PREGHIERA GIOVANI
“Dall’alto
della Rocca in cerca del Padre”
RIFLESSIONI DI S. E. MONS. ARTURO AIELLO
Vescovo della Diocesi di Teano-Calvi
Rocchetta e Croce
Venerdì, 1 agosto 2008
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Ringraziamo Don Giadio e la comunità parrocchiale che ci ospita. Il
ritardo, inutile dirlo, è dovuto alla pioggia che se n’è andata -come dice il Cantico- e adesso è venuto il tempo del
canto. Iniziamo con il canto che avete sul foglietto.
PADRE MIO
Padre mio, m'abbandono a te,
di me fai quello che ti piace.
Grazie di ciò che fai per me,
spero solamente in te.
Purché si compia il tuo volere
in me e in tutti i miei fratelli.
Niente desidero di più:
fare quello che vuoi tu.
Dammi che ti riconosca,
dammi che ti possa
amare sempre più,
dammi che ti resti accanto,
dammi d'essere l'amor.
Fra le tue mani depongo la mia anima,
con tutto l'amore del mio cuore,
mio Dio, la dono a te,
perché ti amo immensamente.
Sì, ho bisogno di donarmi a te,
senza misura affidarmi alle tue mani,
perché sei il Padre mio,
perché sei il Padre mio.
Nel nome del Padre…
Abbiamo
iniziato questa nostra esperienza di preghiera sul padre, un tema che questa
sera ci viene donato: la ricerca del padre. Sono
salito sulla Rocca per cercare il Padre, questo il titolo. Abbiamo iniziato
con le parole di un grande credente, ma anche di un grande ribelle del
Novecento che è Carlo De Foucald, un
avventuriero, uno che neanche nella legione straniera è riuscito a rimanere,
tanto era smodato e che poi ha incontrato Dio, ha vissuto la sua esperienza di
fede nel deserto e ha composto questo atto di abbandono: “Padre mio, io mi abbandono a Te, fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque
cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto purché
la tua volontà si compia in me e in tutti i miei fratelli, non desidero
null’altro, mio Dio. Rimetto la mia volontà nelle tue mani, te la dono mio Dio,
con tutto l’amore del mio cuore perché ti amo ed è per me una esigenza d’amore
il donarmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza
infinita perché Tu sei il Padre mio”.
Le ho
dette tutte d’un fiato, ma queste parole vanno centellinate. Carlo De Foucald ha cercato il Padre.
Il
Novecento è stato definito un secolo senza padri e, ancora oggi, noi siamo un
po’ tutti sofferenti perché orfani. Anche se abbiamo i genitori ovviamente,
viventi o in Paradiso, in qualche maniera ci manca una presenza di riferimento
e allora stasera qui, al fresco di Rocchetta, in questo paese, in questa
parrocchia trasformata in tempio per la
nostra Diocesi, ci mettiamo alla ricerca del Padre. Questo lo facciamo
innanzitutto ascoltando un Vangelo che conosciamo bene, ma che da alcuni è
ritenuto il cuore del Vangelo, al punto che dice un esegeta: “Se si perdesse
del Vangelo tutto, ma restasse la parabola del Padre misericordioso, noi
avremmo tutto il Vangelo”. Lo ascoltiamo in piedi, poi ci sediamo.
Dal Vangelo di Luca 15, 11-24
11 Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la
parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane,
raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze
vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso
tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel
bisogno. 15
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che
lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti
salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Parola
del Signore
Lode a te, o Cristo
Accomodatevi
(quelli che possono). Ovviamente, tento un commento brevissimo; su questa
pagina si sono scritte intere enciclopedie. Questo è il cuore del Padre; il
Padre è così. La parabola del Padre misericordioso rientra in un trittico dove
ci sono racconti sulla misericordia.
Il
Padre dà fastidio, comincio così. Le mamme sono più accettate, più accolte, le
mamme sono aiutate dalla natura perché la maternità è scritta nel codice
genetico della donna. Non così per l’uomo che deve imparare a diventare padre.
E mentre il senso di accoglienza delle mamme crea un legame comunque con i
figli, per gli uomini è molto più complicato. Lo sanno bene i papà presenti o
noi che ci siamo rapportati a nostro padre, perché sembra sempre un estraneo,
il padre, uno che arriva da un altro mondo, uno che sembra venire a spiare in
questo amore - come dicono gli psicologi - che si è creato tra madre e figlio,
un intruso, uno che bisogna far fuori. Quindi, da un lato c’è la difficoltà a
essere padri (e oggi noi abbiamo bisogno di uomini che siano padri sul serio, e
non mi riferisco ai padri che ci hanno generato, uomini padri; può essere un
padre anche uno che non ha niente a che vedere con il tuo gruppo sanguigno),
dall’altra evidenziamo questo fatto che il padre (lo spiegai, cercai di dirlo
in una maniera un po’ strana proprio all’Ordinazione diaconale
di Giadio, l’anno scorso, se ricordo bene) va ucciso.
Lo abbiamo fatto tutti perché il padre sembra tenerci un po’ in carcere, sembra
tenerci al guinzaglio, non ci vuole dire certe cose, ci nasconde il segreto
della vita. Il dubbio sul padre fa parte di quel passaggio dall’infanzia
all’adolescenza ed è per i padri una stagione terribile. Proprio ieri sentivo
un padre a telefono che ha detto: “Fino a ieri ero un idolo per mio figlio.
Adesso sono l’ultimo degli ultimi da consultare”. Ho detto: “Tranquillizzati,
verrà il tempo in cui tuo figlio ti riporrà in onore”.
Perché
andiamo contro il padre? E perché questo figlio (le cose sono collegate) chiede
al padre di andarsene benché viva in una reggia, benché viva in un castello
turrito, con tanti servi, in saloni meravigliosi? La casa del padre ad un certo
punto nella nostra vita sembra un carcere, anche se hai vissuto in un castello,
e questa è una esperienza che vivono sia i figli nei confronti dei padri che
soffrono i padri nei confronti dei figli, ma è anche l’esperienza che soffre
Dio nei nostri confronti. Cioè viene un momento nella vita, o più volte nella
vita, in cui ci sembra che anche Dio faccia come il nostro papà, cioè che ci
tenga nascoste delle cose, che ci ponga dei divieti per rubarci la felicità
appieno. Questo è il gusto del peccato, quello che è proibito bisogna farlo,
quando il padre dice “no” io dico “sì”. Comincia quel senso di autoaffermazione
di sé che condurrà - dice la parabola - alla demolizione del figlio e che
conduce anche alla demolizione, ha condotto alla demolizione di tanti di noi
che sono andati contro il padre, han cercato di
ucciderlo e anche se lo uccidiamo nei sogni -dice Freud-
oppure lo uccidiamo escludendolo, in qualche maniera diciamo “Voglio fare di
testa mia”. Lo abbiamo detto tutti quando eravamo adolescenti e lo pensano oggi
i giovani nei confronti dei loro papà. Ecco, allora per non appesantire questa
riflessione, abbiamo invitato Biagio Antonacci perché
venga a darci una testimonianza, anche lui ha vissuto questo disagio.
Dimenticavo di dire che questa preghiera è dedicata ad Alfonso. Non so se ce ne
sono altri, oltre ad Alfonso candidato al primo anno di Teologia. È il suo
onomastico, se ci fossero altri Alfonso, sentite dedicata anche a voi questa
preghiera. Ascoltiamo Biagio Antonacci che in una
maniera un po’ grintosa ci rappresenta in una maniera molto concreta questo
disagio del figlio che sta in una reggia, che “ha il letto d’oro”, dice il
testo, ma non è contento. Com’è che non è contento? Ascoltiamolo.
MIO PADRE È UN RE di Biagio Antonacci
Non ho un'età
Mio padre è un Re
Vivo in un grande castello lassù
Ho un letto d'oro...due occhi blu
Ma non so dirti che...nome ho
Un giorno poi
Dalla finestra
Quella più alta e più stretta che ho
Ho visto lei....lunghi capelli
L'ho disegnata in me...così
Lei mi guardò....lei mi chiamò
Quanta paura poi...perchè?!....
Io da quassù.....dalla finestra
l'aspetto e arriva col sole già giù
Raccoglie i fiori....lo fa per me
Corre nel prato ed io.....ed io quassù
se mai amore conoscerò
solo e di ruggine....vivrò
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò....non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei...
Perchè mio padre è un Re!
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei...è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...io non avrò paura
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò...non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....
Perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei....è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...e non avrò paura....
Biagio Antonacci, ospite di Rocchetta. Questa è una canzone,
sembra banale, ma non lo è. Innanzitutto è una bella immagine, molto plastica e
anche con un sound suadente per i
giovani, sull’adolescenza, cioè questo è un quadro di quello che avviene
nell’adolescenza e a volte anche in più stagioni della vita, in più
adolescenze. Oggi si parla di una adolescenza protratta addirittura per tutta
l’esistenza ed è una cosa negativa, dovremmo crescere e abbandonare gli stadi
adolescenziali. Quindi c’è questo figlio del re. All’inizio, quando era
bambino, il fatto di essere il figlio del re era motivo di onore, perché stava
a corte, perché aveva tanti servi. Ma adesso gli sta stretto. Ha il letto
d’oro, gli occhi blu, ma dice: “Non so neanche come mi chiamo”. È in cerca di
identità come ogni adolescente, come siamo stati anche noi a 12 anni, a 14. Adesso
si comincia molto prima. E poi c’è questa immagine di questa ragazza. Nella mia
fantasia ho anche pensato: “Adesso si trova una ballerina e le facciamo una
coreografia su questa canzone”. L’avevo immaginata con una veste bianca molto
larga che guarda in alto sulla torre (dalla finestra più stretta-dice Antonacci- ho visto questo miraggio), una donna, una
ragazza vestita di bianco, con i capelli lunghi che coglie i fiori, che lo
chiama e dice “Vieni” ma lui dice “Non posso venire” perché qui c’è anche una difficoltà
d’ordine sociale, perché io sono il figlio del re e magari la ragazza, per
quanto bella, è la figlia del giardiniere, la figlia del panettiere a corte.
C’è questa voglia di giocare con lei, di scendere, di cogliere la vita, di
prendere i fiori che lei sta cogliendo. Ci sono questi appuntamenti
giornalieri: il principe sa l’ora in cui la ragazza viene sotto la torre e
aspetta tutta la notte quel momento. Ha anche paura, questo ragazzo, come
abbiamo avuto paura noi. E qual è la paura? La paura di andare contro il padre,
la paura di “scavalcare”. Questo è il verbo su cui si gioca il testo di Antonacci. Dice: “Ma verrà il giorno in cui scavalcherò le
mura”. Scavalcherò e scendo, magari mi tirò giù con un lenzuolo, anche se sono
il figlio del re, anche se dormo in un letto d’oro, voglio vedere questa
ragazza da vicino. Allora, innanzitutto, un quadro dell’adolescenza.
Rivediamoci come eravamo, come abbiamo guardato una ragazza, un ragazzo, a
seconda se gli occhi erano maschili o femminili, e come abbiamo avvertito che i
genitori dicevano: “No, torna presto! Dove stai?”. Adesso i genitori si
illudono d’aver messo il guinzaglio al figlio col telefonino, ma state
tranquilli che è solo una spesa inutile; sanno bene quando devono spegnerlo e
non farsi trovare. Quindi, innanzitutto, un quadro dell’adolescenza come tempo
in cui si guarda fuori, si guarda lontano, non si considera tutto quello che si
ha perché un ragazzo ha i genitori, ha la famiglia, ha la casa, non gli basta.
Prima interpretazione.
La
seconda è d’ordine morale e siamo in un’altra lettura, ma ugualmente bella di
questo testo, dove io sono il figlio del Re e anche tu sei la figlia del Re.
Tutti in qualche maniera qui, in grazia del Battesimo, siamo di stirpe regale,
abbiamo sangue regale che ci scorre nelle vene come dal giorno in cui siamo
stati battezzati. Le nostre prime esperienze infantili, pensiamo alla Prima
Comunione, sono state all’insegna del misticismo, nel senso più bello del
termine. Paolo VI dice in una sua Lettera che i bambini vivono una stagione
mistica. Quindi bisognerebbe fare più attenzione ai bambini perché possono
esserci maestri. Allora c’è questa stagione dell’infanzia che anche sul piano
della fede è una stagione molto bella a cui dobbiamo tornare per imparare. Ma
cosa sentivo quel giorno della Prima Comunione quando mi preparavo? Quando
andai al catechismo, nonostante i miei genitori mi avessero vietato di fare
MIO PADRE È UN RE di Biagio Antonacci
Non ho un'età
Mio padre è un Re
Vivo in un grande castello lassù
Ho un letto d'oro...due occhi blu
Ma non so dirti che...nome ho
Un giorno poi
Dalla finestra
Quella più alta e più stretta che ho
Ho visto lei....lunghi capelli
L'ho disegnata in me...così
Lei mi guardò....lei mi chiamò
Quanta paura poi...perchè?!....
Io da quassù.....dalla finestra
l'aspetto e arriva col sole già giù
Raccoglie i fiori....lo fa per me
Corre nel prato ed io.....ed io quassù
se mai amore conoscerò
solo e di ruggine....vivrò
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò....non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei...
Perchè mio padre è un Re!
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei...è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...io non avrò paura
Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò...non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....
Perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei....è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...e non avrò paura....
Il
figlio della parabola, le mura, le scavalcò come sapete bene, e non se ne
scappò nel senso della canzone di Antonacci, ma
pretese anche la sua parte di eredità, uccidendo il padre, perché l’eredità si
prende quando il padre muore e quindi lo uccise simbolicamente, lo uccise prima
del tempo, ma lo uccise ancora di più andandosene, sbattendo la porta, come
fanno i figli da sempre, purtroppo. L’esperienza, la parabola, la riassume in
poche battute, perché dice che all’inizio partecipò alle follie, andò a farsi i
viaggi, partecipò a tutte le feste e aveva tanti amici perché quando tu hai
tante possibilità, puoi offrire, hai sempre tanti amici. Poi pian piano le
risorse cominciarono ad assottigliarsi e gli amici a diradarsi fino a restare
solo e… “Dove sono tutti gli amici che mi stavano attorno alle feste quando ero
ricco? Ma adesso ho sperperato tutti i miei averi in feste ed orge ed eccomi
qui solo”. Questa è l’esperienza del peccato ed è anche l’esperienza di chi
lascia la casa del Re. Gesù dice in questa parabola, che è un capolavoro, che
questo figlio che era principe, addirittura va a lavorare, si mette a fare il
custode dei porci e contende le ghiande ai porci; è in uno stato animalesco e
qui si ricorda: “Ma chi ero io?”. Antonacci dice “Non
so chi sono”, ma il problema è che noi non sappiamo più chi siamo all’atto in
cui scavalchiamo le mura e poniamo le spalle, giriamo le spalle al Re nostro
Padre, alla regalità, alla grandezza, alla santità, alla luce, alla reggia e ci
avviamo sempre pieni di noi, pieni di prosopopea, pieni del nostro io: “Io
farò, io sono il migliore, io riuscirò a impiegare bene la mia vita, la mia
giovinezza”. Sai bene, è capitato anche a te, è capitato a tutti noi di
ritrovarci con un pugno di mosche. Quella bella ragazza che danzava che
coglieva i fiori per me se n’è andata, anzi non esisteva, era una nuvola. E
allora qui si danno due possibilità, cari amici. Uno. Morire in questa
lontananza perché non si ha il coraggio di tornare ed è una cosa terribile e
molte persone per orgoglio non tornano, perché per tornare a casa, c’è bisogno
d’aver abbassato le vele, si dice in
napoletano, bisogna che uno bussi, riprenda la via di casa e riprendere la via
di casa significa dire, davanti a me stesso innanzitutto, e poi davanti a
quelli che mi accoglieranno, che io ho sbagliato. Quindi, prima ipotesi:
restare a lungo o vivere per sempre nella lontananza, sempre più povero, sempre
a chiedere l’elemosina, mentre io ero di stirpe regale. L’altra ipotesi che
Gesù contempla è quella di tornare perché il figlio prodigo (prodigo perché ha
sperperato) dice: “Ma quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in
abbondanza- cioè il pane per i servi- e io qui muoio di fame”. Questa è
l’esperienza della lontananza del padre, cioè sentirsi niente fino a rischiare
di morire, perché senza padri si muore, senza il Padre. Allora fa un proposito:
“Mi leverò, andrò da mio padre e gli dirò: padre, ho peccato”. Sapete che la
parabola si chiude in una maniera insperata come sempre, che ci sono questi
colpi di scena che sono la genialità pastorale di Gesù nel raccontare, ed è
l’accoglienza oltre ogni aspettativa, non il padre che fa pesare, che fa
aspettare in anticamera, che dice “Poi forse ti perdonerò”, ma il padre che
accoglie, che gli organizza la festa, che rimette l’anello al dito, la veste
nuova, che rimette il principe nello stato di figlio. E allora, e qui andiamo
verso la conclusione, vorrei dedicare un attimo a questo ritorno dal padre, e
sul piano spirituale, ma anche sul piano umano, perché poi viene la stagione in
cui tu senti il bisogno di dire “papà”. Anche Alfonso sente il bisogno e
sentirebbe il bisogno di dire “papà”, una parola molto dolce. Normalmente si
dice “mamma”; sì, è la parola più bella. “Mamma son
tanto felice perché ritorno da te”, diceva la canzone d’altri tempi e invece
“Papà…”. Io non dico questa parola da quando avevo 12 anni, perché si smette di
dire papà quando il padre muore. Anche Alfonso ha vissuto questa esperienza,
non così precocemente, per fortuna, di quando non sia accaduta al sottoscritto.
L’importante è che sentiamo questo bisogno di rivolgerci a nostro padre. Allora
fortunati quelli fra voi che hanno il
padre, soprattutto se siete avanti negli anni e avete la fortuna d’avere ancora
un padre, ovviamente non è il padre che dà gli ordini, il padre dolce, perché i
padri quando poi diventano nonni sono un capolavoro.
C’è
questo testo di De Crescenzo che adesso vi faccio ascoltare, di una tenerezza
grande, di un figlio che parla al padre, un figlio ormai adulto, che parla al
padre anziano, confessandosi. Ascoltiamo cosa gli dice. Forse sono anche i
nostri sentimenti nei confronti di nostro padre.
PADRE di
E. De Crescenzo
Mi manchi vecchio mio stasera sono giù
ho camminato tanto forse più di te
senza trovare mai la tua serenità
Non mi lamento sai va bene anche così
ho tanti amici e posso avere cose
che tu non avesti mai
però qui dentro me
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
il cielo aspetterà padre oh padre...
Mia madre accanto a te per una vita e più
ti ama più che mai ti ama come sei
perché sei come me non l’ hai delusa
Non
saresti uno straniero in questo mondo ormai
c’è un’ altra umanità che non somiglia a te
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
Ha un
po’ di nostalgia questo testo, ma è vero. È vero. Ripeto, chi abbia avuto il
padre anziano, ha sentito, ha avvertito questi sentimenti e chi fra voi ha il
privilegio d’averlo ancora, sente che il padre è una reliquia. “Quella casa,
quel profumo, il tempo si fermò” è questo impatto col padre che mi riporta
indietro quand’ero bambino, la casa dell’infanzia, la casa dei cento natali, la
casa delle prime scoperte, la casa dove il padre è grande: “Sei forte, papà!”.
Adesso sono passati tanti anni e mi ha sempre colpito questo testo perché il
figlio dice al padre: “Sembrava così facile e non è”. Cioè: “Quando sono partito
per emendarmi da te, per staccarmi da te, per farmi una famiglia mia, per
sposarmi, mi sembrava tutto così facile, a portata di mano, invece la vita non
mi ha fatto sconti. Sembrava facile, ma non è stato così”. Questa è la
confessione da fare al padre. Forse un giorno Giadio,
Liberato, Alessio verranno a dirmi: “Ci sembrava facile il giorno
dell’Ordinazione, ma poi abbiamo visto che è tutto così complesso, così
farraginoso, le conquiste così a caro prezzo”. Io ho avuto già tanti figli che
queste cose sono venute a raccontarmele: “Sembrava così facile e non è, non è
così. La vita è dura”. È bello che De Crescenzo rivolgendosi al padre dica:
“Però tu rimani, stai qui, non ti muovere. Adesso è il mio tempo, non è più il
tuo tempo, adesso è la mia stagione, ma tu resta lì, il cielo aspetterà, il
cielo può attendere”. C’è un verso bellissimo di Quasimodo,
in Lettera alla madre, dove alla fine
il poeta dice alla morte: “Non toccare
l’orologio che è nella cucina. Sul suo smalto e sui suoi fiori è passata la mia
infanzia. Non toccare le mani, il cuore dei vecchi”. È una invocazione alla
morte perché ritardi la partenza del padre, della madre. “Non toccare le mani”,
perché le mani? Perché sono belle le mani del padre anziano, piene di rughe,
una sorta di cartina geografica, di strade intricate che si sono incrociate. “Non toccare le mani, il cuore dei vecchi”,
ma poi la poesia si conclude tragicamente perché dice: “Ma qualcuno ascolta?”.
Il poeta s’accorge d’aver parlato forse al vento, ma noi no.
Noi non parliamo al vento, c’è qualcuno che ci ascolta, c’è il Padre di cui
nostro padre o i padri che abbiamo avuto (perché nella vita si hanno tanti
padri), sono stati e sono Sacramento. Ogni paternità è Sacramento della
Paternità, quella che ha fatto spiovere stasera, quando era venuta l’ora della
preghiera, quella che provvede - dice Gesù - agli uccelli del cielo, che veste
i gigli del campo, che fa tutto con grande dovizia. E questa sera, vorrei che
noi ritrovassimo il Padre. Il Padre innanzitutto, quello da cui ci siamo
distaccati scavalcando i merli dei 10 comandamenti o di norme morali pensando
di farci una vita a prescindere da Lui ma anche, vivo o defunto che sia, che
noi ritroviamo nostro padre, per dirgli: “Papà, sembrava così facile, ma è
stato difficile. È stata difficile la mia vita, le prove, le difficoltà”. Il
testo comincia dicendo “Ho voglia, ho nostalgia di Te, in qualche maniera.
Stasera sono un po’ giù, voglio scambiare con te quattro chiacchiere. No, non
voglio essere aiutato. Tu resta sulla tua poltrona, sulla tua sedia a dondolo
magari, però sappi che per me sei stato importante, sei importante…”, perché
senza padri, non si va da nessuna parte e la nostra che è una società orfana, è
una società che non va da nessuna parte, non può progettarsi, perché sì, sono
importanti le mamme con le loro coccole, le loro dolcezze, ma il padre che mi
mette la mano sulla spalla, mi dice “Vai”, mi dà la forza. Il padre mi dà
l’identità, il padre mi introduce nel mondo. La mamma dice “Resta qui, abbiamo
acceso il fuoco, ti ho preparato un piatto caldo”. Il padre dice: “Vai, c’è il
lavoro, c’è la vita civile, c’è il mondo”. Il padre, in qualche maniera, è
l’educatore dei grandi spazi. La mamma è l’educatrice dell’alcova, del
focolare, della casa. Allora il padre apre le finestre e dice: “Svegliatevi!”.
La mamma dice: “No! Prende freddo! Prende il raffreddore!”. La mamma dice: “
Hai messo la maglietta?”. Il padre dice: “Vai, vai, ti guardo le spalle”.
Grazie ai nostri padri che hanno svolto questo ruolo, sapendolo meno importante.
Ma anche grazie ad altri padri che nella vita ci hanno sorretti, ci hanno dato
vigore, grinta, ci hanno detto “Non ti abbattere, non ti fermare davanti a
questa difficoltà, davanti a questo fallimento”. I padri spingono, i padri
fanno il tifo, fanno gli allenatori, ma dicono “No, adesso devi fare di più”.
Ecco, riascoltiamo prima di concludere questa confessione, questo dialogo col
padre di De Crescenzo e se i nostri papà (penso per diversi di noi) sono in
Paradiso, preghiamo per loro ed entriamo in comunione forte con la preghiera.
Se ce l’avete ancora a casa, forse sarà il caso stasera che, tornando, vincendo
quella ritrosia che abbiamo a fare una carezza al padre (un po’ ispido, un po’ un riccio…) troviate
un modo anche per rivalutare questa presenza per dire: “Grazie, papà”. .
PADRE di
E. De Crescenzo
Mi manchi vecchio mio stasera sono giù
ho camminato tanto forse più di te
senza trovare mai la tua serenità
Non mi lamento sai va bene anche così
ho tanti amici e posso avere cose
che tu non avesti mai
però qui dentro me
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
il cielo aspetterà padre oh padre...
Mia madre accanto a te per una vita e più
ti ama più che mai ti ama come sei
perché sei come me non l’ hai delusa
Non
saresti uno straniero in questo mondo ormai
c’è un’ altra umanità che non somiglia a te
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
Voglio
concludere facendovi ascoltare la voce di un padre. Questo per dire come non
bisogna per forza che il padre sia quello del DNA, perché qui c’è una paternità
molto ampia. Spesso nella vita c’è un padre, non quello che ci ha generati, ma
un altro e ci sono padri che hanno figli e figlie oltre ogni possibilità
fisiologica. È il caso del Padre che
adesso recita
Signore, fa’ di me uno strumento
della tua pace:
dove è odio,
che io porti l’amore.
Dove è offesa,
che io porti il perdono.
Dove è discordia,
che io porti l’unione.
Dove è dubbio,
che io
porti la fede.
Dove è errore,
che io porti la verità.
Dove è disperazione,
che io porti la speranza.
Dove è tristezza,
che io porti la gioia.
Dove sono le tenebre,
che io porti la luce.
Maestro,
fa’ che io non cerchi tanto
di essere consolato, quanto di consolare,
di essere compreso, quanto di comprendere,
di essere amato, quanto d’ amare.
Poiché dando si riceve,
perdonando si è perdonati,
morendo si risuscita alla Vita Eterna.
Ci
mettiamo in piedi e, tenendoci per mano, diciamo la preghiera al Padre. Gesù è
venuto per questo, per dirci: “Non siete orfani. Condivido con voi il Padre che
non è solo mio, ma diventa nostro”. Per questo diciamo insieme:
Padre
nostro…
Benedizione
del Vescovo
Prima
del canto finale, vi ricordo, avete gli appuntamenti sul foglietto, c’è il
Campo-Scuola (non ho gli occhiali, ho dimenticato gli occhiali in Episcopio).
Se qualcuno volesse associarsi a questa carovana di giovani che, dal 5 al
RESTA QUI CON NOI
Le ombre si distendono scende ormai la sera
e si allontanano dietro i monti
i riflessi di un giorno che non finirà,
di un giorno che ora correrà sempre
perché sappiamo che una nuova vita
da qui è partita e mai più si fermerà.
Resta qui con noi il sole scende già,
resta qui con noi Signore è sera ormai.
Resta qui con noi il sole scende già,
se tu sei fra noi la notte non verrà.
S'allarga verso il mare il tuo cerchio d'onda
che il vento spingerà fino a quando
giungerà ai confini di ogni cuore,
alle porte dell'amore vero;
come una fiamma che dove passa brucia,
così il Tuo amore tutto il mondo invaderà.
Resta qui con noi ...
Davanti a noi l'umanità lotta, soffre e spera
come una terra che nell'arsura
chiede l'acqua da un cielo senza nuvole,
ma che sempre le può dare vita.
Con Te saremo sorgente d'acqua pura,
con Te fra noi il deserto fiorirà.
Resta qui con noi...
Il testo, tratto direttamente dalla
registrazione, non è stato rivisto dall’autore.