“Gesù salì sul monte”

 

Meditazioni

di

S. E. REV. MA MONS. ARTURO AIELLO

 

Monte La Frascara

 

Roccamonfina, 21 agosto 2009

~

Canto: Vieni, vieni, Spirito d’amore

 

Nel nome del Padre…

 

È stata una preghiera già essere arrivati fin qui: voi starete pensando che è stato un miracolo più che una preghiera ma, scherzi a parte, “salire” coincide sempre con lasciare certi pensieri e prenderne altri. I pensieri dell’alto sono pensieri più vicini a quelli di Dio: è quello che abbiamo già sperimentato altre volte, in questi nostri appuntamenti estivi e che vogliamo vivere anche questa sera. Godiamo degli alberi, della pace, del fresco, particolarmente gradito in questi giorni di afa, e sentiamo che c’è bisogno di salire. “In alto i nostri cuori” - ve lo ricordavo anche a San Salvatore, nel primo incontro - diventa il motto di ogni preghiera, perché i cuori si appesantiscono, i pensieri diventano scuri e i sentimenti si infangano. Invece, quando i cuori sono lanciati in alto, li raccogliamo in discesa alleggeriti. Ho pensato come schema di questa preghiera, stasera, una poesia di David Maria Turoldo che si intitola A Terza. Sono legato a questa poesia perché, quando avevo 18 anni, la mia insegnante di Lettere ci affidò questi versi come traccia (cose che si facevano un tempo… Oggi non so se dei diciottenni riuscirebbero a cavare fuori da questi versi pensieri per un tema). Innanzi tutto, cosa significa A Terza? È una poesia legata all’orario canonico: normalmente a terza sono le dieci del mattino, ma diciamo che è anche una stagione della vita, cioè il poeta è giunto a terza e alcuni di voi stanno a terza, altri fra noi stanno a sesta, alcuni stanno a nona e c’è anche qualcuno che è a vespro. Comincia il tempo della maturità e questo poeta credente, sacerdote, come sente la maturità? 

 

A Terza

A me un paese di sole

una casa leggera,

un canto di fontana giù nel cortile.

E un sedile di pietra.

E schiamazzo di bimbi.

Un po’ di noci in solaio,

un orticello

e giorni senza nome…

e la certezza di vivere.

(David Maria Turoldo)

 

Innanzi tutto, cosa vuol dire A me? Il poeta credente ritiene che Dio gli abbia fatto dei doni, cioè questa è la descrizione della sua vita. Cosa possiede? Qual è la sua dichiarazione dei redditi? Di che cosa deve ringraziare il Signore? Innanzi tutto, di un paese di sole. Avremmo preferito, in questi giorni, “un paese di… fresco”, ma un paese di sole è il paesino dove Padre Turoldo è vissuto - dobbiamo immaginare questi versi scritti nel chiostro -,  è un paesino insignificante come Rio Bo, ma è il suo paese, il paese che il Signore gli ha dato: un paese di sole, cioè illuminato. Adesso siamo al tramonto e questo paese sono gli alberi che abbiamo qui intorno, che sono dati a noi, e sono illuminati dal sole (al tramonto la luce si fa più calda). In questo paese c’è la mia casa, una casa leggera. Attenti: le nostre case rischiano d’essere pesanti. Ci sono alcuni di noi che hanno una casa leggera, perché ne hanno il diritto di proprietà, hanno fatto il rogito… E allora ci chiediamo: la tua casa è leggera o pesante? La casa leggera è quella che posso portarmi dietro come una lumaca e che potrò abitare ovunque; la casa pesante è quella che lascerò.  Allora, capite che una casa leggera è una casa che mi è stata donata, che si chiama Grazia, che si chiama Chiesa, che è anche la casa, la villa dove tu abiti, ma che, andando avanti negli anni, si alleggerisce. Porterò con me le cose leggere e lascerò quelle pesanti. Allora, stasera mi chiedo: quante cose pesanti di questa giornata (detriti, vuoti a perdere…) dovrò abbandonare? E, invece, quante cose leggere, che mi porto dentro e che nessuno potrà rubarmi, entreranno con me nella vita eterna? 

Un canto di fontana giù nel cortile: è, ovviamente, una visione monastica. Il frate servita, Padre Turoldo, sente la fontana che canta giù nel cortile. Qui la fontana indica il tempo, e non in una percezione drammatica: non trasmette il senso della sete o del tempo perduto, ma è una fontana che canta. E le nostre fontane cantano?, piangono? Ovviamente, l’immagine della fontana al centro del paese o del cortile è un’immagine un po’ anche fuori della nostra portata consueta, però riusciamo ad accedere a questi versi guardando oltre.

Un sedile di pietra: non una poltrona, non Divani & Divani, non un salotto all’ultima moda. Anch’io, adesso, sto su un sedile di pietra, su questo piccolo poggio di pietra, perché la pietra non passa. Stamattina, l’ispirazione mi è venuta nel giardino dell’episcopio, proprio da un enorme masso di marmo che sta lì come un sedile, e ho pensato a questa poesia. Quindi, il colpevole di questa preghiera, stasera, è il sedile di pietra, che è nel giardino dell’episcopio: qualcosa di stabile, ma anche qualcosa su cui altri si sono seduti in passato (mio nonno, mio padre, quelli che erano prima di me, che hanno utilizzato questo sedile e lo hanno levigato, quelli che si siedono di generazione in generazione, di volta in volta e levigano questa pietra, ed è come se la scolpissero). Probabilmente, nelle cose che usiamo e buttiamo, non trasmetteremo nessuna levigatura.

Allora, ti è dato un paese di sole, ti è data una casa leggera: qual è la casa leggera che porti con te? Un canto di fontana giù nel cortile, a segnare il tempo: ricordate che il filosofo diceva che non ci si bagna mai nello stesso fiume, a indicare che il tempo passa e, quindi, non siamo quelli che eravamo un tempo. Un sedile di pietra dice stabilità, dove si è seduto mio nonno. Tra l’altro, andando avanti in questo sentiero, quando ci tornerete (il Vescovo vi sta facendo fare questi giri anche per farvi scoprire alcuni posti belli della nostra Diocesi), ci sono delle mura megalitiche, dei blocchi di pietra su cui millenni e millenni hanno operato un’azione di levigatura. Mi siedo laddove altri si sono seduti e forse con il mio passaggio e la carezza delle mie mani - pensate allo scultore, che passa il palmo della mano sulla statua, sull’opera che sta realizzando – qualcuno dopo di me (mio figlio, mio nipote, un passante…) beneficerà di quello che io ho capito.

 

***

A Terza

A me un paese di sole

una casa leggera,

un canto di fontana giù nel cortile.

E un sedile di pietra.

E schiamazzo di bimbi.

Un po’ di noci in solaio,

un orticello

e giorni senza nome…

e la certezza di vivere.

(David Maria Turoldo)

 

Sul sedile di pietra, il poeta sente dei ragazzi che giocano sul sagrato della chiesa: sono il futuro, come il piccolo Michelino che, come una sorta di mascotte, è qui, in questo gruppo di oranti un po’ folli che salgono su un monte per un momento di riflessione. Schiamazzo di bimbi sono i ragazzi che, come abbiamo fatto noi da bambini, si rincorrono sul piazzale della chiesa, luogo di ritrovo, di giochi, di sogni. Ma possiamo immaginare anche che questo schiamazzo di bimbi, il poeta lo senta dentro, perché in questo momento di riflessione sul sedile di pietra, ci sono dei ricordi e c’è sempre un bambino dentro di noi che preme, che vuole uscire, che ha qualche idea balzana da suggerirci, fuori dalle logiche commerciali del “mi conviene?”, nel senso dell’altruismo e del coraggio.

Come vedete, abbiamo una sintesi della vita: mi è dato un paese di sole, una casa leggera, un canto di fontana (il tempo), un sedile di pietra (la storia), schiamazzo di bimbi (ricordi e sogni: i ricordi di quand’ero bambino e i sogni-bambini che nasceranno da me). Questo valga per tutti, anche per quelli che sono nonni, o che non si sposeranno mai e che non avranno mai dei figli. Guai a noi se non generiamo il bambino che è in noi, non generiamo dei sogni bambini, dei bambini sogni. Questi sogni fanno schiamazzo, non riescono a star zitti, come il bambino poco fa. È difficile dire a un bambino “Sss…! Facciamo la preghiera…”: i bambini schiamazzano dentro di te, dentro di me e forse questo schiamazzo è segno di vita, forse va ascoltato, forse mi salverò per una preghierina fatta da bambino, per un proposito, per una piccola penitenza… I bambini ci salveranno: il bambino che ero io mi salverà e la bambina che eri tu ti salverà.

Poi, ci sono le poche cose che servono per vivere: un po’ di noci in solaio, un orticello. Qui il riferimento, sempre poetico, è alle esigenze della vita. Il poeta, come d’altra parte l’uomo credente, non è fuori dalla storia: come gli altri ha sete e ha fame. Alcuni di noi ricordano, nella propria infanzia, le noci conservate nel solaio per l’inverno e che, ogni tanto, si rigiravano con la pala: erano segno di un bisogno. Le noci diventavano anche energia, ma pur sempre un cibo povero.

Il poeta, poi, non dice “una tenuta, un ettaro di terreno”, ma un orticello, perché ha bisogno di poco. D’altra parte – e credo che sia la cosa più importante da dirci, stasera - per essere felici c’è bisogno di molto poco e, a volte, per essere felici, dobbiamo liberarci di molte cose. La felicità non sta, come normalmente pensiamo, nel possedere, nell’avere, nel vincere i milioni che con il “sei” state tentando di prendervi (per avere il problema di come spenderli…), ma la felicità sta nelle piccole cose, però godute, rispettate, accarezzate. Le piccole cose, i piccoli bisogni utili alla vita, sono le noci nel solaio e un orticello. E qui i riferimenti sono all’alto (il solaio è in alto) e al basso, l’orticello dove il poeta, il frate, andrà a raccogliere quello che gli serve per vivere. Se ci pensate, nel Padre nostro, Gesù ci fa dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano… Non ci fa dire “Dacci tanto pane”, ma il pane che ci serve oggi, il pane per oggi. Quando gli ebrei uscivano a raccogliere la manna e ne raccoglievano più del dovuto, la manna marciva. Se succedesse così anche noi, immaginate quante cose marcirebbero nelle banche, nelle dispense, negli armadi: tutte cose che non ci servono. Le poche cose che servono per vivere sono quelle che ti sostengono; il resto ti appesantisce, rende la casa pesante.

Il poeta conclude con giorni senza nome. Questo è il verso più problematico, perché? Perché i giorni senza nome sono giorni che sembrano anonimi, ma che possono essere belli. Per i giovani, i giorni senza nome sono inutili, perché vorrebbero giorni con il nome in copertina patinata, col nome in prima pagina, con i nomi Dottor, Ingegner, Cavaliere. Io non cerco giorni col nome, col timbro, giorni d’elite - e spero che questo sia anche il vostro desiderio -: cerchiamo giorni senza nome, giorni a cui Dio darà un nome, giorni della mia vita, della tua vita. 

L’ultimo verso è: E la certezza di vivere. Quest’uomo col paese di sole, con la casa leggera, con la fontana che scorre, con i bimbi che schiamazzano (i sogni che fanno a pugni), con questa voglia di semplicità, con il sedile di pietra (la storia, gli antenati), con le noci e l’orticello di Cincinnato, ha giorni senza nome, cioè sembra non fare storia (non fa storie, ma fa storia), ma ha la certezza di vivere. Il giorno di S. Chiara, al Monastero di Pignataro, ho detto, a quelli fra voi che erano presenti, che S. Chiara ha concluso la sua vita dicendo: “E sii benedetto Tu, Signore, che mi hai creata”. Questa è la certezza di vivere: ci sto, ci stiamo, siamo qui, respiriamo. Ecco, questa è la certezza di vivere. Le persone si infelicitano, corrono, prendono gli aerei, prendono il caffè a Roma, pranzano a Parigi e poi cenano in un altro continente, ma non sanno di vivere. Noi siamo qui per dire: siamo vivi. Ma questo lo senti quando sei raccolto, seduto sul sedile di pietra a contemplare il paese di sole, a sentire lo schiamazzo dei bimbi, la fontana che canta, ad avvertire che, alla fine, tutto quello che hai o che puoi avere, non ti serve: ti servono poche cose, pochissime, cose leggere. Siamo venuti qui per alleggerirci, per respirare a pieni polmoni, per liberarci dall’afa - e non mi riferisco a quella che ci sta opprimendo e che ci sta facendo sudare in questi giorni -, dall’afa di progettualità che ci appesantisce. Gesù dice: Ti basta il pane per oggi - o a Paolo - Ti basta la mia Grazia.

 

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 A Terza

A me un paese di sole

una casa leggera,

un canto di fontana giù nel cortile.

E un sedile di pietra.

E schiamazzo di bimbi.

Un po’ di noci in solaio,

un orticello

e giorni senza nome…

e la certezza di vivere.

(David Maria Turoldo)

 

Ti ringraziamo, Signore, per il dono della vita.

Noi vorremmo tante cose,

ma non gustiamo abbastanza l’orizzonte di ogni cosa.

E l’orizzonte di ogni dono è la vita.

Ti chiediamo perdono, stasera,

perché non ti ringraziamo abbastanza

per l’esistenza nuda, senza attributi, senza ulteriori doni.

Grazie per questo paese di sole,

che è il mio paese,

che è la Diocesi di Teano-Calvi,

che, in questo momento, è Roccamonfina.

Grazie per la casa che mi porto dentro

e che non ha bisogno di diritti di proprietà e di rogiti.

Grazie per il tempo che scorre a goccia,

anche per questa giornata

che chiudiamo qui, sul monte.

Grazie per la storia, grazie per i nostri padri,

i nostri nonni, quelli che hanno dimorato prima di noi, qui.

Fa’ che questo sedile di pietra

possa servire anche ai nostri figli e ai figli dei nostri figli.

Grazie per la dimensione di infanzia

che ci portiamo nel cuore e che ci salverà.

Tu hai detto: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”.

E noi, Signore, vogliamo fare più spazio al bambino, alla bambina che è in noi,

che preme, che sorride, che fa l’occhiolino, che fa le boccacce, che si contenta,

che si meraviglia di una farfalla.

Grazie per quello che ci sostenta,

per le noci nel solaio e l’orticello.

Grazie, perché non siamo famosi

e ognuno di noi ha giorni senza nome.

Grazie, perché siamo preziosi ai tuoi occhi.

Donaci la certezza di vivere.

 

Ci teniamo per mano e diciamo insieme: Padre nostro…

 

Benedizione del Vescovo

 

Canto: Ho lottato tanto

 

 

***

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.