
maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?"
E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli
domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto
lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il
signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno,
raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di
casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un
viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una
gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane,
quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti,
e il supplimento delle parole che non potevano
arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che
curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta
gente diversa.
Meditation – Yuhki Kuramoto
Qui ci
sarebbe bisogno di attori per dare anima a queste parole che sono un film,
prima ancora che si potesse trasferire sulla scena, con i volti,
quest’alternanza di emozioni. Il Manzoni nella notte dell’Innominato ha voluto
consegnarci un monumento al tormento: un uomo tormentato che alterna
sensazioni opposte e si sente trascinato da quello che ha fatto, quindi
dall’uomo vecchio. Questi cambiamenti, questo aprirsi al nuovo è doloroso; in
fondo - ci dice il Manzoni, come tutti gli autori spirituali - non è che tu
cambi, un bel giorno, e tutto questo avviene con i fiocchi, i fiocchettini, i
fiorellini… No, la realtà è molto più controversa, perché non c’è bene che in
qualche maniera non nasca da un tormento e non c’è male che si concluda, che,
in qualche maniera, non chieda una sorta di sofferenza: qui abbiamo un uomo che
si contorce da solo con i suoi fantasmi. Da un lato c’è l’Innominato, con
quello che ha fatto fino adesso: un uomo truce, un uomo che non si è mai
commosso. Tra poco vedremo, dopo tanti anni, scorrere le lacrime dai suoi occhi
davanti al Cardinale Federigo: non piangeva da quando
era bambino. Dall’altro abbiamo quest’uomo che comincia a ipotizzare una
possibilità diversa di vivere, una concezione diversa di vivere e quindi un
modo diverso di vivere. Questi due eserciti si fronteggiano e fanno guerra
senza risparmio. Non a caso il Manzoni ha ambientato questo in una notte,
perché non è solo una notte fuori, ma è la notte nel cuore dell’Innominato. Tra
l’altro, questa non è neanche la notte, ma è lo sposarsi delle tenebre con la
luce, momento in cui comincia ad albeggiare: vincerà la notte o il giorno?, vincerà il buio o la luce?, vincerà l’uomo vecchio o
l’uomo nuovo che sta per nascere? Questo monumento al tormento della
conversione, credo abbia tanto da insegnarci, quindi diffidiamo di conversioni
facili, diffidiamo di propositi di Natale, letterine di Natale, di Pasqua di quando eravamo bambini e invece fraternizziamo con questa
alternanza. Come avete ascoltato e conoscevate già bene dalle esperienze
scolastiche, continuamente l’Innominato passa da “voglio cancellare l’immagine
di Lucia” (quindi Lucia adesso sta per questa modalità nuova: “Dio perdona
tante cose per un’opera di misericordia” quindi “c’è ancora speranza per me”)
al tornare alla sua vita turpe. Ad un certo punto c’è anche la scena della
pistola, con la sofferenza che raggiunge un livello così alto, tanto da fargli
decidere il suicidio, ma poi pensa al suo corpo che sarà ritrovato, ai nemici
che godranno e poi si chiede: ma dove andrò? Che sarà? E questa vita eterna di
cui parlano i preti, è vera o se la sono inventata? E se è vera, quello che io
sto facendo qui, avrà un’eco. Se non è vera - come anche Paolo stesso dice - se
Cristo non è risorto allora mangiamo e beviamo, perché poi dopo non c’è più
niente, quindi godiamoci la vita. C’è una regia, in queste parole che avete
ascoltato, bellissima ed è quando siamo sul crinale e
diciamo: ma da che parte cadrà? Dalla parte dell’uomo vecchio o dalla parte
dell’uomo nuovo? Chi vincerà? Ecco che un elemento esterno viene ad attirare la
sua attenzione e non a caso è il suono di campane. C’è, se volessimo
leggerla, una trama pasquale, da triduo pasquale in questo capitolo della
notte, perché ci sono le campane che annunciano una festa, annunciano una
venuta (poi scoprirà che è la venuta del Cardinal Federigo, arcivescovo di
Milano che visita questo paese). Il brigante, che ha mandato per chiedere cosa
sta avvenendo, perché c’è tutto questo movimento, viene a dire: è arrivato il
cardinale ieri e questa nuova, questa notizia si è diffusa e tutti adesso
stanno andando da lui per la celebrazione. C’è un ordito pasquale, c’è un uomo
morto e tra poco ci sarà la resurrezione. Ma attenti: non c’è resurrezione
senza morte. Quindi anche questa sorta di tormento che noi viviamo
continuamente - certamente non con toni drammatici, perché nessuno di noi
(grazie a Dio) ha vissuto come l’Innominato; ma nel nostro piccolo, anche noi
con le nostre angosce, i nostri timori, i nostri rimorsi… - questa sofferenza è
benefica, perché all’atto in cui tu non dovessi provare più rimorso, è finita.
Noi ci troviamo già, da un punto di vista culturale, in quest’epoca che viene detta amorale, non immorale, perché uno per essere
immorale deve avere una moralità, cioè deve contravvenire a delle norme morali,
qualsiasi esse siano. Invece, dicono gli studiosi, noi ci troviamo in un tempo
di amoralità, dove sembra non esserci più posto per il rimorso e questa è una
cosa tragica. È più tragica delle colpe che dovrebbero provocare il rimorso,
perché il rimorso è segno di vita. In fondo, noi vediamo qui, attraverso le parole
del Manzoni, un bambino che vuole nascere, assistiamo ad un parto ed un parto
avviene nel dolore. Ma se non c’è rimorso, allora stiamo cadendo nell’abulia
più terribile e ciascuno di noi, uscito di qui, può commettere i delitti più
efferati “senza punto” – direbbe il Manzoni – dolersene, cioè senza avvertire
niente. È il caso, per esempio, di questi fatti di cronaca efferati dei giovani
che hanno ucciso i genitori e vanno in discoteca. Vedete, questi non sono
immorali, sono amorali. Di più: sono anche anaffettivi,
si dice, cioè hanno fatto una bravata. Punto e a capo. Magari si saranno anche
divertiti in discoteca e il rimorso dov’è? Cercasi rimorso. Noi abbiamo sempre
dato a questo termine una connotazione negativa e invece il rimorso ha la
stessa connotazione positiva del dolore: il dolore è segno di vita. Se io sento
dolore, significa che io sto bene. Non è vero che il dolore significa che sto
male; sto bene, perché quando tu non sentirai più dolore, sei a un passo dalla
morte. Ho insistito un tantino su questo concetto, perché credo che oggi vada
un po’ “attizzato” il rimorso, non per schiacciare, ma perché è redentivo, è
evolutivo, è generativo, ma se non sentiamo nulla allora veramente siamo morti,
siamo già morti. Chiudo con un ricordo personale. Padre Gianni Giorgianni, che
era un romanziere, un gesuita romanziere, giornalista di Radio Vaticana,
ricordo che ad una conferenza citò questo passo delle persone che andavano
verso la chiesa dove il cardinale avrebbe officiato, per raccontarci quello che
lui vedeva, in giro per il mondo, per le visite di Giovanni Paolo II. Ricordo
che, senza dire da dove citava, cominciò a dire:
Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno,
raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di
casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un
viaggio convenuto. Gli
atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo
non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine,
pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle
parole che non potevano arrivar lassù.
Poi
quando chiuse la citazione: “Avete riconosciuto? Manzoni”. Per dire: io vedo
continuamente queste cose. Poi chi abbia assistito, sia
andato, sia entrato in uno di questi fiumi, che vanno rimpolpandosi sempre più
lungo le vie per una celebrazione papale, sa come effettivamente questa
descrizione di persone che si accompagnano e che via via
si accorpano e diventano folla fino a
diventare marea, sono una mirabile descrizione anche degli incontri del
Papa. Ma questo è un memoriale personale di questo autore. Chi fra voi ami i
romanzi può riesumare questo romanziere poco conosciuto, morto non più di dieci
anni fa: Padre Gianni Giorgianni. Ci fermiamo qui. Scusate se magari vi ho
fatto venire qualche senso di colpa, ma non è il senso di colpa che va
ridestato: va ridestato il rimorso, è diverso. Il senso di colpa è un fatto
psicologico, a volte anche deleterio. Invece il rimorso è questo struggimento,
questa sofferenza interiore che dice: “Non mi piace quello che faccio, quello
che ho fatto”.
Sensazioni
– Francesco Gravina
Questo
brano meraviglioso che abbiamo ascoltato, che Francesco non solo ha eseguito ma
che ha anche composto, ci introduce bene in questo “trattato sulla
misericordia”, il capitolo XXIII de “I Promessi Sposi” (ve l’ho messo sul
foglietto, però gradirei che lo ascoltaste, altrimenti il solo fatto che girate
il foglietto mi distrae e ci distrae). Ha mandato uno dei suoi a chiedere: “Ma
che vanno a fare? Che vanno a vedere? Un uomo? Ma che può fare un uomo? Può
dare qualche elemosina… Che parola ha da dire?”. Ad un certo punto gli viene
questa risoluzione, chissà da dove, di recarsi anche lui a chiedere qualcosa. Avrà
lui qualcosa da dirgli, perché poi si chiede: “Che gli vado a dire? Avrà lui
qualcosa da dirmi, visto che tutta questa gente va colma di beatitudine ad
ascoltarlo”. Conoscete anche la scena - ve la risparmio - dell’Innominato che
entra nella sala laddove ci sono i preti raccolti che immediatamente… una serie
di mormorii, perché lo riconoscono, perché sanno che è il “camorrista” della
zona. Poi il cerimoniere, per così dire (qui il Manzoni dice il “crocifero”),
il cappellano crocifero è costretto ad andare a dire a Federigo: “C’è
l’Innominato in anticamera”. Immediatamente il cardinale si riprende dai suoi
studi, chiude il libro, si rianima: “Fallo entrare!”. Ma il
segretario ha tante obiezioni da fargli: “Ma forse lei non sa…”, ed è
rimproverato aspramente perché Federigo dice: “Ma San Carlo cosa avrebbe
fatto?” (È il cugino santo che lo ha preceduto sulla cattedra di Ambrogio).
Quindi semplicemente vi leggerò, perché è il caso che ascoltiamo. Commentiamo
poi nel prosieguo. L’Innominato è appena entrato nella sala.
Appena introdotto
l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e
con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al
cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero
alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L'innominato, ch'era stato come
portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un
determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni
opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al
tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come
un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a
implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli
occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di
venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il
dispetto, e senza prender l'orgoglio di fronte, l'abbatteva, e, dirò così,
gl'imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la
fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente
maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace,
la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni
dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza
verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata
quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni e
benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia
continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi,
bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della
porpora.
Tenne anche lui, qualche
momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo penetrante, ed
esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel
fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme
alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal visita,
tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e
quanto vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia
un po' del rimprovero!
- Rimprovero! - esclamò il
signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento
che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
- Certo, m'è un rimprovero,
- riprese questo, - ch'io mi sia lasciato prevenir da
voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.
- Da me, voi! Sapete chi
sono? V'hanno detto bene il mio nome?
- E questa consolazione
ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io
dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Siete voi che me
la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto
amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de' miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che
avrei più desiderato d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo
sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza,
alla lentezza de' suoi poveri servi.
L'innominato stava attonito
a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto
risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire;
e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? - riprese, ancor più
affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate
tanto sospirare?
- Una buona nuova, io? Ho
l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual
è questa buona nuova che aspettate da un par mio.
- Che Dio v'ha toccato il
cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il cardinale.
- Dio! Dio! Dio! Se lo
vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?
- Voi me lo domandate? voi?
E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in
cuore, che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo
v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una
consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo
confessiate, l'imploriate?
- Oh, certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se
c'è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un
tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua
bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il
mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le
vostre opere... - (l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel
sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne
sdegno, anzi quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne
viene a Dio? Son voci di terrore, son
voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una giustizia così
facile, così naturale! alcune forse, pur troppo,
d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi,
deplorabile sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la
vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio
sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia
dirvi fin d'ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta
imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza,
di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi
pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che
Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E
perdonarvi? e farvi salvo? e
compire in voi l'opera della redenzione? Non son cose
magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io
omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi
struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è
testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m'infonde
questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi
comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne
spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta
e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una
commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più
non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le
parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e
diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta.
- Dio grande e buono! -
esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che ho mai fatto io,
servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di
grazia, perché mi faceste degno d'assistere a un sì giocondo prodigio! - Così
dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato.
- No! - gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano
innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete
stringere.
- Lasciate, - disse
Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà
tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata,
pacifica, umile a tanti nemici.
- È troppo! - disse,
singhiozzando, l'innominato. - Lasciatemi, monsignore; buon Federigo,
lasciatemi. Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone, tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una
volta, per sentirvi: e voi vi trattenete... con chi!
-
Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul
monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita.
Quell'anime son forse ora
ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha
operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse
una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi
senza saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori
un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'esaudisce per voi, un
rendimento di grazie di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto -. Così
dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato; il quale, dopo aver tentato
di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell'impeto di
carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull'omero di lui il suo
volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora
incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano
affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.
Photo juanie – Andre Gagnon
Chiunque
fra voi – qui ci sono alcuni insegnanti – in classe (ma
non sempre è l’ambiente ideale per questi commenti), abbia tentato un commento
a questo capitolo, credo abbia incontrato non poche difficoltà. Noi avremmo
potuto anche semplicemente leggere e forse bisogna tornare a queste letture corali, aperte,
perché non si legge più. Enucleiamo alcuni punti al di là della sinfonia: è
come prendere una nota da una sinfonia, quindi la si
impoverisce. Innanzi tutto questo senso d’accoglienza, di paternità, di
sacramento del cuore del padre che il Manzoni dipinge, che raffigura nel cuore
del cardinale Federigo, che dovrebbe essere il cuore di ogni vescovo, di ogni
parroco, ma anche di ogni uomo e di ogni donna. Un senso che ha un aggettivo,
“magnanimo”, o un sostantivo, “magnanimità” che significa avere cuore grande:
spesso noi incontriamo persone col cuore gretto, dove basta uno sbaglio e
allora sei bocciato per tutta la vita, per tutti i secoli dei secoli, e sei
mandato all’inferno. Non è questo il Vangelo, non è questo il Cristianesimo,
non è questo ciò che
Riflessioni – Francesco Gravina
Andiamo
verso la fine. Grazie a Francesco per questo tocco così dolce e anche per
questa vena un po’ di nostalgia che viene fuori dalle
sue composizioni: è una nostalgia bella. Anche questa melodia aveva questo
accento. Nostalgia di chi?, di che cosa? Nostalgia di
quella misericordia, di quell’amore che in queste pagine del Manzoni – il
Vescovo spera di avervi fatto venire la voglia di riprendere “I Promessi Sposi”
che fanno sempre bene, anche alla lingua italiana –, che in questi capitoli
abbiamo visto rappresentata in una maniera magistrale. L’ultima parola la dico
su di me, su di voi. Prima ho sottolineato quello che noi dobbiamo essere per
gli altri, ma adesso chiudiamo dicendo stasera: sentiti accolto, sentiti
accolta da Dio che “ha sì gran braccia”, dice Dante nella Divina Commedia.
Anche quelli – vedi Manfredi – che stanno nel numero dei cattivi e quindi nei
dannati vale a dire che non è così, che siamo salvi anche noi. Andiamo a letto
stasera con la percezione che il nostro passato è nelle mani di Dio
trasformato. Mi riferisco al nostro passato negativo, è chiaro. Quello positivo
è potenziato, perché vi ritroveremo tutto, ma per quelle cose che abbiamo
sentito o sentiamo ancora oggi rimorso, magari sarà un rimorso dolce come la
nostalgia, la tristezza di certi accordi e di certi fraseggi musicali che
abbiamo ascoltato da Francesco: la percezione d’essere stati perdonati è un
grande dono. Anche nel testo che vi ho letto, il Manzoni fa dire a Federigo: ma
tu pensi d’aver potuto fare qualcosa di più grande della misericordia di Dio?
Illuso! Riesci a fare qualcosa di male che Dio non può vincere col bene?
Illuso! Perché questa è una mania di grandezza: significa che tu sei più grande
di Dio. Se noi potessimo fare un male che frena Dio,
saremmo nel male più grande di quanto egli non lo sia nel bene, ma è un
assurdo. Per cui qualsiasi siano le cose che ci pesano
sul cuore, sono le marachelle dei bambini. Chiudo con questa immagine: ai bambini
a volte si dà anche un rimprovero cercando di mantenere serio il volto, ma poi
ci giriamo e facciamo un sorriso. Ma questi sono i nostri peccati, cari
fratelli e sorelle. Quindi posso ricostruirmi, ricompattarmi,
posso evolvermi in bene, posso recuperare. L’Innominato, anche se è un romanzo,
recupererà e comincerà da Lucia, scandalizzando ovviamente i preti, e
scandalizzando anche il buon don Abbondio che è chiamato dal cardinale (perché
è il parroco della ragazza); come Anania nella conversione di Saulo e come
tanti ecclesiastici brontolerà. Dice il cerimoniere: “Lo
sapete: questi santi fanno sempre di testa loro”. Per fortuna! Per
fortuna i santi fanno sempre di testa loro, perché Dio fa di testa sua e non
giudica con la nostra piccola testa e con le nostre grettezze. Coraggio… Il
centro del Vangelo è il peccato redento, è la notte che è vinta dal mattino di
Pasqua. Così cominciamo a prendere forza: ne riceveremo anche domenica prossima
dal racconto del Vangelo della Trasfigurazione. Ascoltiamo l’ultimo brano e poi
potete fare anche un applauso e ringraziare Francesco che non solo ha portato
qui la sua maestria, ma ci ha messo a disposizione anche un’orchestra. È
scritto “virtuale”, ma è importante che ci sia sempre
la mente dell’uomo, perché se fosse solo virtuale – ahimè! - avremmo da
ritenerla falsa, ma poiché è pensata dall’uomo ed è messa insieme con la musica
dal vivo, allora ben venga anche un’orchestra virtuale.
Vento d’autunno – Francesco Gravina
Concludiamo
con la benedizione perché non abbiate a tornarvene a mani vuote.
Benedizione
del Vescovo
Buona
serata. Il prossimo appuntamento è il primo aprile: non è un pesce d’aprile…
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Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.