PREGHIERA GIOVANI

 

“Dall’alto della Rocca in cerca del Padre”

 

RIFLESSIONI DI S. E. MONS. ARTURO AIELLO

 

Vescovo della Diocesi di Teano-Calvi

 

Rocchetta e Croce

 

Venerdì, 1 agosto  2008

 

~ ~ ~

 

 

Ringraziamo Don Giadio e la comunità parrocchiale che ci ospita. Il ritardo, inutile dirlo, è dovuto alla pioggia che se n’è andata -come dice il Cantico- e adesso è venuto il tempo del canto. Iniziamo con il canto che avete sul foglietto.

 

PADRE  MIO

 

Padre mio, m'abbandono a te,
di me fai quello che ti piace.
Grazie di ciò che fai per me,
spero solamente in te.
Purché si compia il tuo volere
in me e in tutti i miei fratelli.
Niente desidero di più:
fare quello che vuoi tu.

Dammi che ti riconosca,

dammi che ti possa amare sempre più,
dammi che ti resti accanto,
dammi d'essere l'amor.

Fra le tue mani depongo la mia anima,
con tutto l'amore del mio cuore,
mio Dio, la dono a te,
perché ti amo immensamente.
Sì, ho bisogno di donarmi a te,
senza misura affidarmi alle tue mani,
perché sei il Padre mio,
perché sei il Padre mio.

Nel nome del Padre…

 

Abbiamo iniziato questa nostra esperienza di preghiera sul padre, un tema che questa sera ci viene donato: la ricerca del padre. Sono salito sulla Rocca per cercare il Padre, questo il titolo. Abbiamo iniziato con le parole di un grande credente, ma anche di un grande ribelle del Novecento che è Carlo De Foucald, un avventuriero, uno che neanche nella legione straniera è riuscito a rimanere, tanto era smodato e che poi ha incontrato Dio, ha vissuto la sua esperienza di fede nel deserto e ha composto questo atto di abbandono: “Padre mio, io mi abbandono a Te, fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto purché la tua volontà si compia in me e in tutti i miei fratelli, non desidero null’altro, mio Dio. Rimetto la mia volontà nelle tue mani, te la dono mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore perché ti amo ed è per me una esigenza d’amore il donarmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza infinita perché Tu sei il Padre mio”.

Le ho dette tutte d’un fiato, ma queste parole vanno centellinate. Carlo De Foucald ha cercato il Padre.

Il Novecento è stato definito un secolo senza padri e, ancora oggi, noi siamo un po’ tutti sofferenti perché orfani. Anche se abbiamo i genitori ovviamente, viventi o in Paradiso, in qualche maniera ci manca una presenza di riferimento e allora stasera qui, al fresco di Rocchetta, in questo paese, in questa parrocchia trasformata in  tempio per la nostra Diocesi, ci mettiamo alla ricerca del Padre. Questo lo facciamo innanzitutto ascoltando un Vangelo che conosciamo bene, ma che da alcuni è ritenuto il cuore del Vangelo, al punto che dice un esegeta: “Se si perdesse del Vangelo tutto, ma restasse la parabola del Padre misericordioso, noi avremmo tutto il Vangelo”. Lo ascoltiamo in piedi, poi ci sediamo.

 

Dal Vangelo di Luca 15, 11-24

11 Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20 Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l`anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

 

Parola del Signore

Lode a te, o Cristo

 

Accomodatevi (quelli che possono). Ovviamente, tento un commento brevissimo; su questa pagina si sono scritte intere enciclopedie. Questo è il cuore del Padre; il Padre è così. La parabola del Padre misericordioso rientra in un trittico dove ci sono racconti sulla misericordia.

 

Il Padre dà fastidio, comincio così. Le mamme sono più accettate, più accolte, le mamme sono aiutate dalla natura perché la maternità è scritta nel codice genetico della donna. Non così per l’uomo che deve imparare a diventare padre. E mentre il senso di accoglienza delle mamme crea un legame comunque con i figli, per gli uomini è molto più complicato. Lo sanno bene i papà presenti o noi che ci siamo rapportati a nostro padre, perché sembra sempre un estraneo, il padre, uno che arriva da un altro mondo, uno che sembra venire a spiare in questo amore - come dicono gli psicologi - che si è creato tra madre e figlio, un intruso, uno che bisogna far fuori. Quindi, da un lato c’è la difficoltà a essere padri (e oggi noi abbiamo bisogno di uomini che siano padri sul serio, e non mi riferisco ai padri che ci hanno generato, uomini padri; può essere un padre anche uno che non ha niente a che vedere con il tuo gruppo sanguigno), dall’altra evidenziamo questo fatto che il padre (lo spiegai, cercai di dirlo in una maniera un po’ strana proprio all’Ordinazione diaconale di Giadio, l’anno scorso, se ricordo bene) va ucciso. Lo abbiamo fatto tutti perché il padre sembra tenerci un po’ in carcere, sembra tenerci al guinzaglio, non ci vuole dire certe cose, ci nasconde il segreto della vita. Il dubbio sul padre fa parte di quel passaggio dall’infanzia all’adolescenza ed è per i padri una stagione terribile. Proprio ieri sentivo un padre a telefono che ha detto: “Fino a ieri ero un idolo per mio figlio. Adesso sono l’ultimo degli ultimi da consultare”. Ho detto: “Tranquillizzati, verrà il tempo in cui tuo figlio ti riporrà in onore”.

 

Perché andiamo contro il padre? E perché questo figlio (le cose sono collegate) chiede al padre di andarsene benché viva in una reggia, benché viva in un castello turrito, con tanti servi, in saloni meravigliosi? La casa del padre ad un certo punto nella nostra vita sembra un carcere, anche se hai vissuto in un castello, e questa è una esperienza che vivono sia i figli nei confronti dei padri che soffrono i padri nei confronti dei figli, ma è anche l’esperienza che soffre Dio nei nostri confronti. Cioè viene un momento nella vita, o più volte nella vita, in cui ci sembra che anche Dio faccia come il nostro papà, cioè che ci tenga nascoste delle cose, che ci ponga dei divieti per rubarci la felicità appieno. Questo è il gusto del peccato, quello che è proibito bisogna farlo, quando il padre dice “no” io dico “sì”. Comincia quel senso di autoaffermazione di sé che condurrà - dice la parabola - alla demolizione del figlio e che conduce anche alla demolizione, ha condotto alla demolizione di tanti di noi che sono andati contro il padre, han cercato di ucciderlo e anche se lo uccidiamo nei sogni -dice Freud- oppure lo uccidiamo escludendolo, in qualche maniera diciamo “Voglio fare di testa mia”. Lo abbiamo detto tutti quando eravamo adolescenti e lo pensano oggi i giovani nei confronti dei loro papà. Ecco, allora per non appesantire questa riflessione, abbiamo invitato Biagio Antonacci perché venga a darci una testimonianza, anche lui ha vissuto questo disagio. Dimenticavo di dire che questa preghiera è dedicata ad Alfonso. Non so se ce ne sono altri, oltre ad Alfonso candidato al primo anno di Teologia. È il suo onomastico, se ci fossero altri Alfonso, sentite dedicata anche a voi questa preghiera. Ascoltiamo Biagio Antonacci che in una maniera un po’ grintosa ci rappresenta in una maniera molto concreta questo disagio del figlio che sta in una reggia, che “ha il letto d’oro”, dice il testo, ma non è contento. Com’è che non è contento? Ascoltiamolo.

 

MIO PADRE È UN RE di Biagio Antonacci

 

Non ho un'età
Mio padre è un Re
Vivo in un grande castello lassù
Ho un letto d'oro...due occhi blu
Ma non so dirti che...nome ho

Un giorno poi
Dalla finestra
Quella più alta e più stretta che ho
Ho visto lei....lunghi capelli
L'ho disegnata in me...così

Lei mi guardò....lei mi chiamò
Quanta paura poi...perchè?!....

Io da quassù.....dalla finestra
l'aspetto e arriva col sole già giù
Raccoglie i fiori....lo fa per me
Corre nel prato ed io.....ed io quassù

se mai amore conoscerò
solo e di ruggine....vivrò

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò....non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei...
Perchè mio padre è un Re!

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....perchè mio padre è un Re

Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei...è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...io non avrò paura

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò...non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....
Perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei....è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...e non avrò paura....

 

Biagio Antonacci, ospite di Rocchetta. Questa è una canzone, sembra banale, ma non lo è. Innanzitutto è una bella immagine, molto plastica e anche con un sound suadente per i giovani, sull’adolescenza, cioè questo è un quadro di quello che avviene nell’adolescenza e a volte anche in più stagioni della vita, in più adolescenze. Oggi si parla di una adolescenza protratta addirittura per tutta l’esistenza ed è una cosa negativa, dovremmo crescere e abbandonare gli stadi adolescenziali. Quindi c’è questo figlio del re. All’inizio, quando era bambino, il fatto di essere il figlio del re era motivo di onore, perché stava a corte, perché aveva tanti servi. Ma adesso gli sta stretto. Ha il letto d’oro, gli occhi blu, ma dice: “Non so neanche come mi chiamo”. È in cerca di identità come ogni adolescente, come siamo stati anche noi a 12 anni, a 14. Adesso si comincia molto prima. E poi c’è questa immagine di questa ragazza. Nella mia fantasia ho anche pensato: “Adesso si trova una ballerina e le facciamo una coreografia su questa canzone”. L’avevo immaginata con una veste bianca molto larga che guarda in alto sulla torre (dalla finestra più stretta-dice Antonacci- ho visto questo miraggio), una donna, una ragazza vestita di bianco, con i capelli lunghi che coglie i fiori, che lo chiama e dice “Vieni” ma lui dice “Non posso venire” perché qui c’è anche una difficoltà d’ordine sociale, perché io sono il figlio del re e magari la ragazza, per quanto bella, è la figlia del giardiniere, la figlia del panettiere a corte. C’è questa voglia di giocare con lei, di scendere, di cogliere la vita, di prendere i fiori che lei sta cogliendo. Ci sono questi appuntamenti giornalieri: il principe sa l’ora in cui la ragazza viene sotto la torre e aspetta tutta la notte quel momento. Ha anche paura, questo ragazzo, come abbiamo avuto paura noi. E qual è la paura? La paura di andare contro il padre, la paura di “scavalcare”. Questo è il verbo su cui si gioca il testo di Antonacci. Dice: “Ma verrà il giorno in cui scavalcherò le mura”. Scavalcherò e scendo, magari mi tirò giù con un lenzuolo, anche se sono il figlio del re, anche se dormo in un letto d’oro, voglio vedere questa ragazza da vicino. Allora, innanzitutto, un quadro dell’adolescenza. Rivediamoci come eravamo, come abbiamo guardato una ragazza, un ragazzo, a seconda se gli occhi erano maschili o femminili, e come abbiamo avvertito che i genitori dicevano: “No, torna presto! Dove stai?”. Adesso i genitori si illudono d’aver messo il guinzaglio al figlio col telefonino, ma state tranquilli che è solo una spesa inutile; sanno bene quando devono spegnerlo e non farsi trovare. Quindi, innanzitutto, un quadro dell’adolescenza come tempo in cui si guarda fuori, si guarda lontano, non si considera tutto quello che si ha perché un ragazzo ha i genitori, ha la famiglia, ha la casa, non gli basta. Prima interpretazione.

 

La seconda è d’ordine morale e siamo in un’altra lettura, ma ugualmente bella di questo testo, dove io sono il figlio del Re e anche tu sei la figlia del Re. Tutti in qualche maniera qui, in grazia del Battesimo, siamo di stirpe regale, abbiamo sangue regale che ci scorre nelle vene come dal giorno in cui siamo stati battezzati. Le nostre prime esperienze infantili, pensiamo alla Prima Comunione, sono state all’insegna del misticismo, nel senso più bello del termine. Paolo VI dice in una sua Lettera che i bambini vivono una stagione mistica. Quindi bisognerebbe fare più attenzione ai bambini perché possono esserci maestri. Allora c’è questa stagione dell’infanzia che anche sul piano della fede è una stagione molto bella a cui dobbiamo tornare per imparare. Ma cosa sentivo quel giorno della Prima Comunione quando mi preparavo? Quando andai al catechismo, nonostante i miei genitori mi avessero vietato di fare la Prima Comunione quell’anno? Cosa mi muoveva? Cosa ho sentito quel giorno? Per me Gesù era lì come la persona più concreta. Questa è vita mistica che i bambini vivono, poi ovviamente questa stagione viene in qualche maniera resettata, da quella che si chiama la tempesta ormonale e allora cominciano altri grilli a cantare, altre cicale. Qual è la lettura morale di questo testo? Io sono il re, vivo in una reggia, dovrei essere contento della mia dignità, ma c’è qualcosa che si muove da qualche parte che mi attira, attira l’attenzione. Questo, nel libro di Genesi, è spiegato con il simbolo del serpente che comincia a dialogare, a chiedere, e subito attacca briga con Eva e dice: “Ma è vero che il Signore vi ha detto…?”. Esagera i divieti, fa sentire i due un po’ handicappati, come noi a volte ci sentiamo handicappati rispetto a quello che ci viene indicato da Dio come legge morale. E allora questa ragazza non è più adesso la donna che abbiamo sognato, che coglie i fiori, che dice “Vieni”, ma è ogni tentazione, non solo quelle di carattere sessuale (i peccati sono tanti), dove ci attira qualcosa. E quello che abbiamo comincia a pesarci, ci pesa anche il fatto d’essere cristiani, ci pesa anche il fatto d’essere di stirpe regale, di abitare in un castello e allora diciamo: “Scavalco le mura”. Ecco, cos’è il peccato? È scavalcare le mura, è scendere da questa finestra che mi tiene in Paradiso e andare a vedere e a conoscere questa ragazza sempre con i capelli lunghi, vestita di bianco che però poi, nella seconda lettura, si svela non essere così bella come la vedevo da lontano, non essere così avvincente come mi sembrava quando il libro era chiuso, si rivela essere una illusione; allora questa paura di scavalcare le mura a volte ci fa bene in questo caso, in questa seconda lettura. A volte, certi peccati noi non li commettiamo un po’ per la paura di scavalcare, di cadere giù. Benedetta anche questa paura che ci lascia nella casa del Padre, che sì, sentiamo ancora un po’ opprimente, ma che un giorno scopriremo essere una reggia. Allora riascoltiamo, adesso guardando me adolescente che ho visto per la prima volta o mi sono innamorato per la prima volta o, seconda lettura, leggiamo il testo, ascoltiamolo, con questa lettura morale dove la ragazza che chiama è la tentazione che mi fa l’occhiolino e dice “Vieni” ma poi mi svena.

 

 

MIO PADRE È UN RE di Biagio Antonacci

 

Non ho un'età
Mio padre è un Re
Vivo in un grande castello lassù
Ho un letto d'oro...due occhi blu
Ma non so dirti che...nome ho

Un giorno poi
Dalla finestra
Quella più alta e più stretta che ho
Ho visto lei....lunghi capelli
L'ho disegnata in me...così

Lei mi guardò....lei mi chiamò
Quanta paura poi...perchè?!....

Io da quassù.....dalla finestra
l'aspetto e arriva col sole già giù
Raccoglie i fiori....lo fa per me
Corre nel prato ed io.....ed io quassù

se mai amore conoscerò
solo e di ruggine....vivrò

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò....non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei...
Perchè mio padre è un Re!

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....perchè mio padre è un Re

Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei...è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...io non avrò paura

Non avrò, non avrò, non avrò un giorno io non avrò...non avrò più paura
Anche se io non posso parlare e giocare con lei....
Perchè mio padre è un Re
Ma io so...ma io so...ma io so che per lei prima o poi
Scavalcherò le mura
Io per lei...solo lei....è per lei che da adesso vivrò
E non avrò paura...e non avrò paura....

 

Il figlio della parabola, le mura, le scavalcò come sapete bene, e non se ne scappò nel senso della canzone di Antonacci, ma pretese anche la sua parte di eredità, uccidendo il padre, perché l’eredità si prende quando il padre muore e quindi lo uccise simbolicamente, lo uccise prima del tempo, ma lo uccise ancora di più andandosene, sbattendo la porta, come fanno i figli da sempre, purtroppo. L’esperienza, la parabola, la riassume in poche battute, perché dice che all’inizio partecipò alle follie, andò a farsi i viaggi, partecipò a tutte le feste e aveva tanti amici perché quando tu hai tante possibilità, puoi offrire, hai sempre tanti amici. Poi pian piano le risorse cominciarono ad assottigliarsi e gli amici a diradarsi fino a restare solo e… “Dove sono tutti gli amici che mi stavano attorno alle feste quando ero ricco? Ma adesso ho sperperato tutti i miei averi in feste ed orge ed eccomi qui solo”. Questa è l’esperienza del peccato ed è anche l’esperienza di chi lascia la casa del Re. Gesù dice in questa parabola, che è un capolavoro, che questo figlio che era principe, addirittura va a lavorare, si mette a fare il custode dei porci e contende le ghiande ai porci; è in uno stato animalesco e qui si ricorda: “Ma chi ero io?”. Antonacci dice “Non so chi sono”, ma il problema è che noi non sappiamo più chi siamo all’atto in cui scavalchiamo le mura e poniamo le spalle, giriamo le spalle al Re nostro Padre, alla regalità, alla grandezza, alla santità, alla luce, alla reggia e ci avviamo sempre pieni di noi, pieni di prosopopea, pieni del nostro io: “Io farò, io sono il migliore, io riuscirò a impiegare bene la mia vita, la mia giovinezza”. Sai bene, è capitato anche a te, è capitato a tutti noi di ritrovarci con un pugno di mosche. Quella bella ragazza che danzava che coglieva i fiori per me se n’è andata, anzi non esisteva, era una nuvola. E allora qui si danno due possibilità, cari amici. Uno. Morire in questa lontananza perché non si ha il coraggio di tornare ed è una cosa terribile e molte persone per orgoglio non tornano, perché per tornare a casa, c’è bisogno d’aver abbassato le vele, si dice in napoletano, bisogna che uno bussi, riprenda la via di casa e riprendere la via di casa significa dire, davanti a me stesso innanzitutto, e poi davanti a quelli che mi accoglieranno, che io ho sbagliato. Quindi, prima ipotesi: restare a lungo o vivere per sempre nella lontananza, sempre più povero, sempre a chiedere l’elemosina, mentre io ero di stirpe regale. L’altra ipotesi che Gesù contempla è quella di tornare perché il figlio prodigo (prodigo perché ha sperperato) dice: “Ma quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza- cioè il pane per i servi- e io qui muoio di fame”. Questa è l’esperienza della lontananza del padre, cioè sentirsi niente fino a rischiare di morire, perché senza padri si muore, senza il Padre. Allora fa un proposito: “Mi leverò, andrò da mio padre e gli dirò: padre, ho peccato”. Sapete che la parabola si chiude in una maniera insperata come sempre, che ci sono questi colpi di scena che sono la genialità pastorale di Gesù nel raccontare, ed è l’accoglienza oltre ogni aspettativa, non il padre che fa pesare, che fa aspettare in anticamera, che dice “Poi forse ti perdonerò”, ma il padre che accoglie, che gli organizza la festa, che rimette l’anello al dito, la veste nuova, che rimette il principe nello stato di figlio. E allora, e qui andiamo verso la conclusione, vorrei dedicare un attimo a questo ritorno dal padre, e sul piano spirituale, ma anche sul piano umano, perché poi viene la stagione in cui tu senti il bisogno di dire “papà”. Anche Alfonso sente il bisogno e sentirebbe il bisogno di dire “papà”, una parola molto dolce. Normalmente si dice “mamma”; sì, è la parola più bella. “Mamma son tanto felice perché ritorno da te”, diceva la canzone d’altri tempi e invece “Papà…”. Io non dico questa parola da quando avevo 12 anni, perché si smette di dire papà quando il padre muore. Anche Alfonso ha vissuto questa esperienza, non così precocemente, per fortuna, di quando non sia accaduta al sottoscritto. L’importante è che sentiamo questo bisogno di rivolgerci a nostro padre. Allora fortunati quelli fra voi  che hanno il padre, soprattutto se siete avanti negli anni e avete la fortuna d’avere ancora un padre, ovviamente non è il padre che dà gli ordini, il padre dolce, perché i padri quando poi diventano nonni sono un capolavoro.

C’è questo testo di De Crescenzo che adesso vi faccio ascoltare, di una tenerezza grande, di un figlio che parla al padre, un figlio ormai adulto, che parla al padre anziano, confessandosi. Ascoltiamo cosa gli dice. Forse sono anche i nostri sentimenti nei confronti di nostro padre.

 

PADRE di E. De Crescenzo

 

Mi manchi vecchio mio stasera sono giù
ho camminato tanto forse più di te
senza trovare mai la tua serenità
Non mi lamento sai va bene anche così
ho tanti amici e posso avere cose
che tu non avesti mai
però qui dentro me
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
il cielo aspetterà padre oh padre...
Mia madre accanto a te per una vita e più
ti ama più che mai ti ama come sei
perché sei come me non l’ hai delusa mai
Non
ti stancare più adesso tocca a me
saresti uno straniero in questo mondo ormai
c’è un’ altra umanità che non somiglia a te
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare

Ha un po’ di nostalgia questo testo, ma è vero. È vero. Ripeto, chi abbia avuto il padre anziano, ha sentito, ha avvertito questi sentimenti e chi fra voi ha il privilegio d’averlo ancora, sente che il padre è una reliquia. “Quella casa, quel profumo, il tempo si fermò” è questo impatto col padre che mi riporta indietro quand’ero bambino, la casa dell’infanzia, la casa dei cento natali, la casa delle prime scoperte, la casa dove il padre è grande: “Sei forte, papà!”. Adesso sono passati tanti anni e mi ha sempre colpito questo testo perché il figlio dice al padre: “Sembrava così facile e non è”. Cioè: “Quando sono partito per emendarmi da te, per staccarmi da te, per farmi una famiglia mia, per sposarmi, mi sembrava tutto così facile, a portata di mano, invece la vita non mi ha fatto sconti. Sembrava facile, ma non è stato così”. Questa è la confessione da fare al padre. Forse un giorno Giadio, Liberato, Alessio verranno a dirmi: “Ci sembrava facile il giorno dell’Ordinazione, ma poi abbiamo visto che è tutto così complesso, così farraginoso, le conquiste così a caro prezzo”. Io ho avuto già tanti figli che queste cose sono venute a raccontarmele: “Sembrava così facile e non è, non è così. La vita è dura”. È bello che De Crescenzo rivolgendosi al padre dica: “Però tu rimani, stai qui, non ti muovere. Adesso è il mio tempo, non è più il tuo tempo, adesso è la mia stagione, ma tu resta lì, il cielo aspetterà, il cielo può attendere”. C’è un verso bellissimo di Quasimodo, in Lettera alla madre, dove alla fine il poeta dice alla morte: “Non toccare l’orologio che è nella cucina. Sul suo smalto e sui suoi fiori è passata la mia infanzia. Non toccare le mani, il cuore dei vecchi”. È una invocazione alla morte perché ritardi la partenza del padre, della madre. “Non toccare le mani”, perché le mani? Perché sono belle le mani del padre anziano, piene di rughe, una sorta di cartina geografica, di strade intricate che si sono incrociate. “Non toccare le mani, il cuore dei vecchi”, ma poi la poesia si conclude tragicamente perché dice: “Ma qualcuno ascolta?”. Il poeta s’accorge d’aver parlato forse al vento, ma noi no. Noi non parliamo al vento, c’è qualcuno che ci ascolta, c’è il Padre di cui nostro padre o i padri che abbiamo avuto (perché nella vita si hanno tanti padri), sono stati e sono Sacramento. Ogni paternità è Sacramento della Paternità, quella che ha fatto spiovere stasera, quando era venuta l’ora della preghiera, quella che provvede - dice Gesù - agli uccelli del cielo, che veste i gigli del campo, che fa tutto con grande dovizia. E questa sera, vorrei che noi ritrovassimo il Padre. Il Padre innanzitutto, quello da cui ci siamo distaccati scavalcando i merli dei 10 comandamenti o di norme morali pensando di farci una vita a prescindere da Lui ma anche, vivo o defunto che sia, che noi ritroviamo nostro padre, per dirgli: “Papà, sembrava così facile, ma è stato difficile. È stata difficile la mia vita, le prove, le difficoltà”. Il testo comincia dicendo “Ho voglia, ho nostalgia di Te, in qualche maniera. Stasera sono un po’ giù, voglio scambiare con te quattro chiacchiere. No, non voglio essere aiutato. Tu resta sulla tua poltrona, sulla tua sedia a dondolo magari, però sappi che per me sei stato importante, sei importante…”, perché senza padri, non si va da nessuna parte e la nostra che è una società orfana, è una società che non va da nessuna parte, non può progettarsi, perché sì, sono importanti le mamme con le loro coccole, le loro dolcezze, ma il padre che mi mette la mano sulla spalla, mi dice “Vai”, mi dà la forza. Il padre mi dà l’identità, il padre mi introduce nel mondo. La mamma dice “Resta qui, abbiamo acceso il fuoco, ti ho preparato un piatto caldo”. Il padre dice: “Vai, c’è il lavoro, c’è la vita civile, c’è il mondo”. Il padre, in qualche maniera, è l’educatore dei grandi spazi. La mamma è l’educatrice dell’alcova, del focolare, della casa. Allora il padre apre le finestre e dice: “Svegliatevi!”. La mamma dice: “No! Prende freddo! Prende il raffreddore!”. La mamma dice: “ Hai messo la maglietta?”. Il padre dice: “Vai, vai, ti guardo le spalle”. Grazie ai nostri padri che hanno svolto questo ruolo, sapendolo meno importante. Ma anche grazie ad altri padri che nella vita ci hanno sorretti, ci hanno dato vigore, grinta, ci hanno detto “Non ti abbattere, non ti fermare davanti a questa difficoltà, davanti a questo fallimento”. I padri spingono, i padri fanno il tifo, fanno gli allenatori, ma dicono “No, adesso devi fare di più”. Ecco, riascoltiamo prima di concludere questa confessione, questo dialogo col padre di De Crescenzo e se i nostri papà (penso per diversi di noi) sono in Paradiso, preghiamo per loro ed entriamo in comunione forte con la preghiera. Se ce l’avete ancora a casa, forse sarà il caso stasera che, tornando, vincendo quella ritrosia che abbiamo a fare una carezza al padre  (un po’ ispido, un po’ un riccio…) troviate un modo anche per rivalutare questa presenza per dire: “Grazie, papà”.                         .

 

PADRE di E. De Crescenzo

 

Mi manchi vecchio mio stasera sono giù
ho camminato tanto forse più di te
senza trovare mai la tua serenità
Non mi lamento sai va bene anche così
ho tanti amici e posso avere cose
che tu non avesti mai
però qui dentro me
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare
il cielo aspetterà padre oh padre...
Mia madre accanto a te per una vita e più
ti ama più che mai ti ama come sei
perché sei come me non l’ hai delusa mai
Non
ti stancare più adesso tocca a me
saresti uno straniero in questo mondo ormai
c’è un’ altra umanità che non somiglia a te
Quella casa, quel profumo il tempo si fermò
padre oh padre, sembrava così facile non è
resta ancora non andare

Voglio concludere facendovi ascoltare la voce di un padre. Questo per dire come non bisogna per forza che il padre sia quello del DNA, perché qui c’è una paternità molto ampia. Spesso nella vita c’è un padre, non quello che ci ha generati, ma un altro e ci sono padri che hanno figli e figlie oltre ogni possibilità fisiologica. È  il caso del Padre che adesso recita la Preghiera semplice, erroneamente attribuita a San Francesco, ma che è di spirito francescano. Probabilmente questa preghiera è stata composta agli inizi del Novecento da un Cappuccino, ma normalmente è fatta passare come preghiera francescana di Francesco. Diciamo francescana, non di San Francesco. La ascoltiamo recitata da un Padre[1] che ha avuto una paternità a dismisura.

 

Signore, fa’ di me uno strumento

della tua pace:

dove è odio,

che io porti l’amore.

Dove è offesa,

che io porti il perdono.

Dove è discordia,

che io porti l’unione.

Dove è dubbio,

 che io porti la fede.

Dove è errore,

che io porti la verità.

Dove è disperazione,

che io porti la speranza.

Dove è tristezza,

che io porti la gioia.

Dove sono le tenebre,

che io porti la luce.

Maestro,

fa’ che io non cerchi tanto

di essere consolato, quanto di consolare,

di essere compreso, quanto di comprendere,

di essere amato, quanto d’ amare.

Poiché dando si riceve,

perdonando si è perdonati,

morendo si risuscita alla Vita Eterna.

 

Ci mettiamo in piedi e, tenendoci per mano, diciamo la preghiera al Padre. Gesù è venuto per questo, per dirci: “Non siete orfani. Condivido con voi il Padre che non è solo mio, ma diventa nostro”. Per questo diciamo insieme:

 

Padre nostro…

 

Benedizione del Vescovo

 

Prima del canto finale, vi ricordo, avete gli appuntamenti sul foglietto, c’è il Campo-Scuola (non ho gli occhiali, ho dimenticato gli occhiali in Episcopio). Se qualcuno volesse associarsi a questa carovana di giovani che, dal 5 al 9 a Canneto, vivranno una esperienza di ricerca, di approfondimento e di vita comune, può ancora rivolgersi ai sacerdoti e iscriversi. Secondo appuntamento è la sera del 14, anziché andare a fare il veglione del Ferragosto, ci troviamo alle 22:30 a Gallo di Roccamonfina, recitiamo il Rosario fino al Santuario dei Lattani, alle 23:00 celebriamo l’Eucaristia al Santuario e poi l’altro appuntamento-giovani è venerdì 19 Settembre in un altro posto particolarmente suggestivo e anche denso di storia che è il Sacrario di Mignano Monte Lungo, ma anziché alle 21:00, vivremo la preghiera alle ore 20:00 perché intanto le giornate vanno accorciandosi. Facciamo il canto, poi don Giadio ci dà un avviso perché Rocchetta si è messa (come dire?) in cerimonie, preparando anche una piccola cena per voi che avete superato la difficoltà della pioggia. Facciamo prima il canto.

 

RESTA QUI CON NOI

 

Le ombre si distendono scende ormai la sera
e si allontanano dietro i monti
i riflessi di un giorno che non finirà,
di un giorno che ora correrà sempre
perché sappiamo che una nuova vita
da qui è partita e mai più si fermerà.

Resta qui con noi il sole scende già,
resta qui con noi Signore è sera ormai.
Resta qui con noi il sole scende già,
se tu sei fra noi la notte non verrà.


S'allarga verso il mare il tuo cerchio d'onda
che il vento spingerà fino a quando
giungerà ai confini di ogni cuore,
alle porte dell'amore vero;
come una fiamma che dove passa brucia,
così il Tuo amore tutto il mondo invaderà.

Resta qui con noi ...

Davanti a noi l'umanità lotta, soffre e spera
come una terra che nell'arsura
chiede l'acqua da un cielo senza nuvole,
ma che sempre le può dare vita.
Con Te saremo sorgente d'acqua pura,
con Te fra noi il deserto fiorirà.

Resta qui con noi...


 

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

 



[1] Papa Giovanni Paolo II