Convegno Regionale
“Preti oggi in Campania.
Un ministero di speranza per la nostra terra”
~
Profili di spiritualitŕ presbiterale
per un ministero della speranza
~
Relazione
di
S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello
Vescovo della Diocesi di Teano-Calvi
Santuario di Pompei, 11 maggio 2010
***
Le due anime del prete: il discepolo
e il missionario.
Tensione tra il “restare” e “l’andare”.
Continuamente formati per informare.
Frammentarietŕ della formazione: lavori in corso?
Cantieri sigillati, lavori interrotti, strade
senza uscita…
La paura del nuovo: il prete e i
barbari.
Nomadi (abitano piů spazi sociali), Costruiti
(personaggi piů che persone), Orizzontali (l’impero dei pari), Tragici perché
fragili (in lacrime sotto le maschere).
Fuga dal Ministero:
una nicchia, prepensionamenti, cultualismo, rigiditŕ
nel magistero morale, pastorale bonsai, orgia del potere, vite parallele,
pastorale turistica, preti manager, preti no-global,
preti anticamorra, preti aggettivati…: Cercasi preti senza aggettivi!
La fatica di stare dentro la storia
e dentro l’identitŕ presbiterale.
Fedeltŕ all’uomo e fedeltŕ al Maestro:
Incarnazione. Il problema del linguaggio. Il Vangelo in dialetto.
La gioia di essere preti oggi in
Campania.
Inseriti in una storia di santitŕ: Sant’Alfonso e Beato Vincenzo Romano. Da una religiositŕ
popolare a una fede di popolo. Gioia di riconoscersi (“Simmo
‘e Napule, paisŕ!”) di abitare i “golfi della bellezza” (“O paraviso nuosto č chillu llŕ”), di piantare nel
cuore del presente la bandiera della speranza (“Ancora quantu tiempo...)
La
fatica della comunione.
“Ottimi padri, figli mediocri, pessimi fratelli”
Dalla funzionalitŕ della collaborazione alla
sacramentalitŕ della comunione. Il Presbiterio di carta e quello reale: i numeri non
coincidono!
Da “cani sciolti” a corpo organico. Spiritualitŕ dell’incontro diocesano
(e regionale?). Il Presbiterio luogo di guarigione in cui
sperimentare la forza nella debolezza: “furono
sfamati circa cinquemila uomini”.
La caritŕ pastorale
dentro la realtŕ.
“I nostri preti odorano di pecora e di pesce”:
l’efficacia del ministero č direttamente proporzionale all’aderenza alla realtŕ. La parrocchia, crocevia di relazioni,
ancora tutta da scoprire. Frattura tra
Evangelizzare le fragilitŕ del prete.
L’insistenza ossessiva su alcuni temi morali č
tornata come boomerang in un atto di accusa. Dalla predicazione del “Tu devi”
alla pastorale del “Tu sei”: l’agire morale come risposta al dono di scoprirsi
figlio di Dio. L’isolamento del prete č all’origine di tutte le devianze:
emergenza fraternitŕ. Spiritualitŕ della ricchezza contenuta in vasi di creta:
“Quando sono debole č allora
che sono forte”. “Non siamo migliori!”. Un luogo terapeutico per
i preti della Campania?
***
Ho preparato questo piccolissimo schema che non ha alcuna
presunzione (comincio a fare la critica prima che la facciate voi): certamente
manca di sistematicitŕ, ma vuole essere una griglia di riflessione per questo momento,
ma anche per momenti successivi, e contiene una serie di stimolazioni, di
immagini. Non sarei in grado di mantenere la levatura culturale dei relatori di
questa mattina ma, d’altra parte, come sapete, in questo convegno sono venute a
convergere due anime: della Facoltŕ Teologica, e un incontro per i sacerdoti –
che
Questo schema non ha alcuna citazione, nessun
riferimento, e questo per agilitŕ e per una scelta precisa che ho inteso fare,
offrendo degli stimoli. Se in qualche punto – e vado subito al testo – doveste cogliere una punta di polemica, č assolutamente
fuori del mio obiettivo (d’altra parte – con molti di voi ci conosciamo – tutto
mi appartiene, tranne la polemica). Invece, puň essere utile cogliere quei
punti nevralgici che normalmente sono anche punti di crisi, punti dibattuti e sofferti
della nostra vita, da cui puň nascere qualcosa di nuovo per il nostro fare e
pensare pastorale.
ť Le due anime del
prete: il discepolo e il missionario.
Noi viviamo continuamente e veniamo presi da questa tensione, che a volte ci lacera e a
volte ci esalta, tra il discepolo e il
missionario. Č presente nel Vangelo, per quanto concerne gli apostoli, i
quali sono chiamati a stare con Gesů e poi ad andare a predicare. Non sempre –
e direi che un equilibrio definitivo sia impossibile – noi riusciamo ad
armonizzare queste due anime, cioč l’aspetto contemplativo (la preghiera
personale, la celebrazione dell’Ufficio,
Continuamente
formati per informare. Qui cominciamo a toccare alcuni punti dolorosi e cioč la formazione
del presbitero č – adesso dico la parola, ma č una bestemmia per il nostro
vissuto – permanente. La formazione permanente, nonostante tutti gli sforzi che
abbiamo fatto in questi anni in tutte le Diocesi della nostra regione, č ancora un’“Araba Fenice” (Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa). Non voglio
demolire nulla, se non mettere a tema la resistenza – attenti che non
sto parlando da Vescovo: sto parlando da prete – la resistenza che noi da
sempre abbiamo avvertito quando viene qualcuno e ci
dice: “Tu devi continuare a formarti”. Abbiamo un senso di astio, pensiamo che
voglia raccontarci delle cose nuove, mentre noi, dall’alto della nostra
supponenza, sappiamo bene cosa dire e cosa fare. Ed č questo uno dei problemi
alla base anche di tanta vita, a volte insignificante dal punto di vista pastorale,
e cioč chi č formato deve formarsi continuamente perché, mentre il deposito
della fede č lě (tra l’altro leggiamo, nell’ultimo Padre della Chiesa, che
anche il dogma č in evoluzione), ancor piů siamo in cammino e in evoluzione
noi, e tanto piů le nostre comunitŕ, e rischiamo di correre continuamente
dietro un treno senza afferrarlo.
Immaginarsi quando, anziché una formazione permanente,
noi abbiamo cantieri sigillati, lavori
interrotti, strade senza uscita! “Lavori
in corso” dovrebbe essere la modalitŕ vivace, bella, che dice della
vitalitŕ di un Presbiterio (mi č piaciuta la svista di Padre Roberto,
stamattina – e vorrei sottolinearla – che qui sono certamente raccolti i
presběteri, ma a nome e per conto di interi presbitčri). Nei presbitčri, il
cartello “lavori in corso” difficilmente si trova. Piuttosto, abbiamo l’idea di
qualcosa di statico, di cose che si sono fatte e che bisogna ripetere in una
maniera pedante, piccole novitŕ che sembrano il belletto
che a volte mettono le signore ultraottantenni per cercare inutilmente
di nascondere le loro rughe. Siamo ancora fuori e lontani da un vero cammino di
formazione dei presběteri, dei Vescovi insieme con i presběteri, nelle nostre
Chiese locali. Quindi, primo punto: stiamo a dibatterci tra queste due anime,
anche a causa del nuovo, a causa dei “barbari”.
ť La paura del nuovo: il prete e i barbari.
Un libro che io sento di consigliarvi – e, ahimé, non č
un libro spirituale – č “I barbari” di Baricco; non č
un romanzo, ma č una sorta di piccolo trattato su quello che l’uomo oggi sta
vivendo e sulla difficoltŕ che si ha nei confronti del nuovo, cosě come – il
titolo “I barbari” viene da quel contesto – i Romani avvertirono la venuta
delle tribů dal nord come se mettessero in forse la forza del diritto, la civitas romana.
In realtŕ, San Gregorio Magno e altri Papi hanno cercato di dialogare con i
barbari, perché tutto quello che č nuovo, inizialmente viene
raccolto come qualcosa di negativo. Allora, il prete – e quindi anche il prete
in Campania (quello che sto dicendo qui vale ovviamente dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al
Reno) – deve familiarizzare con quest’uomo che č l’uomo di oggi, che
č il giovane di oggi (col piercing, con l’orecchino,
con tutte quelle maněe che vediamo) che viene in chiesa
come un gallo, con i capelli rizzati in testa (per dire le forme piů esterne).
Ma questa persona respira un’aria che non č quella nella quale noi ci siamo
formati e questo significa anche “lingue”, significa anche “approcci”.
Riusciranno questi nostri preti – che siamo noi – a dialogare con i “barbari”
che stanno scendendo e che sono nomadi (perché
fanno contemporaneamente piů cose, parlano al cellulare, chattano,
studiano, e chissŕ poi come ci riescono!, ce lo
chiediamo tutti) e vivono su ŕmbiti diversi
contemporaneamente? Riusciranno a parlare di Gesů a persone costruite, a personaggi piů che persone? (“Saranno
famosi”… “L’isola dei famosi”… I nostri adolescenti fanno anche notti in fila
per un’audizione, per entrare in questo numero di famosi!) Riusciranno a
parlare a queste persone che non riconoscono piů il Padre? L’altro termine,
oltre il “Don”, con cui noi in qualche maniera siamo individuati (nella Diocesi
di Napoli questo č molto piů accentuato) č “Padre”. Allora, capite da voi che
uno che si presenti come padre non puň essere riconosciuto da una generazione
(non parlo solo dei giovani, ma dei quarantenni, dei cinquantenni che cercano
di mimetizzarsi con i “barbari”) che non riconosce quella figura. Riusciranno i
nostri eroi a parlare del Vangelo di Gesů, della salvezza, ad una generazione “tragica”, nel senso di
“mascherata”, a personaggi di un eterno carnevale a cui,
se togli la maschera, piangono come i Pierrot della nostra infanzia? Allora, seconda sfida: il
prete, in questo profilo, cosě come me lo sono immaginato – la mia riflessione
non viene dallo studio, come sapete, ma dalla prassi pastorale – deve fare i
conti con i “barbari”, che magari saranno anche piů santi di noi, come
scopriremo. Ci saranno santi anche tra i barbari (la storia della Chiesa ne ha
annoverato) e, tra l’altro, qui in Campania, abbiamo alcune di queste
cattedrali – ahimé! – costruite dai barbari.
ť Fuga dal
Ministero.
Č chiaro che, davanti al nuovo, noi abbiamo la reazione
di ritrarci, cioč il nuovo non ci chiama, non ci provoca, non ci stuzzica, non
ci interessa, ma cominciamo una fuga sparsa: ciascuno trova una sua modalitŕ
d’esser prete e quindi una nicchia.
Non ci sono solo i santi nelle nicchie, ma anche tanti presběteri (Mi metto qui, Eccellenza: non mi tocchi!).
Ci sono certe statue che, se toccate, si polverizzano in mano come certe
personalitŕ presbiterali.
“Prepensionamenti”
(sono tutte immagini, piů che un’analisi scientifica): molti sacerdoti sono giŕ
andati in pensione e ci sono le pensioni d’oro (non parlo di quelle
economiche). Per esempio, tra i nostri laici vediamo anche tanti cinquantenni,
un po’ anche per il problema del lavoro che, in etŕ dove in altri tempi si
sarebbe lavorato ancora, dicono: “Sono pensionato”. Quindi c’č una sorta di
stanchezza che, purtroppo, a volte troviamo anche tra i giovani preti e che
dice “fuga”. Č una fuga anche il “cultualismo”. Padre Vanhoye, dall’alto della sua erudizione e del
suo magistero (č stato per noi una “reliquia” averlo qui stamattina, guardarlo
e ascoltarlo), ci ha detto di un contrasto tra Gesů e il culto ufficiale. Ha
fatto anche una differenza tra visione vetero e
neo-testamentaria e mi sono chiesto se tutti i nostri sforzi – ed č, purtroppo, ancora la stragrande maggioranza dei nostri
sforzi, delle nostre energie profuse per il culto – non dicano di un sacerdozio
che non č ancora neotestamentario.
Rigiditŕ nel
magistero morale. Se
guardate anche l’orizzonte – credo che sia un po’
sotto gli occhi di tutti – c’č un arco costituzionale, nella percezione del
magistero morale, dove si va da un eccesso all’altro ed č cosě difficile
trovare un equilibrio, trovare un gruppo di sacerdoti, un presbitčrio che porti
avanti, anche sui temi morali, un annuncio, piů che una denuncia, piů che
un’aggressione, piů che una sassaiola! La rigiditŕ morale č anch’essa una sorta
di fuga: č quella per i quali tutto č peccato, che si scagliano continuamente
come nuovi Savonarola…
“Pastorale bonsai”
č un termine coniato da Don Tonino Lasconi un po’ di anni fa (alcuni di voi me l’hanno giŕ
sentito raccontare) ed č la pastorale con il mio gruppettino
di quattro persone…
Tu fai un incontro: quanta gente viene? Cinque… Sei… Quando sono fortunato anche
dieci… E questo, rispetto ai duemila, tremila, diecimila abitanti della tua
parrocchia, in che relazione si pone? Certamente dobbiamo incontrare le persone
– lo dirň di qui a poco – ma questo č anche una fuga:
il bonsai č un alberello simpatico, si mette un po’ d’acqua, mi fa anche i
fiori e mi compiaccio. Ecco, la “pastorale bonsai” č rinunciare alla massa,
rinunciare alla dimensione “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo”.
Orge del potere. A volte, anche la fuga di
cercare un posto o un altro č un modo per non stare sul campo, perché il prete non
č importante per il titolo che ha, perché č monsignore, perché ha un ufficio
con tanto di targa in Curia, ma per il fatto che evangelizza (Guai a me se non annunciassi il Vangelo!).
Vite parallele. A volte, ci sono vite
impeccabili nell’aspetto esteriore, ma poi scopri altri itinerari…
Pastorale
turistica. Non
intendo assolutamente parlare di quelli che fanno i pellegrinaggi con impegno o
che, ad Amalfi o in altre diocesi costiere, svolgono la pastorale del turismo,
ma parlo, invece – e qui comincio a entrare piů dentro alle nostre
problematiche – di preti che trovi sempre in giro. Dov’č Don Giovanni? Č a Lourdes. Poi chiedi la settimana dopo: Dov’č? Č a Fatima, č a Medjugorje, č in
montagna, č sul fiume… Cioč questa voglia d’essere continuamente fuori, fuori
del luogo, dello spazio e anche delle persone che mi sono state affidate. Preti manager, preti no-global,
preti anti-camorra… A proposito dei preti anti-camorra: se ci sono i preti
anti-camorra, forse ci saranno anche quelli pro? Allora, vorrei che giungesse
ai preti della Campania un abbraccio da parte dei vostri Vescovi perché tanti
preti, silenziosamente – non parlo di quelli che fanno le conferenze, che
mettono gli striscioni, che vanno con le scorte, che partecipano ai programmi
televisivi – tanti sacerdoti – a cui va il nostro
ringraziamento – vivono quotidianamente in situazioni di grave disagio senza
mai protestare e portano avanti una presenza in luoghi dove altre “agenzie”,
comprese quelle dello Stato, sono assenti. Ci sono a Napoli – e non solo –
luoghi, quartieri, dove quando c’č il coprifuoco, neanche i carabinieri si
azzardano a varcare certe soglie. Il prete lŕ c’č.
Questi preti
li ho definiti aggettivati: ma č
possibile (lancio una provocazione) avere solo “preti” col sostantivo? Perché,
a volte, l’aggettivazione va a coprire un vuoto che, invece, dovrebbe sostenere
il sostantivo; č possibile che dobbiamo sempre trovare delle colorazioni?
ť La fatica di stare dentro la storia e dentro l’identitŕ
presbiterale.
Č anche questo un luogo di tensione: fedeltŕ all’uomo e fedeltŕ al Maestro. Questa č la lezione dell’Incarnazione – ce l’ha
ricordato con grande chiarezza Padre Vanhoye, stamattina – di
questo farsi in tutto simile agli uomini da parte di Gesů. E se questo l’ha
fatto il Maestro, che non ha considerato
un tesoro geloso
’E pparole
Quant’č bello ‘o culore d’e pparole
e che festa addiventa
nu foglietto,
nu piezzo ‘e carta -
nu’ importa si č stracciato
e po’ azzeccato -
e si č tutto ngialluto
p’ ‘a vecchiaia,
che fa?
che te ne mporta?
Addeventa na festa
si ‘e pparole
ca porta scritte
so’ state scigliute
a ssicond’ ‘o culore d’ ‘e pparole.
Tu liegge
e vide ‘o blů
vide ‘o cceleste
vide ‘o russagno
‘o vverde
‘o ppavunazzo,
te vene sotto all’uocchie
ll’amaranto
si chillo c’ha
scigliuto
canusceva
‘a faccia
‘a voce
e ll’uocchie
‘e nu tramonto.
Chillo ca sceglie,
si nun sceglie
buono,
se mmescano ‘e
culore d’ ‘e pparole.
E che succede?
Na mmescanfresca
‘e migliar’ ‘e parole,
tutte eguale
e d’ ‘o stesso culore:
grigio scuro.
Nun siente ‘o mare,
e ‘o mare parla,
dice.
Nun parla ‘o cielo,
e ‘o cielo č pparlatore.
‘A funtana nun mena.
‘O viento
more.
Si sbatte nu
balcone,
nun ‘o siente.
‘O friddo se cunfonne c’ ‘o calore
e ‘a gente parla cumme
fosse muta.
E chisto č ‘o
punto:
manco nu
pittore
po’ scegliere ‘o culore
d’ ‘e pparole.
Ma se un pittore non puň scegliere il colore delle parole,
forse che non deve sceglierle un prete? Ed č questo sforzo che vuole essere la
provocazione di questo pomeriggio, dopo le due magistrali lezioni di
stamattina, di traduzione: noi stiamo qui e dobbiamo tradurre il Vangelo in questo luogo, in questa cultura, in questi
frangenti, con questo dialetto, perché
ť La gioia di essere preti oggi in Campania.
Sono stato invitato a Benevento due anni fa, perché
La gioia di essere preti oggi in Campania č lo sforzo di
passare da una religiositŕ popolare ad una fedeltŕ di popolo. Monsignor Arrigo, Vescovo di
Ivrea, a proposito della religiositŕ popolare del sud, diceva: Tenetevela cara,
questa religiositŕ, perché noi al nord siamo murati nelle chiese: piů che dire
messa non possiamo fare, non abbiamo nessuna forma esterna (equivoca – starete
pensando; certamente, equivoca) nella quale inserirci per evangelizzare.
Per cui il passaggio č da una religiositŕ popolare ad una fede di popolo.
Certamente
Gioia di
riconoscersi.
Simmo ’e Napule, paisa’! Questa parola – paisa’ – nella letteratura dell’Ottocento, del
Novecento, significava riconoscersi, e forse i preti della Campania si devono
riconoscere in queste radici, devono sentire la gioia di abitare i “golfi della bellezza”, che č un termine che coniarono i
fratelli Alinari,
fotografi di Firenze, che vennero giů a fare un primo fotoreportage
nell’Ottocento. Devono sentire che la nostra gente č anche radicata nel luogo.
Ricordate
ť La fatica della comunione.
Tutto questo, da soli, č impossibile. Monsignor Cece, una
volta, interrogato – Come sono i tuoi
preti? – non pubblicamente (Monsignor Cece dŕ il meglio di sé quando č defilato), diede questa definizione che mi
sembra “pittata”: “Ottimi padri, figli
mediocri, pessimi fratelli”. Ecco, questo č il nostro quadro, cari
confratelli. Dove vogliamo andare da soli? Ognuno nella sua parrocchia, ognuno
nella sua piccola auto, ognuno con la sua “pastorale bonsai”, ciascuno a fare
pedantemente le stesse cose che si fanno in cento altre chiese nel circondario…
Dobbiamo assumere la fatica della comunione che č l’unico punto – che č anche
un’ascesi, cui ci dobbiamo educare – che ci potrŕ permettere di fare uno scatto
e di smettere di rincorrere la storia e di starci dentro.
Il Presbiterio di
carta e quello reale: i numeri non coincidono! Ognuno di noi ha gli annuari e
dice: “Questo non lo posso toccare… Questo č anziano… Questo č ammalato…
Questo, se gli cambio la nicchia, si polverizza…”. E, alla fine, abbiamo un
piccolo drappello: quelli che fanno molto sono disposti a fare molto di piů;
quelli che fanno poco finiscono col protestare perché fanno troppo.
Da “cani sciolti” a
corpo organico. Ho
colto questa espressione sulla bocca di un prete di Napoli con cui ho parlato
appena quindici giorni fa. Siamo come “cani sciolti”: ognuno va per i fatti
suoi, non ci guardiamo, non ci stimiamo, non sentiamo che da questo “pantano”
usciremo solo insieme, come si diceva nel primo documento per il Mezzogiorno
della CEI. Quindi, deve nascere una spiritualitŕ
dagli incontri diocesani e regionali: quello di oggi č un miracolo! Anche
se non abbiamo parlato tanto, o non ci siamo confrontati, solo il fatto di
vederci č un incoraggiamento, cioč ci sono tante persone che come me lottano perché il
Presbiterio č anche luogo di guarigione, dove una povertŕ, una precarietŕ –
fosse anche morale, come dirň in fondo – puň diventare un punto di forza.
ť La caritŕ pastorale dentro la realtŕ.
Cito il Vescovo di Ischia che, presentandovi, presentando
i nostri preti alla Congregazione del Clero nel Gennaio 2007, nella Visita ad limina, esordě con questa espressione: “I nostri preti odorano di pecora e di pesce”.
Cosě siete stati definiti. Sembra offensivo, invece risultň una cosa simpatica
sulla bocca del Vescovo Filippo, a rappresentare che i nostri preti stanno
dentro la storia – le mani puzzano di pecora, se sono pastori; di pesce, se
sono pescatori – cioč stanno dentro la realtŕ, perché l’efficacia del Ministero č direttamente proporzionale all’aderenza
alla realtŕ. Mi chiedo: non dovremmo ripensare la parrocchia come una
grande opportunitŕ di stare dentro, di avere relazioni, di conoscere Giovanni,
Francesca, i due che stanno in crisi, quelli che vengono a sposarsi? Non č la parrocchia un crocevia di relazioni?
Le nazioni e le regioni, dove č venuto meno questo senso parrocchiale, si sono
polverizzate in una maniera terribile.
Una parola va detta anche sulla Facoltŕ. C’č una frattura tra
I nostri incontri degli ex alunni sanno un po’ di
patetico, invece bisognerebbe comprendere come questo luogo sia importante,
perché č un luogo del pensare, in cui dovrebbe esserci anche un raccordo con la
prassi pastorale, e non solo negli anni della formazione, diciamo, ufficiale.
Giovanni Paolo II č
morto all’atto in cui non ha potuto ricaricarsi nel contatto con le folle: č
ancora pensabile che il campo pastorale sia solo il luogo in cui ci svuotiamo? Mi sono sempre chiesto: ma quel
Papa come faceva a mantenere un ritmo cosě stressante? La risposta č che la
caritŕ pastorale, di cui parla abbondantemente in Pastores,
non l’ha solo teorizzata: l’ha vissuta. Tant’č vero –
l’abbiamo visto anche nelle visite alle nostre Chiese in regione – che,
arrivato stanco, ripartiva ringiovanito. Ecco, questo deve accadere. Purtroppo
c’č un cortocircuito nella nostra attivitŕ pastorale, cioč noi ci stanchiamo
soltanto. Allora, se voi e noi, all’atto in cui parliamo, predichiamo,
catechizziamo, organizziamo, celebriamo, abbiamo bisogno, dopo, solo di
riposarci, c’č qualcosa che non va in quello che noi facciamo, perché il campo
pastorale č anche un luogo di apprendimento, č il luogo della santificazione
dei presběteri: inutilmente noi
cercheremo il Risorto nella tomba vuota (pastorale statica), perché Lui ci
precede in Galilea (pastorale dinamica).
Dall’organizzazione pastorale di una comunitŕ ad una comunitŕ di
apprendimento:
questa č una linea che va avanti sul piano pedagogico, anche laico, in Francia
e che poi č stata mutuata sul piano pastorale da alcuni pastoralisti,
dove si dice che bisogna imparare sul campo e, quindi, fare una verifica e
dire: com’č andata questa riunione? Se ci fate caso, nelle nostre Diocesi – credo tutte –
facciamo cinquecento piani e quasi nessuna verifica. Siamo riusciti? Il Vescovo
č riuscito a tradurre? Č passato il messaggio?
ť Evangelizzare le fragilitŕ del prete.
Qui tocco un punto veramente doloroso per noi in questo
momento, perché stiamo vivendo l’Anno Sacerdotale – e glissare questo aspetto,
sarebbe stato, in questo luogo, perlomeno fuorviante – che coincide, da un
lato, con un attacco frontale, ma anche con l’emergere e l’emergenza di una
fragilitŕ tra di noi. L’insistenza ossessiva su alcuni temi morali č tornata come un boomerang in un atto d’accusa (č una delle
letture): Voi che avete insistito e che
ci lanciate i sassi dall’altare, ecco, siete i primi a non vivere appieno
quello che predicate! Allora, forse, va ripensata anche la predicazione dal “tu devi”, su cui
ancora, purtroppo, s’immergono tante catechesi e tanta predicazione, al “tu sei”. Ricordate San Leone Magno?
“Cristiano, diventa quello che sei!”. Ripartire dal “tu sei” significa: Tu sei
figlio, tu sei salvato, tu sei amato… Dopo, l’agire morale diventa una
risposta, forse anche piů radicale di quella che noi saremmo in grado di
proporre. Quindi, l’agire morale come
risposta al dono di scoprirsi figlio di Dio. L’isolamento del prete č
all’origine di tutte le devianze! Allora, c’č un’“emergenza di fraternitŕ”: non c’č crisi che non nasca
dall’essersi tirati fuori dal Presbiterio, dalla fraternitŕ e, allora, se c’č
un’“emergenza fraternitŕ”, i preti della Campania, nel riscoprirsi chiamati,
nel riscoprirsi strumenti di salvezza per gli altri, devono riaffasciarsi,
e questo a vario titolo. Certamente, c’č il Presbiterio nella sua interezza, ma
poi ci sono altre forme che ciascuna Diocesi ha messo a punto, dove č
impossibile non incontrarsi: non ci possiamo ignorare da vicini di casa.
Spiritualitŕ della
ricchezza contenuta in vasi di creta.
Noi non dobbiamo avere paura di dire: “Quello che vi
annunciamo condanna innanzi tutto noi”, proprio perché non č, la nostra,
l’impostazione del “tu devi”, dell’imperativo categorico, ma della risposta
d’amore e della grazia che oggi opera in noi la risposta alla chiamata:
chiamati per grazia e rispondenti per grazia. Ma
questo passa attraverso la nostra fragilitŕ. Il Convegno di Loreto l’ha messo a
tema (poi si č un po’ perso, anche nella nostra riflessione): la fragilitŕ puň
essere un luogo di crescita, un luogo per rimotivarsi.
Ricominciamo ogni giorno daccapo (Quando sono
debole č allora che sono forte). Quindi, spiritualitŕ della ricchezza
contenuta in vasi di creta: non siamo migliori. Dovremmo avere il coraggio di dirlo:
non siamo migliori! Non costituiamo
una classe, una élite
che risplende particolarmente: quello che siamo di buono, lo abbiamo ricevuto;
quello che vedi di negativo, č mio. Quindi, bisogna smettere anche certi abiti
di superioritŕ. Sto dicendo queste cose in margine al momento drammatico che
stiamo vivendo, che pure ci interpella e che in qualche maniera deve produrre
dei frutti.
Uno di questi frutti č stato giŕ discusso – poi ne
riparleremo nella Conferenza Episcopale Campana – ma č
da molti anni che si ipotizza questa iniziativa:
Un luogo
terapeutico dei preti in Campania?
La difficoltŕ a mentalizzare
una cosa del genere, prima che legata a “dove lo facciamo?,
chi lo fa?, chi mette la copertura economica?” č il problema stesso dell’ospedale,
cioč, un ospedale, uno vorrebbe non vederlo e perché? Perché mi ricorda che ci
si puň ammalare, perché č un monumento, una sorta di indice che ti dice: Adesso
stai bene, ma puoi anche ammalarti (cosě come il cimitero mi ricorda che
morirň). Questo luogo terapeutico fa difficoltŕ a entrare, perché noi facciamo
difficoltŕ a capire che dobbiamo sporcarci le mani con questa nostra fragilitŕ,
che č di tutti! Il mio timore – e qui dico una cosa personalissima su cui molti
di voi non saranno d’accordo – č che l’azione portata avanti con decisione – e
non possiamo non condividerla! – da parte del Papa Benedetto, possa condurre ad
una sorta di guerra, ad un’ecatombe, e possa condurre
Una volta, un Giovedě Santo – non potrň mai dimenticarlo
– feci una predica nella mia parrocchia (ero giovane prete, avevo entusiasmo…):
“Noi preti siamo chiamati a cose grandi, perň vi chiediamo perdono perché siamo
peccatori”. Quando siamo entrati in sacrestia, Don
Alfredo, buonanima, disse: “Parla pe’ te!”, a dire:
Io non c’entro in questa tua richiesta di perdono!
Chiudo con un augurio. C’č una solaritŕ – io credo e spero
che, al di lŕ di tutto, sia venuta fuori, sia
emersa, sia pure poveramente da quello che ho detto – un dono che appartiene a
noi preti napoletani (intendo “della Campania”): la solaritŕ č un dono di
ottimismo, di vicinanza alle persone, di ospitalitŕ, di accoglienza, di
apertura verso l’altro che ci viene dal passato e che č un patrimonio che noi
non dobbiamo sciupare. Č espresso in una maniera mirabile – chiudo con queste
parole, per continuare nella letteratura e nelle canzoni napoletane – nel testo
'O paese d''o sole. Vorrei che cosě fossero i nostri presbitčri, le
nostre Diocesi e le nostre Chiese della Campania:
Chist'č 'o paese addó tutt''e pparole,
so' doce o so' amare,
so' sempe parole d'ammore.
~
Il testo, tratto direttamente dalla registrazione,
non č stato rivisto dall’autore.