DIOCESI DI TEANO-CALVI

“In punta di piedi in Episcopio”

 

Meditazioni di

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

 

Peccato e redenzione ne

“I promessi sposi”

 

Teano, 5 marzo 2009

 

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Concerto di musica New Age

per piano ( Maria Teresa Roncone)

e virtual orchestra del Francesco Gravina.

 

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Iniziamo questa nostra piccola esperienza come sempre, mettendo insieme riflessione, preghiera e arte. Ringraziamo il Maestro Francesco Gravina che ci propone, come avete visto dal foglio, un repertorio di brani contemporanei un po’ New Age, con un impasto di pianoforte dal vivo e orchestra virtuale che egli stesso ha provveduto a registrare. Ci sono - come avete visto dal programma - alcuni brani anche di Francesco, firmati da lui. Ci disponiamo all’ascolto. Ringraziamo il Signore per questa “pausa” e iniziamo.

Nel nome del Padre…

 

Guardando il mare – Francesco Gravina

 

“Peccato e redenzione ne I promessi sposi” potrebbe essere il tema di una conferenza, ma il genere letterario che ci tiene insieme è altro, per cui si tratterà di sollecitazioni. Vorrei anche leggere alcuni brani in una maniera diffusa. Forse potremmo anche limitarci alla lettura: i brani de “I promessi sposi” sono intrisi di fede, della fede del Manzoni, anche della fede di un secolo, e quindi già da soli bastano ad innescare una serie di riflessioni. Prima di entrare nel merito, noi esamineremo i capitoli della notte dell’Innominato e dell’incontro con il Cardinale Federigo. Perché ho scelto questo tema? Perché al centro della Quaresima c’è questo tema: noi perché siamo entrati in Quaresima? Cosa intendiamo celebrare? Cosa ci muove? Cosa muove la Chiesa? Cosa si impasta nelle nostre parrocchie, nelle celebrazioni, nelle catechesi, nelle Viae Crucis e in tutto quanto appartiene all’armamentario quaresimale? Null’altro che il cuore del Vangelo. Se io vi chiedessi: qual è il cuore del Vangelo? Se tu, ad una persona del tutto sprovveduta, dovessi dare delle indicazioni di partenza, per dire: il Cristianesimo è…, il centro della nostra fede è…, il fulcro del vangelo è…, a cosa ti riferiresti?, cosa diresti?, che sintesi offriresti immediatamente in una maniera anche semplice, al tuo interlocutore? La risposta è una sola: il centro del Vangelo è l’annuncio della misericordia. Dopo vengono i precetti, gli impegni, il “devo”, ma  – questo ve lo dico perché a volte ci perdiamo in tanti corollari perdendo di vista il messaggio centrale – Gesù è venuto per dire: voi avete un Padre (quindi non siete orfani) che vi ama a tal punto da mandare Suo Figlio che viene a cancellare tutto quello che è stato. Questo vale per il mondo, vale per la storia, ma vale anche per ciascuno di noi, perché la difficoltà del vivere (la nostra difficoltà) è portare i pesi, è saper portare i pesi. Quelli fra voi che sono educatori, genitori, insegnanti, debbono aver chiaro che il compito di chi insegna è aiutare i giovani a portare i pesi, cioè ad affrontare difficoltà, a non lasciarsi schiacciare dagli errori fatti, dagli errori della storia, dalle difficoltà, dalle prove. Quindi, come vedete, quello che è il cuore del Vangelo è anche l’impegno d’ogni persona che abbia a cuore un’altra persona: sia essa il marito, la moglie, i figli, gli alunni. Noi prima o poi (più prima che poi) veniamo a contatto con i nostri limiti. Non esiste, tra i pazienti ascoltatori dell’ “In punta di piedi in Episcopio”, una persona che non abbia di che dolersi, io innanzi tutto. Allora ci sono tanti modi per reagire a questi fallimenti: la rimozione, far finta di niente, ma come sapete non è il modo più intelligente per affrontare i pesi, per portare i fallimenti. Anche da un punto di vista umano, psicologico, noi siamo chiamati ad affrontare le situazioni e a chiamarle per nome: “Io ho fatto questo” (c’è una pedagogia nella Confessione enorme!), cioè assumersi delle responsabilità, anche chiamare le cose col loro nome. Questo fatto che a noi sembra oppressivo (“Ma perché devo andare a raccontare le mie cose ad un altro?”) in effetti è un’esperienza liberante ed è un’esperienza di alleggerimento. Ciò di cui tu non conosci il nome è ciò che ti angoscia di più. Se io penso d’esser malato, finché il medico non mi dice “Tu hai un cancro” (per dire la cosa più grave), questa frase “Tu hai un cancro”, che a noi sembrerebbe una sorta di condanna, in realtà è salutare rispetto a “Chissà cosa ho… Chissà che malattia ho contratto… Che nome dare a questi sintomi?”. Come vedete, ho allargato un tantino il tema per dire la stessa cosa: il cuore del Vangelo è il vangelo della misericordia, l’annuncio della misericordia, quindi la buona notizia della misericordia di Dio che ha degli effetti liberatori per noi, perché tutti, prima o poi, andiamo incontro a immagini di noi che si frantumano, immagini ideali (io penso d’essere un santo, io penso d’essere una persona integra…): prima o poi, in un senso o in un altro, tu ti confronti con il marcio che è in te. La Quaresima ha questa grande pedagogia (che purtroppo si è rivestita di manti piuttosto funerei, tenebrosi), ha questo annuncio di liberazione: chiama il male che è in te col suo nome e ne sarai liberato. Ovviamente questa è la versione psicologica: noi diciamo che ne sarai liberato all’atto in cui tu questo male lo affidi a Gesù che è venuto a pagare per te. Ho voluto fare questa introduzione perché altrimenti anche la lettura del tormento della notte dell’Innominato con la redenzione, l’incontro col Cardinale Federigo, non ci sembra avere grande valore, ci sembra che abbia un valore solo letterario e invece ha un grande valore spirituale. Ecco, incominciamo così: sto in Quaresima, sto familiarizzando con il mio io colpevole? Questo, senza flagellazioni (mi capite anche dal modo con cui lo sto dicendo): non è un discorso fosco, ma un discorso di verità, di verità di me: io sono malato, io – dice San Paolo nella Lettera ai Romani – vedo il bene, lo approvo, ma faccio l’esatto contrario. Forse nessuno ha confessato in una maniera così crudele questa dissociazione che noi abbiamo dentro. Allora ci poniamo questo problema: questa dissociazione è sanabile? C’è una via per uscire da questo cortocircuito o dobbiamo restare sotto il peso delle nostre colpe? Leggere o pesanti che siano è irrilevante. C’è un redentore? Possiamo alzare lo sguardo? Possiamo rimetterci nella situazione della nobiltà nonostante le nostre precarietà? Lo ascolteremo nella seconda puntata.

 

Romancing timeYuhki Kuramoto

 

Voglio fare insieme con voi un esperimento di lettura corale, cioè torniamo a leggere “i grandi”. Adesso vi leggerò il tormento dell’Innominato. Riassunto delle puntate precedenti: Renzo e Lucia si dovevano sposare, poi i bravi fermano don Abbondio in maniera intimidatoria; i due cercano di fare il Matrimonio davanti a don Abbondio senza che egli ne sia a conoscenza (è la notte degli imbrogli), poi scappano, l’“Addio ai monti” di Lucia, poi don Rodrigo, il signorotto che ha adocchiato la giovane Lucia, non certamente per recitare un Rosario con lei, incarica questo masnadiero, questo mafioso – ecco, utilizziamo questo termine – questo mafioso dell’epoca per rapire Lucia e quindi portare a compimento il suo piano di male. Siamo arrivati al punto in cui l’Innominato, quest’uomo che si è macchiato di tutti i crimini, che non ha nessun sentimento di compassione, ha rapito Lucia ed è rimasto colpito, nell’incontro con lei, dalle parole di lamento e di richiesta di liberazione. In particolare lo ha colpito questa frase: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. A questo punto diamo la parola al Manzoni. Lucia si addormenta dopo aver fatto il voto di castità purché sia liberata: ha indossato, a  mo’ di atto di consacrazione, la corona come una collana e stranamente si è addormentata.

 

Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell'immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?" E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei, - pensava, - è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".

E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.

"La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"

A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra vita...!"

A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!" E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità straordinaria.

"Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?" E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

 

Meditation Yuhki Kuramoto

 

Qui ci sarebbe bisogno di attori per dare anima a queste parole che sono un film, prima ancora che si potesse trasferire sulla scena, con i volti, quest’alternanza di emozioni. Il Manzoni nella notte dell’Innominato ha voluto consegnarci un monumento al tormento: un uomo tormentato che alterna sensazioni opposte e si sente trascinato da quello che ha fatto, quindi dall’uomo vecchio. Questi cambiamenti, questo aprirsi al nuovo è doloroso; in fondo - ci dice il Manzoni, come tutti gli autori spirituali - non è che tu cambi, un bel giorno, e tutto questo avviene con i fiocchi, i fiocchettini, i fiorellini… No, la realtà è molto più controversa, perché non c’è bene che in qualche maniera non nasca da un tormento e non c’è male che si concluda, che, in qualche maniera, non chieda una sorta di sofferenza: qui abbiamo un uomo che si contorce da solo con i suoi fantasmi. Da un lato c’è l’Innominato, con quello che ha fatto fino adesso: un uomo truce, un uomo che non si è mai commosso. Tra poco vedremo, dopo tanti anni, scorrere le lacrime dai suoi occhi davanti al Cardinale Federigo: non piangeva da quando era bambino. Dall’altro abbiamo quest’uomo che comincia a ipotizzare una possibilità diversa di vivere, una concezione diversa di vivere e quindi un modo diverso di vivere. Questi due eserciti si fronteggiano e fanno guerra senza risparmio. Non a caso il Manzoni ha ambientato questo in una notte, perché non è solo una notte fuori, ma è la notte nel cuore dell’Innominato. Tra l’altro, questa non è neanche la notte, ma è lo sposarsi delle tenebre con la luce, momento in cui comincia ad albeggiare: vincerà la notte o il giorno?, vincerà il buio o la luce?, vincerà l’uomo vecchio o l’uomo nuovo che sta per nascere? Questo monumento al tormento della conversione, credo abbia tanto da insegnarci, quindi diffidiamo di conversioni facili, diffidiamo di propositi di Natale, letterine di Natale, di Pasqua di quando eravamo bambini e invece fraternizziamo con questa alternanza. Come avete ascoltato e conoscevate già bene dalle esperienze scolastiche, continuamente l’Innominato passa da “voglio cancellare l’immagine di Lucia” (quindi Lucia adesso sta per questa modalità nuova: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia” quindi “c’è ancora speranza per me”) al tornare alla sua vita turpe. Ad un certo punto c’è anche la scena della pistola, con la sofferenza che raggiunge un livello così alto, tanto da fargli decidere il suicidio, ma poi pensa al suo corpo che sarà ritrovato, ai nemici che godranno e poi si chiede: ma dove andrò? Che sarà? E questa vita eterna di cui parlano i preti, è vera o se la sono inventata? E se è vera, quello che io sto facendo qui, avrà un’eco. Se non è vera - come anche Paolo stesso dice - se Cristo non è risorto allora mangiamo e beviamo, perché poi dopo non c’è più niente, quindi godiamoci la vita. C’è una regia, in queste parole che avete ascoltato, bellissima ed è quando siamo sul crinale e diciamo: ma da che parte cadrà? Dalla parte dell’uomo vecchio o dalla parte dell’uomo nuovo? Chi vincerà? Ecco che un elemento esterno viene ad attirare la sua attenzione e non a caso è il suono di campane. C’è, se volessimo leggerla, una trama pasquale, da triduo pasquale in questo capitolo della notte, perché ci sono le campane che annunciano una festa, annunciano una venuta (poi scoprirà che è la venuta del Cardinal Federigo, arcivescovo di Milano che visita questo paese). Il brigante, che ha mandato per chiedere cosa sta avvenendo, perché c’è tutto questo movimento, viene a dire: è arrivato il cardinale ieri e questa nuova, questa notizia si è diffusa e tutti adesso stanno andando da lui per la celebrazione. C’è un ordito pasquale, c’è un uomo morto e tra poco ci sarà la resurrezione. Ma attenti: non c’è resurrezione senza morte. Quindi anche questa sorta di tormento che noi viviamo continuamente - certamente non con toni drammatici, perché nessuno di noi (grazie a Dio) ha vissuto come l’Innominato; ma nel nostro piccolo, anche noi con le nostre angosce, i nostri timori, i nostri rimorsi… - questa sofferenza è benefica, perché all’atto in cui tu non dovessi provare più rimorso, è finita. Noi ci troviamo già, da un punto di vista culturale, in quest’epoca che viene detta amorale, non immorale, perché uno per essere immorale deve avere una moralità, cioè deve contravvenire a delle norme morali, qualsiasi esse siano. Invece, dicono gli studiosi, noi ci troviamo in un tempo di amoralità, dove sembra non esserci più posto per il rimorso e questa è una cosa tragica. È più tragica delle colpe che dovrebbero provocare il rimorso, perché il rimorso è segno di vita. In fondo, noi vediamo qui, attraverso le parole del Manzoni, un bambino che vuole nascere, assistiamo ad un parto ed un parto avviene nel dolore. Ma se non c’è rimorso, allora stiamo cadendo nell’abulia più terribile e ciascuno di noi, uscito di qui, può commettere i delitti più efferati “senza punto” – direbbe il Manzoni – dolersene, cioè senza avvertire niente. È il caso, per esempio, di questi fatti di cronaca efferati dei giovani che hanno ucciso i genitori e vanno in discoteca. Vedete, questi non sono immorali, sono amorali. Di più: sono anche anaffettivi, si dice, cioè hanno fatto una bravata. Punto e a capo. Magari si saranno anche divertiti in discoteca e il rimorso dov’è? Cercasi rimorso. Noi abbiamo sempre dato a questo termine una connotazione negativa e invece il rimorso ha la stessa connotazione positiva del dolore: il dolore è segno di vita. Se io sento dolore, significa che io sto bene. Non è vero che il dolore significa che sto male; sto bene, perché quando tu non sentirai più dolore, sei a un passo dalla morte. Ho insistito un tantino su questo concetto, perché credo che oggi vada un po’ “attizzato” il rimorso, non per schiacciare, ma perché è redentivo, è evolutivo, è generativo, ma se non sentiamo nulla allora veramente siamo morti, siamo già morti. Chiudo con un ricordo personale. Padre Gianni Giorgianni, che era un romanziere, un gesuita romanziere, giornalista di Radio Vaticana, ricordo che ad una conferenza citò questo passo delle persone che andavano verso la chiesa dove il cardinale avrebbe officiato, per raccontarci quello che lui vedeva, in giro per il mondo, per le visite di Giovanni Paolo II. Ricordo che, senza dire da dove citava, cominciò a dire:

Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù.

Poi quando chiuse la citazione: “Avete riconosciuto? Manzoni”. Per dire: io vedo continuamente queste cose. Poi chi abbia assistito, sia andato, sia entrato in uno di questi fiumi, che vanno rimpolpandosi sempre più lungo le vie per una celebrazione papale, sa come effettivamente questa descrizione di persone che si accompagnano e che via via si accorpano e diventano folla fino a  diventare marea, sono una mirabile descrizione anche degli incontri del Papa. Ma questo è un memoriale personale di questo autore. Chi fra voi ami i romanzi può riesumare questo romanziere poco conosciuto, morto non più di dieci anni fa: Padre Gianni Giorgianni. Ci fermiamo qui. Scusate se magari vi ho fatto venire qualche senso di colpa, ma non è il senso di colpa che va ridestato: va ridestato il rimorso, è diverso. Il senso di colpa è un fatto psicologico, a volte anche deleterio. Invece il rimorso è questo struggimento, questa sofferenza interiore che dice: “Non mi piace quello che faccio, quello che ho fatto”.

 

Sensazioni – Francesco Gravina

 

Questo brano meraviglioso che abbiamo ascoltato, che Francesco non solo ha eseguito ma che ha anche composto, ci introduce bene in questo “trattato sulla misericordia”, il capitolo XXIII de “I Promessi Sposi” (ve l’ho messo sul foglietto, però gradirei che lo ascoltaste, altrimenti il solo fatto che girate il foglietto mi distrae e ci distrae). Ha mandato uno dei suoi a chiedere: “Ma che vanno a fare? Che vanno a vedere? Un uomo? Ma che può fare un uomo? Può dare qualche elemosina… Che parola ha da dire?”. Ad un certo punto gli viene questa risoluzione, chissà da dove, di recarsi anche lui a chiedere qualcosa. Avrà lui qualcosa da dirgli, perché poi si chiede: “Che gli vado a dire? Avrà lui qualcosa da dirmi, visto che tutta questa gente va colma di beatitudine ad ascoltarlo”. Conoscete anche la scena - ve la risparmio - dell’Innominato che entra nella sala laddove ci sono i preti raccolti che immediatamente… una serie di mormorii, perché lo riconoscono, perché sanno che è il “camorrista” della zona. Poi il cerimoniere, per così dire (qui il Manzoni dice il “crocifero”), il cappellano crocifero è costretto ad andare a dire a Federigo: “C’è l’Innominato in anticamera”. Immediatamente il cardinale si riprende dai suoi studi, chiude il libro, si rianima: “Fallo entrare!”. Ma il segretario ha tante obiezioni da fargli: “Ma forse lei non sa…”, ed è rimproverato aspramente perché Federigo dice: “Ma San Carlo cosa avrebbe fatto?” (È il cugino santo che lo ha preceduto sulla cattedra di Ambrogio). Quindi semplicemente vi leggerò, perché è il caso che ascoltiamo. Commentiamo poi nel prosieguo. L’Innominato è appena entrato nella sala.

 

Appena introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.

I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L'innominato, ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l'orgoglio di fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio.

La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.

Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal visita, tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po' del rimprovero!

- Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.

- Certo, m'è un rimprovero, - riprese questo, - ch'io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.

- Da me, voi! Sapete chi sono? V'hanno detto bene il mio nome?

- E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de' miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi.

L'innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? - riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?

- Una buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.

- Che Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il cardinale.

- Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?

- Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l'imploriate?

- Oh, certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?

Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... - (l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l'opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!

A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta.

- Dio grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d'assistere a un sì giocondo prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato.

- No! - gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.

- Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.

- È troppo! - disse, singhiozzando, l'innominato. - Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone, tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete... con chi!

- Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quell'anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull'omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.

 

Photo juanieAndre Gagnon

 

Chiunque fra voi – qui ci sono alcuni insegnanti – in classe (ma non sempre è l’ambiente ideale per questi commenti), abbia tentato un commento a questo capitolo, credo abbia incontrato non poche difficoltà. Noi avremmo potuto anche semplicemente leggere e forse bisogna tornare  a queste letture corali, aperte, perché non si legge più. Enucleiamo alcuni punti al di là della sinfonia: è come prendere una nota da una sinfonia, quindi la si impoverisce. Innanzi tutto questo senso d’accoglienza, di paternità, di sacramento del cuore del padre che il Manzoni dipinge, che raffigura nel cuore del cardinale Federigo, che dovrebbe essere il cuore di ogni vescovo, di ogni parroco, ma anche di ogni uomo e di ogni donna. Un senso che ha un aggettivo, “magnanimo”, o un sostantivo, “magnanimità” che significa avere cuore grande: spesso noi incontriamo persone col cuore gretto, dove basta uno sbaglio e allora sei bocciato per tutta la vita, per tutti i secoli dei secoli, e sei mandato all’inferno. Non è questo il Vangelo, non è questo il Cristianesimo, non è questo ciò che la Chiesa annuncia in questo tempo. Quindi io spero che voi facciate esperienza, e se non la fate, la facciamo stasera insieme tutti: l’esperienza di sentirci a casa nostra, da qualsiasi parte veniamo, da qualsiasi strada siamo reduci, da qualsiasi ideologia, da qualsiasi impostazione, da qualsiasi peccato. Nella Chiesa noi dobbiamo sentirci a casa nostra e non ci sono invidie (non dovrebbero esserci), non debbono esserci diatribe tra fratelli che sono rimasti a casa con quelli che tornano dopo aver dissipato gli averi del padre con le prostitute, come dice la parabola del padre misericordioso. Il cardinale Federigo esprime il cuore di Cristo e il cuore della Chiesa. È così anche oggi. Pensate che questa pagina è stata scritta nell’Ottocento. Oggi abbiamo una percezione ancora più forte di questa centralità della misericordia. Allora non è che i termini fossero così chiari come teologicamente oggi sono, eppure, paradossalmente, oggi che abbiamo i termini più chiari, i cuori (anche dei pastori) sembrano più chiusi, più gretti: il mio gruppetto…, ognuno di voi avrà fatto esperienza di non sentirsi accolto da qualche parte, da qualche Chiesa, dovunque. Noi dovunque andiamo dovremmo dire: sono un cristiano, è la mia Chiesa anche se non appartengo a questa parrocchia, anche se non appartengo a questo clan, a questo club, tanto più poi quando io vengo per la prima volta, quando più da lontano, vengo dal deserto, vengo dal territorio di Zabulon e di Neftali, si dice nel Vangelo per dire territori strani, dove non c’è la purezza della fede. Allora Federigo impersona meravigliosamente quello che la Chiesa deve essere. La seconda sottolineatura è la meraviglia che questo desta, che deve destare anche adesso, anche oggi: “Guarda! Il Vescovo ha stretto la mano… Facciamo una foto così la mettiamo sul giornale!”. Mi ha sempre colpito, non so se conoscete il cardinale Daniélou, grande arcivescovo di Parigi, che si sentì male a casa di una nobildonna dai facili costumi: poverino… Immaginate cosa avran pensato: “Anche il cardinale!”. Invece com’è bello pensare che questo alto prelato possa esser andato lì per un motivo d’accoglienza: non ci sono vie precluse, non ci sono strade che noi non possiamo percorrere, non ci sono case dove non possiamo andare. “Eccellenza, mi raccomando non andate lì, perché poi…”. A furia di fare queste … al vescovo, al parroco, alla catechista, al responsabile, finiamo col mettere tante paratie, per cui quelli che tornano non trovano più nessuno ad accoglierli ed è una cosa terribile. Quindi da un lato il cuore del pastore, del buon pastore, dall’altro la meraviglia nel cuore dell’Innominato che certamente non si aspettava quest’accoglienza di primo grado, questa festa. Non si aspettava di ricevere tanta “audience” e di ascoltare le parole che ha sentito. Noi dovremmo, come Chiesa, ridestare questa meraviglia, ridestare questa fiducia nelle persone, e davanti a questa fiducia che noi poniamo (ed esse sanno che è una fiducia mal riposta) si generano poi i cambiamenti. Quando tu insegnante, tu educatore - non so, lì ci sta Arnaldo - quando tu negli Scout dai fiducia al ragazzo più scalmanato, tu compi quest’opera, noi rendiamo attuale il Vangelo della misericordia, scegliendo non i primi della classe, non i bravi, non quelli educati, non quelli che rispondono sempre a tutte le domande del catechismo, ma i lontani. Questo suscita, nel cuore di chi pensa d’essere accolto a legnate, un itinerario di conversione. Concludo con questa riflessione. C’è in questo capitolo anche una dottrina spirituale della Comunione dei Santi, quando l’Innominato dice: “Ma non stia a perdere tempo con me: ci sono tante persone che aspettano, che sono venute da lontano”. E lui dice: “No, perché quelle persone adesso sentono una gioia di cui ignorano l’origine”. Poi la scopriranno, perché quello che sta accadendo in questa stanza, nel segreto di questo colloquio, segretamente, ha effetti positivi su tutti e quindi anche voi che siete venuti e non avete avuto possibilità di udienza, riceverete da questa conversione “una gioia senza causa”, direbbe Sant’Ignazio di Loyola negli Esercizi Spirituali. Cari amici, questo è il Vangelo, questo dobbiamo fare e questo speriamo di raccogliere noi, ma su questo vi dirò una parola dopo.

 

Riflessioni – Francesco Gravina

 

Andiamo verso la fine. Grazie a Francesco per questo tocco così dolce e anche per questa vena un po’ di nostalgia che viene fuori dalle sue composizioni: è una nostalgia bella. Anche questa melodia aveva questo accento. Nostalgia di chi?, di che cosa? Nostalgia di quella misericordia, di quell’amore che in queste pagine del Manzoni – il Vescovo spera di avervi fatto venire la voglia di riprendere “I Promessi Sposi” che fanno sempre bene, anche alla lingua italiana –, che in questi capitoli abbiamo visto rappresentata in una maniera magistrale. L’ultima parola la dico su di me, su di voi. Prima ho sottolineato quello che noi dobbiamo essere per gli altri, ma adesso chiudiamo dicendo stasera: sentiti accolto, sentiti accolta da Dio che “ha sì gran braccia”, dice Dante nella Divina Commedia. Anche quelli – vedi Manfredi – che stanno nel numero dei cattivi e quindi nei dannati vale a dire che non è così, che siamo salvi anche noi. Andiamo a letto stasera con la percezione che il nostro passato è nelle mani di Dio trasformato. Mi riferisco al nostro passato negativo, è chiaro. Quello positivo è potenziato, perché vi ritroveremo tutto, ma per quelle cose che abbiamo sentito o sentiamo ancora oggi rimorso, magari sarà un rimorso dolce come la nostalgia, la tristezza di certi accordi e di certi fraseggi musicali che abbiamo ascoltato da Francesco: la percezione d’essere stati perdonati è un grande dono. Anche nel testo che vi ho letto, il Manzoni fa dire a Federigo: ma tu pensi d’aver potuto fare qualcosa di più grande della misericordia di Dio? Illuso! Riesci a fare qualcosa di male che Dio non può vincere col bene? Illuso! Perché questa è una mania di grandezza: significa che tu sei più grande di Dio. Se noi potessimo fare un male che frena Dio, saremmo nel male più grande di quanto egli non lo sia nel bene, ma è un assurdo. Per cui qualsiasi siano le cose che ci pesano sul cuore, sono le marachelle dei bambini. Chiudo con questa immagine: ai bambini a volte si dà anche un rimprovero cercando di mantenere serio il volto, ma poi ci giriamo e facciamo un sorriso. Ma questi sono i nostri peccati, cari fratelli e sorelle. Quindi posso ricostruirmi, ricompattarmi, posso evolvermi in bene, posso recuperare. L’Innominato, anche se è un romanzo, recupererà e comincerà da Lucia, scandalizzando ovviamente i preti, e scandalizzando anche il buon don Abbondio che è chiamato dal cardinale (perché è il parroco della ragazza); come Anania nella conversione di Saulo e come tanti ecclesiastici brontolerà. Dice il cerimoniere: “Lo sapete: questi santi fanno sempre di testa loro”. Per fortuna! Per fortuna i santi fanno sempre di testa loro, perché Dio fa di testa sua e non giudica con la nostra piccola testa e con le nostre grettezze. Coraggio… Il centro del Vangelo è il peccato redento, è la notte che è vinta dal mattino di Pasqua. Così cominciamo a prendere forza: ne riceveremo anche domenica prossima dal racconto del Vangelo della Trasfigurazione. Ascoltiamo l’ultimo brano e poi potete fare anche un applauso e ringraziare Francesco che non solo ha portato qui la sua maestria, ma ci ha messo a disposizione anche un’orchestra. È scritto “virtuale”, ma è importante che ci sia sempre la mente dell’uomo, perché se fosse solo virtuale – ahimè! - avremmo da ritenerla falsa, ma poiché è pensata dall’uomo ed è messa insieme con la musica dal vivo, allora ben venga anche un’orchestra virtuale.

 

Vento d’autunno – Francesco Gravina

 

Concludiamo con la benedizione perché non abbiate a tornarvene a mani vuote.

 

Benedizione del Vescovo

 

Buona serata. Il prossimo appuntamento è il primo aprile: non è un pesce d’aprile…  

 

 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.