Convegno Regionale

“Preti oggi in Campania.

Un ministero di speranza per la nostra terra”

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Profili di spiritualitŕ presbiterale

per un ministero della speranza

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Relazione

di

S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello

Vescovo della Diocesi di Teano-Calvi

 

Santuario di Pompei, 11 maggio 2010

***

 

Le due anime del prete: il discepolo e il missionario.

Tensione tra il “restare” e “l’andare”.

Continuamente formati per informare.

Frammentarietŕ della formazione: lavori in corso?

Cantieri sigillati, lavori interrotti, strade senza uscita…

 

La paura del nuovo:  il prete e i barbari.

Nomadi (abitano piů spazi sociali), Costruiti (personaggi piů che persone), Orizzontali (l’impero dei pari), Tragici perché fragili (in lacrime sotto le maschere).

 

Fuga dal Ministero:

una nicchia, prepensionamenti, cultualismo, rigiditŕ nel magistero morale, pastorale bonsai, orgia del potere, vite parallele, pastorale turistica, preti manager, preti no-global, preti anticamorra, preti aggettivati…: Cercasi preti senza aggettivi!

 

La fatica di stare dentro la storia e dentro l’identitŕ presbiterale.

Fedeltŕ all’uomo e fedeltŕ al Maestro: Incarnazione. Il problema del linguaggio. Il Vangelo in dialetto. La Parola dentro le parole nell’areopago  dei linguaggi. La fatica di tradurre senza tradire.

 

La gioia di essere preti oggi in Campania.

Inseriti in una storia di santitŕ:  Sant’Alfonso e  Beato Vincenzo Romano. Da una religiositŕ popolare a una fede di popolo. Gioia di riconoscersi (“Simmo ‘e Napule, paisŕ!”) di abitare i “golfi della bellezza” (“O paraviso nuosto č chillu llŕ”), di piantare  nel  cuore del presente la bandiera della speranza (“Ancora quantu tiempo...)

 

      La fatica della comunione.

“Ottimi padri, figli mediocri, pessimi fratelli”

Dalla funzionalitŕ della collaborazione alla sacramentalitŕ della comunione. Il Presbiterio di carta e quello reale:   i numeri  non

coincidono!  Da “cani sciolti” a corpo organico. Spiritualitŕ dell’incontro diocesano (e regionale?). Il Presbiterio  luogo di guarigione in cui sperimentare la forza nella debolezza: “furono  sfamati circa cinquemila uomini”.

 

      La caritŕ pastorale dentro la realtŕ.

“I nostri preti odorano di pecora e di pesce”: l’efficacia del ministero č direttamente proporzionale all’aderenza  alla  realtŕ. La parrocchia, crocevia di relazioni, ancora tutta da scoprire. Frattura tra la Facoltŕ teologica e la prassi pastorale, tra il tempo della formazione e quello del ministero, tra riflessione teologica e spiritualitŕ, tra teoria e prassi. Giovanni Paolo II č morto all’atto in cui non ha potuto ricaricarsi nel contatto con le folle: č ancora pensabile che il campo pastorale sia solo il luogo in cui ci svuotiamo? E’ possibile continuare ad imparare sul campo? Il luogo della santificazione dei Presbiteri č la strada  (Emmaus): inutilmente cercheremo il Risorto nella tomba vuota (pastorale statica) perché Lui ci precede in Galilea (pastorale dinamica). Dall’organizzazione pastorale di una comunitŕ a  una  comunitŕ di apprendimento: camminando s’apre cammino.

 

      Evangelizzare le fragilitŕ del prete.

L’insistenza ossessiva su alcuni temi morali č tornata come boomerang in un atto di accusa. Dalla predicazione del “Tu devi” alla pastorale del “Tu sei”: l’agire morale come risposta al dono di scoprirsi figlio di Dio. L’isolamento del prete č all’origine di tutte le devianze: emergenza fraternitŕ. Spiritualitŕ della ricchezza contenuta in vasi di creta: “Quando sono debole č allora  che sono forte”. “Non siamo migliori!”. Un luogo terapeutico per i preti della Campania? 

 

***

 

Ho preparato questo piccolissimo schema che non ha alcuna presunzione (comincio a fare la critica prima che la facciate voi): certamente manca di sistematicitŕ, ma vuole essere una griglia di riflessione per questo momento, ma anche per momenti successivi, e contiene una serie di stimolazioni, di immagini. Non sarei in grado di mantenere la levatura culturale dei relatori di questa mattina ma, d’altra parte, come sapete, in questo convegno sono venute a convergere due anime: della Facoltŕ Teologica, e un incontro per i sacerdoti – che la Conferenza Episcopale Campana aveva giŕ in programma – piů a taglio spirituale-pastorale (quindi, solo per questo motivo mi vedete qui prendere la parola). Ovviamente, il titolo – Profili di spiritualitŕ presbiterale per un Ministero della speranza – offriva varie possibilitŕ di percorso. Per esempio, un percorso interessante sarebbe stato – e potrebbe essere in seguito – guardare nel concreto alcune figure di preti in Campania – e ce ne sono tanti nella storia di santitŕ del nostro territorio, delle nostre Chiese – da recuperare come una sorta di sorgente per il Ministero dei preti oggi, in Campania. L’altra ipotesi era fare una riflessione “portando i vasi a Samo”, quindi una serie di citazioni da documenti.

Questo schema non ha alcuna citazione, nessun riferimento, e questo per agilitŕ e per una scelta precisa che ho inteso fare, offrendo degli stimoli. Se in qualche punto – e vado subito al testo – doveste cogliere una punta di polemica, č assolutamente fuori del mio obiettivo (d’altra parte – con molti di voi ci conosciamo – tutto mi appartiene, tranne la polemica). Invece, puň essere utile cogliere quei punti nevralgici che normalmente sono anche punti di crisi, punti dibattuti e sofferti della nostra vita, da cui puň nascere qualcosa di nuovo per il nostro fare e pensare pastorale.

 

ť Le due anime del prete: il discepolo e il missionario.

Noi viviamo continuamente e veniamo presi da questa tensione, che a volte ci lacera e a volte ci esalta, tra il discepolo e il missionario. Č presente nel Vangelo, per quanto concerne gli apostoli, i quali sono chiamati a stare con Gesů e poi ad andare a predicare. Non sempre – e direi che un equilibrio definitivo sia impossibile – noi riusciamo ad armonizzare queste due anime, cioč l’aspetto contemplativo (la preghiera personale, la celebrazione dell’Ufficio, la Liturgia delle Ore, la meditazione) con i mille impegni, le mille sollecitazioni che ci vengono dalle nostre comunitŕ e che nascono anche dal nostro cuore di Pastori. Dobbiamo rassegnarci – io vi direi cosě – a vivere questa tensione e a sentirci continuamente come portati tra due fuochi di un’ellisse, che č la nostra identitŕ presbiterale, a passare dalla contemplazione all’azione, dall’azione alla contemplazione, dall’essere con Gesů per imparare da Lui e quindi raccontare di Lui.

Continuamente formati per informare. Qui cominciamo a toccare alcuni punti dolorosi e cioč la formazione del presbitero č – adesso dico la parola, ma č una bestemmia per il nostro vissuto – permanente. La formazione permanente, nonostante tutti gli sforzi che abbiamo fatto in questi anni in tutte le Diocesi della nostra regione, č ancora un’“Araba Fenice” (Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa). Non voglio demolire nulla, se non mettere a tema la resistenza – attenti che non sto parlando da Vescovo: sto parlando da prete – la resistenza che noi da sempre abbiamo avvertito quando viene qualcuno e ci dice: “Tu devi continuare a formarti”. Abbiamo un senso di astio, pensiamo che voglia raccontarci delle cose nuove, mentre noi, dall’alto della nostra supponenza, sappiamo bene cosa dire e cosa fare. Ed č questo uno dei problemi alla base anche di tanta vita, a volte insignificante dal punto di vista pastorale, e cioč chi č formato deve formarsi continuamente perché, mentre il deposito della fede č lě (tra l’altro leggiamo, nell’ultimo Padre della Chiesa, che anche il dogma č in evoluzione), ancor piů siamo in cammino e in evoluzione noi, e tanto piů le nostre comunitŕ, e rischiamo di correre continuamente dietro un treno senza afferrarlo.

Immaginarsi quando, anziché una formazione permanente, noi abbiamo cantieri sigillati, lavori interrotti, strade senza uscita! “Lavori in corso” dovrebbe essere la modalitŕ vivace, bella, che dice della vitalitŕ di un Presbiterio (mi č piaciuta la svista di Padre Roberto, stamattina – e vorrei sottolinearla – che qui sono certamente raccolti i presběteri, ma a nome e per conto di interi presbitčri). Nei presbitčri, il cartello “lavori in corso” difficilmente si trova. Piuttosto, abbiamo l’idea di qualcosa di statico, di cose che si sono fatte e che bisogna ripetere in una maniera pedante, piccole novitŕ che sembrano il belletto che a volte mettono le signore ultraottantenni per cercare inutilmente di nascondere le loro rughe. Siamo ancora fuori e lontani da un vero cammino di formazione dei presběteri, dei Vescovi insieme con i presběteri, nelle nostre Chiese locali. Quindi, primo punto: stiamo a dibatterci tra queste due anime, anche a causa del nuovo, a causa dei “barbari”.

 

ť La paura del nuovo: il prete e i barbari.

Un libro che io sento di consigliarvi – e, ahimé, non č un libro spirituale – č “I barbari” di Baricco; non č un romanzo, ma č una sorta di piccolo trattato su quello che l’uomo oggi sta vivendo e sulla difficoltŕ che si ha nei confronti del nuovo, cosě come – il titolo “I barbari” viene da quel contesto – i Romani avvertirono la venuta delle tribů dal nord come se mettessero in forse la forza del diritto, la civitas romana. In realtŕ, San Gregorio Magno e altri Papi hanno cercato di dialogare con i barbari, perché tutto quello che č nuovo, inizialmente viene raccolto come qualcosa di negativo. Allora, il prete – e quindi anche il prete in Campania (quello che sto dicendo qui vale ovviamente dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno) – deve familiarizzare con quest’uomo che č l’uomo di oggi, che č il giovane di oggi (col piercing, con l’orecchino, con tutte quelle maněe che vediamo) che viene in chiesa come un gallo, con i capelli rizzati in testa (per dire le forme piů esterne). Ma questa persona respira un’aria che non č quella nella quale noi ci siamo formati e questo significa anche “lingue”, significa anche “approcci”. Riusciranno questi nostri preti – che siamo noi – a dialogare con i “barbari” che stanno scendendo e che sono nomadi (perché fanno contemporaneamente piů cose, parlano al cellulare, chattano, studiano, e chissŕ poi come ci riescono!, ce lo chiediamo tutti) e vivono su ŕmbiti diversi contemporaneamente? Riusciranno a parlare di Gesů a persone costruite, a personaggi piů che persone? (“Saranno famosi”… “L’isola dei famosi”… I nostri adolescenti fanno anche notti in fila per un’audizione, per entrare in questo numero di famosi!) Riusciranno a parlare a queste persone che non riconoscono piů il Padre? L’altro termine, oltre il “Don”, con cui noi in qualche maniera siamo individuati (nella Diocesi di Napoli questo č molto piů accentuato) č “Padre”. Allora, capite da voi che uno che si presenti come padre non puň essere riconosciuto da una generazione (non parlo solo dei giovani, ma dei quarantenni, dei cinquantenni che cercano di mimetizzarsi con i “barbari”) che non riconosce quella figura. Riusciranno i nostri eroi a parlare del Vangelo di Gesů, della salvezza, ad una generazione “tragica”, nel senso di “mascherata”, a personaggi di un eterno carnevale a cui, se togli la maschera, piangono come i Pierrot della nostra infanzia? Allora, seconda sfida: il prete, in questo profilo, cosě come me lo sono immaginato – la mia riflessione non viene dallo studio, come sapete, ma dalla prassi pastorale – deve fare i conti con i “barbari”, che magari saranno anche piů santi di noi, come scopriremo. Ci saranno santi anche tra i barbari (la storia della Chiesa ne ha annoverato) e, tra l’altro, qui in Campania, abbiamo alcune di queste cattedrali – ahimé! – costruite dai barbari.

 

ť Fuga dal Ministero.

Č chiaro che, davanti al nuovo, noi abbiamo la reazione di ritrarci, cioč il nuovo non ci chiama, non ci provoca, non ci stuzzica, non ci interessa, ma cominciamo una fuga sparsa: ciascuno trova una sua modalitŕ d’esser prete e quindi una nicchia. Non ci sono solo i santi nelle nicchie, ma anche tanti presběteri (Mi metto qui, Eccellenza: non mi tocchi!). Ci sono certe statue che, se toccate, si polverizzano in mano come certe personalitŕ presbiterali.

Prepensionamenti” (sono tutte immagini, piů che un’analisi scientifica): molti sacerdoti sono giŕ andati in pensione e ci sono le pensioni d’oro (non parlo di quelle economiche). Per esempio, tra i nostri laici vediamo anche tanti cinquantenni, un po’ anche per il problema del lavoro che, in etŕ dove in altri tempi si sarebbe lavorato ancora, dicono: “Sono pensionato”. Quindi c’č una sorta di stanchezza che, purtroppo, a volte troviamo anche tra i giovani preti e che dice “fuga”. Č una fuga anche il “cultualismo”. Padre Vanhoye, dall’alto della sua erudizione e del suo magistero (č stato per noi una “reliquia” averlo qui stamattina, guardarlo e ascoltarlo), ci ha detto di un contrasto tra Gesů e il culto ufficiale. Ha fatto anche una differenza tra visione vetero e neo-testamentaria e mi sono chiesto se tutti i nostri sforzi – ed č, purtroppo, ancora la stragrande maggioranza dei nostri sforzi, delle nostre energie profuse per il culto – non dicano di un sacerdozio che non č ancora neotestamentario.

Rigiditŕ nel magistero morale. Se guardate anche l’orizzonte – credo che sia un po’ sotto gli occhi di tutti – c’č un arco costituzionale, nella percezione del magistero morale, dove si va da un eccesso all’altro ed č cosě difficile trovare un equilibrio, trovare un gruppo di sacerdoti, un presbitčrio che porti avanti, anche sui temi morali, un annuncio, piů che una denuncia, piů che un’aggressione, piů che una sassaiola! La rigiditŕ morale č anch’essa una sorta di fuga: č quella per i quali tutto č peccato, che si scagliano continuamente come nuovi Savonarola

Pastorale bonsai” č un termine coniato da Don Tonino Lasconi un po’ di anni fa (alcuni di voi me l’hanno giŕ sentito raccontare) ed č la pastorale con il mio gruppettino di quattro persone…

Tu fai un incontro: quanta gente viene? Cinque… Sei… Quando sono fortunato anche dieci… E questo, rispetto ai duemila, tremila, diecimila abitanti della tua parrocchia, in che relazione si pone? Certamente dobbiamo incontrare le persone – lo dirň di qui a poco – ma questo č anche una fuga: il bonsai č un alberello simpatico, si mette un po’ d’acqua, mi fa anche i fiori e mi compiaccio. Ecco, la “pastorale bonsai” č rinunciare alla massa, rinunciare alla dimensione “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo”.

Orge del potere. A volte, anche la fuga di cercare un posto o un altro č un modo per non stare sul campo, perché il prete non č importante per il titolo che ha, perché č monsignore, perché ha un ufficio con tanto di targa in Curia, ma per il fatto che evangelizza (Guai a me se non annunciassi il Vangelo!).

Vite parallele. A volte, ci sono vite impeccabili nell’aspetto esteriore, ma poi scopri altri itinerari…

Pastorale turistica. Non intendo assolutamente parlare di quelli che fanno i pellegrinaggi con impegno o che, ad Amalfi o in altre diocesi costiere, svolgono la pastorale del turismo, ma parlo, invece – e qui comincio a entrare piů dentro alle nostre problematiche – di preti che trovi sempre in giro. Dov’č Don Giovanni? Č a Lourdes. Poi chiedi la settimana dopo: Dov’č? Č a Fatima, č a Medjugorje, č in montagna, č sul fiume… Cioč questa voglia d’essere continuamente fuori, fuori del luogo, dello spazio e anche delle persone che mi sono state affidate. Preti manager, preti no-global, preti anti-camorra… A proposito dei preti anti-camorra: se ci sono i preti anti-camorra, forse ci saranno anche quelli pro? Allora, vorrei che giungesse ai preti della Campania un abbraccio da parte dei vostri Vescovi perché tanti preti, silenziosamente – non parlo di quelli che fanno le conferenze, che mettono gli striscioni, che vanno con le scorte, che partecipano ai programmi televisivi – tanti sacerdoti – a cui va il nostro ringraziamento – vivono quotidianamente in situazioni di grave disagio senza mai protestare e portano avanti una presenza in luoghi dove altre “agenzie”, comprese quelle dello Stato, sono assenti. Ci sono a Napoli – e non solo – luoghi, quartieri, dove quando c’č il coprifuoco, neanche i carabinieri si azzardano a varcare certe soglie. Il prete lŕ c’č.

Questi preti li ho definiti aggettivati: ma č possibile (lancio una provocazione) avere solo “preti” col sostantivo? Perché, a volte, l’aggettivazione va a coprire un vuoto che, invece, dovrebbe sostenere il sostantivo; č possibile che dobbiamo sempre trovare delle colorazioni?

 

ť La fatica di stare dentro la storia e dentro l’identitŕ presbiterale.

Č anche questo un luogo di tensione: fedeltŕ all’uomo e fedeltŕ al Maestro. Questa č la lezione dell’Incarnazionece l’ha ricordato con grande chiarezza Padre Vanhoye, stamattina – di questo farsi in tutto simile agli uomini da parte di Gesů. E se questo l’ha fatto il Maestro, che non ha considerato un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio, non dobbiamo farlo anche noi? Cioč dobbiamo “stare dentro”. E per stare dentro, bisogna stare anche dentro ai cambiamenti – ed č faticoso – dentro i linguaggi, bisogna saper tradurre, altrimenti andiamo incontro alla confusione. E qui vorrei brevemente proporvi un testo di Eduardo, visto che stiamo facendo una riflessione sui preti della Campania. Ho fatto la scelta di utilizzare la napoletanitŕ – non riferita alla Diocesi o alla cittŕ di Napoli – pur sapendo che c’č la parte sannitico-irpina, poi c’č la parte salernitano-lucana (sono le tre anime della nostra regione), ma credo ci ritroviamo tutti nella dimensione di Napoli (quando si va all’estero non si dice: “Io sto a Caserta… Io sto ad Avellino… Io sto a Benevento… Io sto ad Aversa…”, ma “Sto a Napoli”). Eduardo, come ogni artista, come ogni attore che gioca con le parole, ci ha consegnato questa poesia:

 

’E pparole

 

Quant’č bello ‘o culore d’e pparole
e che festa addiventa nu foglietto,
nu piezzo ‘e carta -
nu’ importa si č stracciato
e po’ azzeccato -
e si č tutto ngialluto
p’ ‘a vecchiaia,
che fa?
che te ne mporta?
Addeventa na festa
si ‘e pparole
ca porta scritte
so’ state scigliute
a ssicond’ ‘o culore d’ ‘e pparole.
Tu liegge
e vide ‘o blů
vide ‘o cceleste
vide ‘o russagno
‘o vverde
‘o ppavunazzo,
te vene sotto all’uocchie ll’amaranto
si chillo c’ha scigliuto
canusceva
‘a faccia
‘a voce
e ll’uocchie ‘e nu tramonto.
Chillo ca sceglie,
si nun sceglie buono,
se mmescano ‘e culore d’ ‘e pparole.
E che succede?
Na mmescanfresca
‘e migliar’e parole,
tutte eguale
e d’ ‘o stesso culore:
grigio scuro.
Nun siente ‘o mare,
e ‘o mare parla,
dice.
Nun parla ‘o cielo,
e ‘o cielo č pparlatore.
‘A funtana nun mena.
‘O viento more.
Si sbatte nu balcone,
nun ‘o siente.
‘O friddo se cunfonne c’ ‘o calore
e ‘a gente parla cumme fosse muta.
E chisto č ‘o punto:
manco nu pittore
po’ scegliere ‘o culore d’ ‘e pparole.

 

Ma se un pittore non puň scegliere il colore delle parole, forse che non deve sceglierle un prete? Ed č questo sforzo che vuole essere la provocazione di questo pomeriggio, dopo le due magistrali lezioni di stamattina, di traduzione: noi stiamo qui e dobbiamo tradurre il Vangelo in questo luogo, in questa cultura, in questi frangenti, con questo dialetto, perché la Parola sta dentro le parole. La Bibbia, da questo punto di vista, č un grande magistero di parola che diventa sarx, che prende sapori, odori, tagli di sguardi e questo, cari confratelli, č la nostra fatica: la fatica di tradurre senza tradire.

 

ť La gioia di essere preti oggi in Campania.

Sono stato invitato a Benevento due anni fa, perché la Diocesi presentava una raccolta di cento profili di preti beneventani. Ogni Diocesi – sarebbe questa anche una buona iniziativa per l’Anno Sacerdotale – dovrebbe tirar fuori certi profili, certi eroismi che parlano, altrimenti noi uccidiamo le persone due volte: sono morte e muoiono anche nella nostra memoria. Noi rischiamo di perdere la memoria e invece dobbiamo conservare qualcosa di quello che č accaduto. Qui ho fatto riferimento a due persone: Sant’Alfonso e Beato Vincenzo Romano che forse conoscono pochi, ma č una sorta di “curato d’Ars” di Torre del Greco. Sant’Alfonso ancora č nelle nostre vene, anche nella tensione del dialetto e con “Tu scendi dalle stelle” ha fatto un’inculturazione del Natale che noi oggi ancora ce la sogniamo nell’efficacia. Sant’Alfonso, in certi canti, non ha liberato la sua vena poetica, ma ha fatto pastorale; ci ha consegnato due aspetti dei presběteri e dei presbitčri della Campania che sono la dimensione Eucaristica (“Visita al Santissimo Sacramento”) e la dimensione mariana. Questa č una sorgente, una sorgente da riscoprire, e quindi i preti oggi, in Campania, non possono fare a meno di fare riferimento a questi grandi del passato di cui ancora beneficiamo.

La gioia di essere preti oggi in Campania č lo sforzo di passare da una religiositŕ popolare ad una fedeltŕ di popolo. Monsignor Arrigo, Vescovo di Ivrea, a proposito della religiositŕ popolare del sud, diceva: Tenetevela cara, questa religiositŕ, perché noi al nord siamo murati nelle chiese: piů che dire messa non possiamo fare, non abbiamo nessuna forma esterna (equivoca – starete pensando; certamente, equivoca) nella quale inserirci per evangelizzare. Per cui il passaggio č da una religiositŕ popolare ad una fede di popolo. Certamente la Madonna di Casaluce che passa sul ponte e poi bisogna cambiare i portanti, e se non si cambiano sono mazzate (succede lo stesso a Teano per Sant’Antonio nel ponte tra Teano e Casi), non č proprio una cosa simpatica ed entusiasmante per un parroco, per un prete, ma costituisce un’occasione, una sfida che a volte noi non cavalchiamo.

Gioia di riconoscersi.

Simmo ’e Napule, paisa’! Questa parola – paisa’ – nella letteratura dell’Ottocento, del Novecento, significava riconoscersi, e forse i preti della Campania si devono riconoscere in queste radici, devono sentire la gioia di abitare i “golfi della bellezza”, che č un termine che coniarono i fratelli Alinari, fotografi di Firenze, che vennero giů a fare un primo fotoreportage nell’Ottocento. Devono sentire che la nostra gente č anche radicata nel luogo. Ricordate la Teologia del mondo che abbiamo studiato quando eravamo giovani? Simme ’e Napule, paisa!... ’o Paraviso nuost e` chistu cca certamente rischia di chiudere l’esperienza nel “qui e adesso”, ma apre anche la possibilitŕ di una riscoperta della terra, ovviamente una terra rispettata (e qui entra tutta la problematica del rispetto delle leggi, del nostro panorama e di quanto viene a inquinare anche la nostra terra, nel senso di terreno). I preti che sono contenti di essere oggi in Campania sono contenti di piantare nel cuore del presente la bandiera della speranza. Qui ho fatto una citazione – e la citazione č da “Carcere ’e mare”: Ancora quantu tiempo ha da' passare, io da ca' dint' me ne voglio ascire di Claudio Mattone a cui forse nessuno di noi ha mai detto grazie, perché con il musical “Scugnizzi” ha presentato l’immagine del prete in Campania che ha fatto piů effetto di tutte le nostre campagne vocazionali. Spero di non scoraggiare Don Emilio che č il responsabile, ma in “Scugnizzi”, fatto da un laico – certamente non ci possiamo trovare una teologia, Gesů non ci sta – c’č un fascino in Don Saverio, che č il protagonista (poi vittima), che ha fatto tanto bene ai nostri giovani. Come vedete, ci sono anche dei riscontri positivi.

 

 

ť La fatica della comunione.

Tutto questo, da soli, č impossibile. Monsignor Cece, una volta, interrogato – Come sono i tuoi preti? – non pubblicamente (Monsignor Cece dŕ il meglio di sé quando č defilato), diede questa definizione che mi sembra “pittata”: “Ottimi padri, figli mediocri, pessimi fratelli”. Ecco, questo č il nostro quadro, cari confratelli. Dove vogliamo andare da soli? Ognuno nella sua parrocchia, ognuno nella sua piccola auto, ognuno con la sua “pastorale bonsai”, ciascuno a fare pedantemente le stesse cose che si fanno in cento altre chiese nel circondario… Dobbiamo assumere la fatica della comunione che č l’unico punto – che č anche un’ascesi, cui ci dobbiamo educare – che ci potrŕ permettere di fare uno scatto e di smettere di rincorrere la storia e di starci dentro.

Il Presbiterio di carta e quello reale: i numeri non coincidono! Ognuno di noi ha gli annuari e dice: “Questo non lo posso toccare… Questo č anziano… Questo č ammalato… Questo, se gli cambio la nicchia, si polverizza…”. E, alla fine, abbiamo un piccolo drappello: quelli che fanno molto sono disposti a fare molto di piů; quelli che fanno poco finiscono col protestare perché fanno troppo.

Da “cani sciolti” a corpo organico. Ho colto questa espressione sulla bocca di un prete di Napoli con cui ho parlato appena quindici giorni fa. Siamo come “cani sciolti”: ognuno va per i fatti suoi, non ci guardiamo, non ci stimiamo, non sentiamo che da questo “pantano” usciremo solo insieme, come si diceva nel primo documento per il Mezzogiorno della CEI. Quindi, deve nascere una spiritualitŕ dagli incontri diocesani e regionali: quello di oggi č un miracolo! Anche se non abbiamo parlato tanto, o non ci siamo confrontati, solo il fatto di vederci č un incoraggiamento, cioč ci sono tante persone che come me lottano perché il Presbiterio č anche luogo di guarigione, dove una povertŕ, una precarietŕ – fosse anche morale, come dirň in fondo – puň diventare un punto di forza.

 

ť La caritŕ pastorale dentro la realtŕ.

Cito il Vescovo di Ischia che, presentandovi, presentando i nostri preti alla Congregazione del Clero nel Gennaio 2007, nella Visita ad limina, esordě con questa espressione: “I nostri preti odorano di pecora e di pesce”. Cosě siete stati definiti. Sembra offensivo, invece risultň una cosa simpatica sulla bocca del Vescovo Filippo, a rappresentare che i nostri preti stanno dentro la storia – le mani puzzano di pecora, se sono pastori; di pesce, se sono pescatori – cioč stanno dentro la realtŕ, perché l’efficacia del Ministero č direttamente proporzionale all’aderenza alla realtŕ. Mi chiedo: non dovremmo ripensare la parrocchia come una grande opportunitŕ di stare dentro, di avere relazioni, di conoscere Giovanni, Francesca, i due che stanno in crisi, quelli che vengono a sposarsi? Non č la parrocchia un crocevia di relazioni? Le nazioni e le regioni, dove č venuto meno questo senso parrocchiale, si sono polverizzate in una maniera terribile.

Una parola va detta anche sulla Facoltŕ. C’č una frattura tra la Facoltŕ Teologica e la prassi pastorale, tra il tempo della formazione e quello del Ministero, tra la riflessione teologica e la spiritualitŕ (i santi sembrano non avere cittadinanza in Teologia, ma non parlo di tutti, beninteso), tra teoria e prassi. C’č l’esperienza, al sud, della regione ecclesiastica della Puglia, che da questo punto di vista ha qualcosa da dirci. Č vero che č un’altra situazione e che c’č un solo Seminario, ma sta di fatto che il discorso che si comincia in Facoltŕ ha dei riscontri anche per i sacerdoti a dieci anni, a vent’anni, a trent’anni, i quali vengono anche invitati ad una sorta di stage, di piccoli corsi, di verifiche, di confronti, anche di tracciati di guarigione. C’č Pio Zuppa, un mio compagno di Seminario, compagno anche di Don Franco Marino, che č un po’ una delle anime di questo istituto di pastorale.

I nostri incontri degli ex alunni sanno un po’ di patetico, invece bisognerebbe comprendere come questo luogo sia importante, perché č un luogo del pensare, in cui dovrebbe esserci anche un raccordo con la prassi pastorale, e non solo negli anni della formazione, diciamo, ufficiale.

Giovanni Paolo II č morto all’atto in cui non ha potuto ricaricarsi nel contatto con le folle: č ancora pensabile che il campo pastorale sia solo il luogo in cui ci svuotiamo? Mi sono sempre chiesto: ma quel Papa come faceva a mantenere un ritmo cosě stressante? La risposta č che la caritŕ pastorale, di cui parla abbondantemente in Pastores, non l’ha solo teorizzata: l’ha vissuta. Tant’č vero – l’abbiamo visto anche nelle visite alle nostre Chiese in regione – che, arrivato stanco, ripartiva ringiovanito. Ecco, questo deve accadere. Purtroppo c’č un cortocircuito nella nostra attivitŕ pastorale, cioč noi ci stanchiamo soltanto. Allora, se voi e noi, all’atto in cui parliamo, predichiamo, catechizziamo, organizziamo, celebriamo, abbiamo bisogno, dopo, solo di riposarci, c’č qualcosa che non va in quello che noi facciamo, perché il campo pastorale č anche un luogo di apprendimento, č il luogo della santificazione dei presběteri: inutilmente noi cercheremo il Risorto nella tomba vuota (pastorale statica), perché Lui ci precede in Galilea (pastorale dinamica).

Dall’organizzazione pastorale di una comunitŕ ad una comunitŕ di apprendimento: questa č una linea che va avanti sul piano pedagogico, anche laico, in Francia e che poi č stata mutuata sul piano pastorale da alcuni pastoralisti, dove si dice che bisogna imparare sul campo e, quindi, fare una verifica e dire: com’č andata questa riunione? Se ci fate caso, nelle nostre Diocesi – credo tutte – facciamo cinquecento piani e quasi nessuna verifica. Siamo riusciti? Il Vescovo č riuscito a tradurre? Č passato il messaggio?

 

ť Evangelizzare le fragilitŕ del prete.

Qui tocco un punto veramente doloroso per noi in questo momento, perché stiamo vivendo l’Anno Sacerdotale – e glissare questo aspetto, sarebbe stato, in questo luogo, perlomeno fuorviante – che coincide, da un lato, con un attacco frontale, ma anche con l’emergere e l’emergenza di una fragilitŕ tra di noi. L’insistenza ossessiva su alcuni temi morali č tornata come un boomerang in un atto d’accusa (č una delle letture): Voi che avete insistito e che ci lanciate i sassi dall’altare, ecco, siete i primi a non vivere appieno quello che predicate! Allora, forse, va ripensata anche la predicazione dal “tu devi”, su cui ancora, purtroppo, s’immergono tante catechesi e tanta predicazione, al “tu sei”. Ricordate San Leone Magno? “Cristiano, diventa quello che sei!”. Ripartire dal “tu sei” significa: Tu sei figlio, tu sei salvato, tu sei amato… Dopo, l’agire morale diventa una risposta, forse anche piů radicale di quella che noi saremmo in grado di proporre. Quindi, l’agire morale come risposta al dono di scoprirsi figlio di Dio. L’isolamento del prete č all’origine di tutte le devianze! Allora, c’č un’“emergenza di fraternitŕ”: non c’č crisi che non nasca dall’essersi tirati fuori dal Presbiterio, dalla fraternitŕ e, allora, se c’č un’“emergenza fraternitŕ”, i preti della Campania, nel riscoprirsi chiamati, nel riscoprirsi strumenti di salvezza per gli altri, devono riaffasciarsi, e questo a vario titolo. Certamente, c’č il Presbiterio nella sua interezza, ma poi ci sono altre forme che ciascuna Diocesi ha messo a punto, dove č impossibile non incontrarsi: non ci possiamo ignorare da vicini di casa.

Spiritualitŕ della ricchezza contenuta in vasi di creta.

Noi non dobbiamo avere paura di dire: “Quello che vi annunciamo condanna innanzi tutto noi”, proprio perché non č, la nostra, l’impostazione del “tu devi”, dell’imperativo categorico, ma della risposta d’amore e della grazia che oggi opera in noi la risposta alla chiamata: chiamati per grazia e rispondenti per grazia. Ma questo passa attraverso la nostra fragilitŕ. Il Convegno di Loreto l’ha messo a tema (poi si č un po’ perso, anche nella nostra riflessione): la fragilitŕ puň essere un luogo di crescita, un luogo per rimotivarsi. Ricominciamo ogni giorno daccapo (Quando sono debole č allora che sono forte). Quindi, spiritualitŕ della ricchezza contenuta in vasi di creta: non siamo migliori. Dovremmo avere il coraggio di dirlo: non siamo migliori! Non costituiamo una classe, una élite che risplende particolarmente: quello che siamo di buono, lo abbiamo ricevuto; quello che vedi di negativo, č mio. Quindi, bisogna smettere anche certi abiti di superioritŕ. Sto dicendo queste cose in margine al momento drammatico che stiamo vivendo, che pure ci interpella e che in qualche maniera deve produrre dei frutti.

Uno di questi frutti č stato giŕ discusso – poi ne riparleremo nella Conferenza Episcopale Campana – ma č da molti anni che si ipotizza questa iniziativa:

Un luogo terapeutico dei preti in Campania?

La difficoltŕ a mentalizzare una cosa del genere, prima che legata a “dove lo facciamo?, chi lo fa?, chi mette la copertura economica?” č il problema stesso dell’ospedale, cioč, un ospedale, uno vorrebbe non vederlo e perché? Perché mi ricorda che ci si puň ammalare, perché č un monumento, una sorta di indice che ti dice: Adesso stai bene, ma puoi anche ammalarti (cosě come il cimitero mi ricorda che morirň). Questo luogo terapeutico fa difficoltŕ a entrare, perché noi facciamo difficoltŕ a capire che dobbiamo sporcarci le mani con questa nostra fragilitŕ, che č di tutti! Il mio timore – e qui dico una cosa personalissima su cui molti di voi non saranno d’accordo – č che l’azione portata avanti con decisione – e non possiamo non condividerla! – da parte del Papa Benedetto, possa condurre ad una sorta di guerra, ad un’ecatombe, e possa condurre la Chiesa a ciň a cui l’operazione “Mani pulite” ha portato l’Italia, a dire: č vero, bisogna denunciare il peccato, ma il peccatore – da sempre ci č stato insegnato – va rispettato, va accolto, perché se alla fine dobbiamo cominciare una serie di accuse reciproche, noi andiamo incontro a un massacro, perché nessuno di noi (parlo del sottoscritto, ovviamente) č all’altezza del compito che svolge.

Una volta, un Giovedě Santo – non potrň mai dimenticarlo – feci una predica nella mia parrocchia (ero giovane prete, avevo entusiasmo…): “Noi preti siamo chiamati a cose grandi, perň vi chiediamo perdono perché siamo peccatori”. Quando siamo entrati in sacrestia, Don Alfredo, buonanima, disse: “Parla pe’ te!”, a dire: Io non c’entro in questa tua richiesta di perdono!

 

Chiudo con un augurio. C’č una solaritŕ – io credo e spero che, al di lŕ di tutto, sia venuta fuori, sia emersa, sia pure poveramente da quello che ho detto – un dono che appartiene a noi preti napoletani (intendo “della Campania”): la solaritŕ č un dono di ottimismo, di vicinanza alle persone, di ospitalitŕ, di accoglienza, di apertura verso l’altro che ci viene dal passato e che č un patrimonio che noi non dobbiamo sciupare. Č espresso in una maniera mirabile – chiudo con queste parole, per continuare nella letteratura e nelle canzoni napoletane – nel testo 'O paese d''o sole. Vorrei che cosě fossero i nostri presbitčri, le nostre Diocesi e le nostre Chiese della Campania:

 

Chist'č 'o paese addó tutt''e pparole,
so' doce o so' amare,
so' sempe parole d'ammore.

~

 

 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non č stato rivisto dall’autore.