PREGHIERA-GIOVANI

 

guidata da

 

S. E. MONS. ARTURO AIELLO

 

“Ho ucciso mio Padre!”

 

Cattedrale di Teano

 

Venerdì, 20 Marzo 2009

 

~

Canto: Chi mi seguirà?

 

Nel nome del Padre…

Ringraziamo il Signore per essere qui nonostante il freddo. Grazie di questa testimonianza che offrite, anche solo con la vostra presenza, nonostante le difficoltà e le lontananze da cui provenite. Stasera doveva essere con noi anche un piccolo gruppo dei nostri amici di Ischia, ma il mare forza 5 li ha frenati al porto: li raggiungiamo col nostro affetto. È bello che questa nostra Preghiera, come vi ho detto altre volte, stia creando vincoli di comunione anche con giovani di altre Diocesi; qui ci sono anche rappresentanti di Capua, di Caserta: si trovano a casa loro? Spero di sì, perché la Chiesa è casa di tutti e in ogni chiesa noi siamo a casa nostra. Voglio ricordarvi il cammino che stiamo compiendo: abbiamo iniziato con l’offerta del rametto secco, ci siamo incontrati poi, quindici giorni fa, sul tema “Flirtare col male” (spero non abbiate dimenticato il messaggio) e questa sera poniamo l’ultimo passo che renderà possibile tuffarci nell’esperienza del Sacramento della Riconciliazione, per coloro che vorranno celebrarlo, alla fine di questa ora. Rientriamo in noi stessi, sentiamo d’essere in un posto sicuro: anche se freddo, la nostra presenza lo riscalda, ma soprattutto è calore e fuoco la presenza di Gesù in mezzo a noi. Ti ringraziamo, Signore, perché ci hai convocati. Grazie per questo pungolo che ci porta qui, insieme a tanti, per visualizzare anche il nostro essere Chiesa giovane, nella Diocesi di Teano-Calvi. Grazie, perché ci convochi e ci parli. Allarga il nostro cuore, apri la nostra possibilità di ascolto. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.

Amen

 

Anche se si tratta di un brano di Vangelo, lo ascoltiamo comodi perché è bene non lasciarci sfuggire nulla. Lo intervalliamo con l’antifona del Miserere.

 

Dal Vangelo di Luca (15, 11-32)

 

11 Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20 Partì e si incamminò verso suo padre.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l`anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 27 Il servo gli rispose: E` tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

Il padre allora uscì a pregarlo. 29 Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

Parola di Dio

Lode a te, o Cristo

Miserere mei, Domine. Miserere mei, Domine.

 

Ho pensato a questa Preghiera nel giorno dopo la festa di San Giuseppe (festa del papà) per imperniarla sul tema del padre. Forse ieri avete pensato a tutti i papà possibili e immaginabili tranne che al Padre, al Padre per eccellenza da cui, dice Paolo, ogni paternità in cielo e in terra prende nome. Questa parabola che abbiamo ascoltato, intercalata dal canto e dalla chitarra di Bruno (noi passiamo dall’organo a canne alla chitarra con tanta facilità), è la storia più bella che sia mai stata raccontata. Qualcuno dice che se di tutto il Vangelo noi perdessimo il 99% delle parole e questa parabola del padre misericordioso restasse, avremmo tutto il Vangelo, per dire l’attenzione che da sempre i cristiani e i credenti hanno avuto per questa parabola: parabola del padre prodigo, non del figlio prodigo. “Prodigo” significa sperperone, eccedente, esagerato. Ecco, così è il Padre che Gesù ci ha insegnato a pregare, a riconoscere: esagerato (per fortuna!), esagerato nell’amore. Probabilmente siete stati un po’ colpiti dal titolo della preghiera, se avete la consuetudine di leggerlo (“vediamo stasera di cosa si tratta”…). Spero non andiate subito alla canzone, che significa poca attenzione alla Parola. Il titolo sembra un tantino terroristico: “Ho ucciso mio padre!”. Eppure intorno a questo titolo c’è il senso della parabola che abbiamo ascoltato, che a noi sembra così dolce, così bella, così piena di feste, di confetti, di anelli, di musicanti e invece ha al suo centro l’uccisione del Padre. È un giallo? Il Vescovo sta cambiando le caratteristiche della parabola del padre misericordioso? No, e non è neanche il titolo di un thriller, l’uccisione del padre. Come sapete, questo tema (l’uccisione del padre) è stato al centro di una letteratura psicoanalitica nel Novecento in cui, da Freud in poi, si è messo in evidenza che i figli, nei sogni, nei desideri, hanno voglia di uccidere il padre (spero di non suscitare nessuna voglia omicida in voi). Cosa significa “sogno di uccidere il padre”? Significa che il figlio per diventare grande, per affermarsi, in qualche maniera, deve prendere le distanze dal padre: andar via di casa, andare a studiare a Cassino, a Roma, a Napoli, cominciare a lavorare, diventare indipendente, affrontare il padre, dicendo “Non sono d’accordo su quello che tu dici o su quello che mi hai detto in passato quand’ero bambino”… Sono tanti modi, ovviamente incruenti, di uccidere il padre. Se ci sono dei padri qui credo, spero (sì, ne vedo qualcuno), e certamente ci sono i preti che sono padri, conoscono questa dinamica. A volte i figli vengono ad ucciderci: immaginarsi il Vescovo! Quante volte ho ucciso un Vescovo? Infinite volte… Lo dico sorridendo, perché questa è una dinamica positiva (a meno che non ci sia cattiveria). Normalmente noi sentiamo il bisogno di autoaffermarci distanziandoci da colui (il padre che ci ha generati, il padre che ci ha condotti per mano da bambini) che è stato importante, che è stato l’idolo della nostra infanzia, e che pian piano ci accorgiamo, crescendo, non essere così potente, così forte, come diceva una canzone di tanti anni fa: “Sei forte, papà”. Ma questi papà sono veramente così forti o anche loro hanno delle incrinature, anche loro vivono delle difficoltà, dei crolli, delle crisi? Sbagliano, anche i papà sbagliano. Questo ovviamente sul piano umano. La parabola contiene un’uccisione del padre: per ben due volte, due figli diversi attentano alla vita del padre, nella parabola uscita dal cuore di Cristo, cercando di annullarlo. Vediamo questi due tentati omicidi del padre, questi due parricidi. Il primo: il figlio minore va dal padre. Immaginate: voi andate da vostro padre e… “Papà, dammi la parte di eredità che mi spetta”. Roberto, se venisse da te, Chiara e…: “Papà, tu hai queste proprietà: dammi quello che mi spetta”, Roberto, come ogni papà, salta su tutte le furie e dice: “Ma non sono ancora morto, Chiara!”. Dire “Dammi quello che mi spetta”, significa ti uccido, tu per me non sei più nulla, sei già morto. Il padre della parabola, a differenza di come reagiremmo noi, sembra non soffrire e divide l’eredità come se fosse morto. Quindi il figlio l’ha ucciso all’atto in cui ha detto: “Dividi l’eredità e dammi la mia parte”. L’ha ucciso all’atto in cui se n’è andato col suo fardello di cose, col suo carro, con le sue valigie. L’ha ucciso all’atto in cui queste sostanze, che il padre aveva conquistato a fatica, le ha sperperate con gli amici, nelle feste, nei festini, nelle orge, con le prostitute. Quindi l’ha ucciso, dicendo “Dammi la parte di eredità”, l’ha ucciso andandosene da casa, l’ha ucciso sperperando i suoi averi: non è un omicida? Attenti che anche il figlio maggiore, che è il figlio di papà, il bravo ragazzo della parrocchia, quello che sta sempre puntuale in AC, che fa l’educatore, che sta nel coro, che “Io sono stato con te, parroco, da quando ero chierichetto e poi ho fatto tutta la trafila”, quando vede che il padre ha organizzato tutto questo ben di Dio per il figlio che lo aveva ucciso tante volte, si risente, si rinzela e tenta di uccidere il padre: una nuova aggressione. Ovviamente dalle parole non compare, ma sono parole taglienti; in qualche maniera dice al padre: “Tu sei un rimbambito, perché stai facendo un’ingiustizia! Questa non è giustizia: la sua parte l’ha avuta?, l’ha sperperata? Bene, adesso al massimo lo accogliamo come un garzone”, come lui stesso aveva deciso di dire al padre. E invece no, il padre lo aveva rimesso in onore. “E allora io quanto conto per te? Adesso lui prenderà anche la mia parte!”. Capite che c’è un problema di giustizia: il padre è santamente ingiusto (per fortuna nostra). È santamente esagerato, è un eccedente, uno sperperone, un prodigo nell’amore. Ma questo non sta bene al bravo ragazzo, al giovane impeccabile che è impettito della sua virtù. Allora si ribella e pugnala il padre alle spalle, dicendo: “Sei un rimbambito”. Non è scritto nel Vangelo, ma tra le righe lo traduco così: “Ti sei fatto abbindolare con quattro lacrimucce di questo figlio minore ed io, che sono stato sempre con te?”. Facciamo così anche noi. Attenti che nella parabola, il figlio maggiore non dice mai “mio fratello”: dice “tuo figlio, questo tuo figlio”, perché non lo riconosce come fratello”. Anche voi a casa, quando avete un diverbio, dite: tuo figlio, tua figlia, tua moglie. Anche i genitori qualche volta, quando hanno bisticciato tra loro, e uno dei figli ha fatto qualcosa di negativo: “Vedi cos’ha fatto tua figlia?”. Non è anche tua? Noi nel linguaggio esprimiamo bene questa separazione, a dire: non ho niente a che vedere con lui. Il figlio maggiore non dice “mio fratello” perché non lo riconosce come fratello e questo è un dolore per il padre. Lo sanno bene i genitori quando vedono i figli divisi. “Io voglio bene ai miei figli, ma tra loro non si vogliono bene”: questo è uccidere il padre. Allora - e mi fermo lasciando il commento musicale alla chitarra di Bruno - forse anch’io ho ucciso mio padre? E forse il peccato è questo? È questo ciò di cui debbo chiedere perdono, più che “ho fatto questo, ho fatto quell’altro…”. Il peccato è uccidere il padre come il figlio minore o ucciderlo, con parole taglienti, come il figlio maggiore, che si inorgoglisce delle sue virtù e non riconosce il bene di stare in parrocchia da quand’era chierichetto fino a oggi. Magari qualche giovane, che ha fatto tutta la trafila, aspetta  anche che il parroco gli paghi i contributi e gli dia la pensione… Ma questo non è un discorso da Chiesa! È un discorso sindacale. Quando entra il sindacato nell’amore è finito l’amore, quando entra il sindacato nella famiglia è finita la famiglia: sono le difficoltà e le diatribe tra fratelli che dicono che i genitori fanno preferenza (a lui sì, a me no!). Quando entrano i sindacati nell’amore non c’è più amore: e io riconosco il Padre? So dire grazie al Padre che mi accoglie nonostante tutto (prima parte della storia)?, che mi viene incontro, che aspetta soltanto che io mi metta in ginocchio e dica: “Padre ho peccato contro di te…”. Basta, è finita la Confessione, il resto lo fa Lui e fa più di quello che tu t’aspetteresti. Oppure, seconda parte: forse non ho commesso gravi errori, però sono orgoglioso e ho ucciso il padre con la mia acredine, guardando questi che si sono allontanati dalla parrocchia con astio, con odio, perché io sono il migliore, sono il bravo ragazzo, sono il prediletto del parroco? Cercate di rileggere nella vostra storia queste dinamiche.

 

***

 

Vorrei che capiste una cosa importantissima. Attenti che, se riesco a trasmettervi questo messaggio, voi fate un passo avanti enorme nella percezione della verità, di voi, di Dio, della vostra vita. Cosa dobbiamo andare a dire, per quelli che a fine preghiera celebreranno il Sacramento della Penitenza? Voi dite: i peccati. Sì, ma cos’è il peccato? Non voglio fare un discorso troppo difficile, anzi. Ho cercato di trasmettervi questa cosa nella maniera più immediata. Se io vi chiedessi: ma cos’è il peccato? Quand’è che uno fa peccato? La risposta che verrebbe, dalla stragrande maggioranza di voi, è: “Quando uno non osserva una norma, quando uno contravviene ad un precetto, ai Comandamenti...”. Diciamo sempre che il peccato è riferito ad una norma, ad una legge, al Decalogo (nel migliore dei casi) o a un’immagine di noi perfetta, per cui mi sono comportato in una maniera pessima e mi detesto, mi nasce un senso di colpa, di disagio e dico: “Devo andarmi a confessare”. Questo non è ancora il senso del peccato nella maniera bella, matura, libera, perché – attenti - peccato significa riferimento ad una persona, non ad una norma, fosse anche altissima: fare il bene, amare il prossimo… Sì, ma nella tradizione cristiana, se non c’è relazione con Dio (dico una cosa che forse vi farà un tantino sbandare), non c’è peccato. Allora è meglio non avere relazione? No. Cosa voglio dire con “se non c’è relazione con Dio non c’è peccato”? Significa che il peccato nasce da una relazione coltivata con Dio (di cui percepisco la bellezza), nei confronti del quale sento di dover vivere una riconoscenza perché sono vivo, perché voi siete giovani, perché ho delle possibilità, mi sono offerte delle opportunità e nei confronti di questo Dio, che mi elargisce tutti questi doni, io mi comporto in una maniera scorretta: non lo ringrazio mai, non lo tengo mai presente, o addirittura lo prendo a calci. Qui ci avviciniamo un tantino a quello che è il senso del peccato in una maniera matura sul piano cristiano. Per questo “Ho ucciso mio Padre!” è una bellissima confessione: non l’ho ucciso, come Bruto nel senato romano, con il pugnale, ma l’ho ucciso guardando altrove, facendo finta che non ci fosse. Quando tra fidanzati volete far soffrire l’altro, perché c’è un po’ di acredine, è successa qualche tensione, cosa fate? Non rivolgete la parola al ragazzo, alla ragazza. E lui, lei si rode dentro: perché non mi parla? Noi facciamo così con Dio tante volte: non gli rivolgiamo la parola. Cosa intendo dire con “non gli rivolgo la parola?”. Per me non esisti: questo è il peccato. Il figlio ha detto al padre: “Dammi la parte di eredità che mi spetta” ma è come se gli avesse detto: “Tu sei morto per me”. Qualche volta i figli lo dicono ai genitori: “Tu sei morto”. Questo è il peccato: prendere a calci il Dio che ti ha creato - non solo - e che ti dà la forza di prenderlo a calci, perché se Lui volesse, dal momento che ti dà la forza, momento per momento, il respiro, la vita, tu non potresti neanche muovere un muscolo senza. Ma Lui è così buono, esagerato nell’amore, che ti dà anche l’arma con cui tu vai ad ucciderlo: non è amore questo?, non è amore esorbitante?, non è il padre prodigo? Ebbene, cari giovani, questo è il peccato. Allora se io, non per una debolezza, ma per una presa di posizione, dico:

-         No, questa cosa la voglio fare!

-         Ma a Dio dispiace…

-         Non mi interessa!

Lo sto uccidendo ed Egli (adesso utilizzo un’espressione che non sentite da quand’eravate bambini) piange, perché Dio non è freddo rispetto alla nostra relazione. Noi sì nei suoi confronti, Lui no con noi. Allora, se tuo marito non ti parla, se la tua ragazza non ti rivolge una parola, tu soffri? Ancora di più Dio. Questo è il peccato: è, all’interno di una relazione di Uno che ti ha ricolmato di beni, rispondere con la negligenza, rispondere con l’aggressività, rispondere con la noncuranza. Per esempio: domenica scorsa sei andato a messa? Ecco: il Vescovo ha cominciato diversamente e poi finisce sempre con “Bisogna andare a messa la domenica”! No, ma andare a messa la domenica significa che io mi ricordo d’aver ricevuto tutti questi doni e mando un messaggino sul telefonino, dicendo: grazie perché esisto, grazie perché esisti. Questo, in una maniera amplificata al massimo, è la Celebrazione Eucaristica domenicale e se io sento che questa relazione è importante la coltivo, rispondo al telefono, rispondo al messaggio, rispondo alla sollecitazione. Se invece vedo che è un numero che non mi interessa, neanche rispondo. Domenica, Dio ti ha mandato un input - È domenica! - ma tu hai fatto finta d’aver altro da fare. Quindi non è il fatto che “bisogna andare a messa la domenica”, ma è l’esigenza di celebrare questa dipendenza, di celebrare questa relazione, perché una relazione che non si celebri è una relazione che piano piano muore. Spero di non stare qui a confondervi le idee. Magari siete venuti… “Voglio andarmi a confessare, ma adesso il Vescovo mi sta un po’ strattonando e alla fine non so più neanche cosa devo andare a dire”. Devo andare a dire: “Ho ucciso mio Padre!”. Non così, altrimenti i sacerdoti: “Questo è un giovane assassino!”, ma nel senso che ho fatto come se Dio non ci fosse, come se Dio non mi volesse bene, come se Dio non mi avesse creato, come se Dio non mi avesse colmato di beni, come se Dio in Gesù non mi avesse salvato. Spero che queste parole stiano facendo nascere in voi un senso di riconoscenza: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te”, cioè non ho celebrato la mia dipendenza; come per le dinamiche freudiane, ho pensato che tu fossi un nemico, ho pensato che i Comandamenti fossero una camicia di forza e invece erano le ali per volare, erano il parapetto perché io non precipitassi, che tu avevi costruito perché io non andassi nel burrone, ma io ormai grande, presuntuoso… “No! Ma a che serve questo parapetto? Via!”, e sono precipitato: perdonami… La Confessione potrebbe essere fatta anche così, perché è rimettere gli agganci per una relazione interrotta col Padre. Per questo, anche stasera, c’è una canzone per la festa del papà: mi dispiace solo per Don Pietro. Don Pietro è un sacerdote di Mantova, se ricordo bene, che però è a Roma; probabilmente di questo testo napoletano non capirà nulla, ma spero che qualcuno vicino gli faccia una traduzione istantanea per aiutarlo a smaltire questo testo che a lui non dirà nulla. Ascoltiamo: anche in questo testo sul padre ci sono delle belle espressioni che ci parlano del Padre con la p maiuscola.

 

‘O pate

di Nino D’Angelo


‘O pate è ‘o pate
nun se po lamentà maie cu nisciuno
addà fa sempe ‘o forte, addà fa ‘o pate
è capo ma nun sape cumannà
‘o pate è ‘o pate
sempe annascuso, nun se vede maie
ma sape tutto chello ca succere
e quanno se sape fa sentì
e c’’a fatica ‘nfaccia e dint’’a ll’ossa
va cammenanno cu ‘e penziere appriesso
se cresce e figli dint’’o portafoglio
sempe cchiù chino e ‘sti fotografie
nisciuno ‘o sente quanno parla sulo
e se fa viecchio sestimanno e guaie
e si ‘o faie male s’astipa ‘o dolore areto a ‘nu sorriso
e se va appendere int’’o scuro
a ‘na lacrema d’’o core
ca ogni tanto ‘o fa cadè
‘o pate è ‘o pate
nun se po’ rassignà si ‘o juorno è niro
pe’ forza addà truvà nu piezze ‘e sole
pe’ scarfà a casa soia primma ‘e partì
‘o pate è ‘o pate
‘o primmo amico ‘e quanno si criaturo
ca fore a scola nun ‘o truove maie
ma sta tutte ‘e mumente addò staie tu
‘o truove sempe cu ‘o piacere ‘n mane
si nun vuò niente te vo’ da coccosa
e se sta zitto pe guardà ‘e parole
ca so carezze ca isso t’’a mparato
acale l’uocchie quanno te salute
e sott’e diente dice statt’accorto
e chella mano ca te tocca ‘ a spalla è ‘o coraggio ca tiene
e nun te miette cchiù a paura
pecchè saie ca nun si sulo
quanno a vita è contro a te

 

 

Stasera siamo anche abilitati ad ascoltare questa canzone perché per queste canzoni che utilizziamo per la preghiera, se venisse la SIAE (“State ascoltando in cattedrale le canzoni e non avete pagato i diritti d’autore!”)! Una cosa simpatica: avevo telefonato ad un amico ieri, che è amico di Nino D’Angelo, e ho detto: “Vedi se può venire domani sera a Teano”. Poi era occupato in sala di registrazione a Roma, ma ha detto: “Fatemi avere qualcosa di questa Preghiera”. Quindi indirettamente è come se fossimo stati abilitati dall’autore. Questo testo, un po’ triste per certi aspetti, descrive a pennellate quello che è il padre normalmente (credo dovunque, ma in particolare nella nostra cultura napoletana). Se avete ascoltato con attenzione, avrete trovato alcuni tratti di vostro padre: i padri non sono invadenti normalmente (chiedo scusa alle mamme, ma le mamme partono sempre in quarta, sono super presenti, vogliono sapere tutto), i padri sono più discreti per indole (è la mascolinità che ci fa così), non fanno troppe domande, non pedinano… Qui c’è innanzi tutto questo ’o pate è ’o pate che non dice niente e dice tutto: il padre è il padre (traduzione per Don Pietro). Quando con un complemento oggetto si afferma quello che è già nel soggetto, è una tautologia. E invece no, nella poesia no: il padre è il padre, a dire che il padre è sempre il padre anche quando non si vede, anche quando non fa sentire la sua voce.

Nun se po lamentà maie cu nisciuno / addà fa sempe ‘o forte, addà fa ‘o pate / è capo ma nun sape cumannà: è la condizione di tanti padri. A volte battono anche il pugno sul tavolo, ma alla fine dentro sorridono, perché è capo ma nun sape cumannà, cioè  non ha questo piglio del condottiero, è un padre che vuole bene ai suoi figli. È bello anche nun se po lamentà maie cu nisciuno. Qualche volta qualcuno dice: “Eccellenza, ma voi avete qualcuno con cui potete sfogarvi?” (me lo chiedono in parecchi). Chi ha un ruolo di autorità, normalmente è solo perché deve portare il peso e non può appoggiarsi ad un altro, quindi vive questa sorta di solitudine di cui qui il testo racconta del padre. Sempe annascuso, nun se vede maie: questi padri sembrano assenti. Attenti, ragazzi, sembrano assenti ma dice il testo: ma sape tutto chello ca succere, cioè si rende conto che la figlia dodicenne o undicenne ha avuto il menarca. Diciamoci la verità: non ha il coraggio di portarle un anello, di dire “Brava, sei diventata signorina: facciamo una festa!”, perché sono un po’ imbarazzati questi padri, però lo sa; l’importante è che il padre sappia (ovviamente, mentre leggiamo questo testo, pensate al Padre per eccellenza). E quanno se sape fa sentì: di tanto in tanto, poi esce fuori da questo ritiro, da questa torre dove si è rinchiuso e fa sentire la sua voce. E c’’a fatica ‘nfaccia e dint’’a ll’ossa – bella questa espressione – va cammenanno cu ‘e penziere appresso / se cresce e figli dint’’o portafoglio / sempe cchiù chino e ‘sti fotografie: la fatica, il padre, la porta sul volto (pensate anche alle rughe di vostro padre) e dint’’a ll’ossa cioè sembra - come noi diciamo in napoletano - un asino da soma (’u ciucciu ’e fatica), uno che tira sempre il carro, che sembra non abbia nessun diritto, non debba avere una sua vita: il suo compito è il lavoro. Pensate a questi padri che escono la mattina per andare a lavorare, anche quando fa freddo, anche quando non ne hanno voglia: sembra che sia la loro croce, il loro ministero.  Va cammenanno cu ‘e penziere appresso è una bellissima immagine, cioè non li lascia a casa i pensieri (Pietro, i “pensieri” sono le preoccupazioni: facciamo la traduzione simultanea per Mantova-Roma); un padre non dice: “Adesso non ci penso” se ha un figlio o dei figli in difficoltà, ma va cammenanno cu ‘e penziere appresso, cioè non c’è momento del giorno o della notte in cui non porti dentro di sé il peso della responsabilità. Questi figli – bella questa immagine napoletana, non nostra, più della città di Napoli e di certi rioni (Rione Sanità) – crescono nel portafoglio (tradotto così sembra una baggianata), nel senso che i figli per il padre stanno nel portafoglio, sono le foto, è come se crescessero nel suo portafoglio, che sarà probabilmente povero di euro, ma ricco di foto: mio figlio quando ha detto “papà” per la prima volta, mio figlio il primo giorno alle elementari, mio figlio il giorno in cui si è laureato, mio figlio con la ragazza… Magari voi neanche sapete che il vostro papà conserva queste foto, ma c’è questa sorta di amore - mi piace sottolinearlo questo - di amore discreto, di un amore che non entra in tante ciance (come sanno fare le donne), che si limita a pochi gesti, ma non significa distanza, non-appartenenza. Nisciuno ‘o sente quanno parla sulo: “Papà, ma stai parlando tu solo?”. “Eh, già, perché nessuno mi ascolta…”. Pensate a quei padri che sono venuti fuori dalla penna magistrale di Eduardo De Filippo: sono i padri che non sanno mai niente; le mamme hanno - come diciamo noi – ngiarmato delle cose e loro stanno lì in un cantuccio, non si rendono conto di tutto quello che sta succedendo e quindi parlano da soli, perché si lamentano forse con Dio, non hanno qualcuno con cui parlare. E se fa viecchio sestimanno e guaie: anche questa è una bella immagine dei nostri papà. Se fa viecchio sestimanno e guaie: i padri sono sempre a dire “Va be’…” e pagano… Io conosco dei padri, addirittura - non fanno bene - che vanno a pagare, loro, gli spacciatori e sono drammi, cioè padri che sono entrati nel dramma del figlio e pur di salvarne l’immagine (“Mio figlio è un bravo ragazzo” dice il papà, ma sa bene che non è così)… “Tuo figlio mi deve 500 euro!”… “Va bene, mo’ vediamo…”: invecchiano sestimanno e guaie. Forse non fa così Dio con noi? Certamente, dice nel ritornello, il padre non lo trovi fuori la scuola, fuori la scuola ci sono sempre le mamme, belle puntuali, super protettive, cioè non lo trovi a portata di mano, ma sono presenti. Vi consegno quest’ultima immagine: nun se po’ rassignà si ‘o juorno è niro / pe’ forza addà truvà nu piezze ‘e sole / pe’ scarfà a casa soia primma ‘e partì. Traduzione per Don Pietro: il padre non si può rassegnare se la giornata è difficile, o un periodo è catastrofico, ma deve trovare a tutti costi un po’ di calore (nu piezze ‘e sole è un po’ di calore), cioè una soluzione sia pure temporanea per la sua famiglia, che possa riscaldarsi prima che il padre muoia (pe’ scarfà a casa soia primma ‘e partì). Forse questo testo, innanzi tutto, ci aiuta stasera a pregare per i nostri papà che sono così: con i loro portafogli vuoti di euro, ma ricchi di affetti e di tensioni. Ma ci aiuta anche a pensare a questo Padre, a cui stiamo per rivolgerci in Confessione, che ci ha parlato del Suo cuore grande nella parabola che Gesù ci ha lasciato. ‘O truove sempe cu ‘o piacere ‘n mane. Traduzione per Don Pietro: il padre ha sempre qualcosa da darti. ‘O truove sempe cu ‘o piacere ‘n mane / si nun vuò niente te vo’ da coccosa: “Ti serve qualcosa? Hai bisogno?”. E oltre la paghetta, che voi ricevete puntualmente e senza la quale vi rivolgete ai sindacati, magari sottobanco (“Papà, devo uscire con la ragazza per la pizza”… “Va bene, non dire niente a tua madre”…) arrivano anche i supplementi, nonostante i tempi di crisi (Si nun vuò niente te vo’ da coccosa). E poi questo padre che tra i denti - dice bene qui il testo - dice statt’accorto,  perché il vicolo (ovviamente questa canzone risente dei vicoli di Napoli) è pieno di insidie, perché la vita non è facile. C’è una canzone bellissima di De Crescenzo, sempre dedicata al padre, dove il figlio dice al padre: “Padre, pensavo fosse facile e non è”. Diciamo lo stesso nei confronti dei preti o del Vescovo che vi parla: sì, quando stiamo alla Preghiera sembra tutto facile, ma poi vediamo che la vita è più articolata, più difficile, anche più cattiva. Il padre è colui che ti tocca la spalla. Quest’immagine è magistrale alla fine: acale l’uocchie quanno te salute / e sott’e diente dice statt’accorto / e chella mano ca te tocca ‘ a spalla è ‘o coraggio ca tiene, cioè il padre non sa abbracciare il figlio o la figlia, magari così timidamente gli tocca o le tocca la spalla. Questa è un’immagine di investitura, di investitura medievale, del gran cavaliere che mette la spada sulla spalla del nuovo cavaliere e lo investe. Qui la spada è la mano del padre che tocca la spalla del figlio e in questo momento passa un’energia, attraverso la mano, nelle spalle del figlio, perché siano spalle forti, spalle larghe, spalle per affrontare la vita (e chella mano ca te tocca ‘ a spalla è ‘o coraggio ca tiene). Tra poco quelli che andranno a confessarsi, vedranno anche un braccio steso (è bello anche questo richiamo al Sacramento): “Dio Padre di misericordia che ha riconciliato a sé il mondo…”. È la stessa mano che ti tocca la spalla e ti dice: coraggio, quello che sei stato (cfr. Mercoledì delle Ceneri) non è tutto di te; tu hai anche dei begli aspetti, tu non sei tutto nel tuo peccato, puoi rinascere, puoi riprendere grinta, coraggio. Così ci avviamo a celebrare il Sacramento della Riconciliazione. Riascoltiamo il testo, perché forse il mio commento vi avrà un tantino distratti.

 

‘O pate

di Nino D’Angelo


‘O pate è ‘o pate
nun se po lamentà maie cu nisciuno
addà fa sempe ‘o forte, addà fa ‘o pate
è capo ma nun sape cumannà
‘o pate è ‘o pate
sempe annascuso, nun se vede maie
ma sape tutto chello ca succere
e quanno se sape fa sentì
e c’’a fatica ‘nfaccia e dint’’a ll’ossa
va cammenanno cu ‘e penziere appriesso
se cresce e figli dint’’o portafoglio
sempe cchiù chino e ‘sti fotografie
nisciuno ‘o sente quanno parla sulo
e se fa viecchio sestimanno e guaie
e si ‘o faie male s’astipa ‘o dolore areto a ‘nu sorriso
e se va appendere int’’o scuro
a ‘na lacrema d’’o core
ca ogni tanto ‘o fa cadè
‘o pate è ‘o pate
nun se po’ rassignà si ‘o juorno è niro
pe’ forza addà truvà nu piezze ‘e sole
pe’ scarfà a casa soia primma ‘e partì
‘o pate è ‘o pate
‘o primmo amico ‘e quanno si criaturo
ca fore a scola nun ‘o truove maie
ma sta tutte ‘e mumente addò staie tu
‘o truove sempe cu ‘o piacere ‘n mane
si nun vuò niente te vo’ da coccosa
e se sta zitto pe guardà ‘e parole
ca so carezze ca isso t’’a mparato
acale l’uocchie quanno te salute
e sott’e diente dice statt’accorto
e chella mano ca te tocca ‘ a spalla è ‘o coraggio ca tiene
e nun te miette cchiù a paura
pecchè saie ca nun si sulo
quanno a vita è contro a te

 

Credo che abbiamo arato abbastanza il terreno per facilitarvi questo incontro col Padre. Torna a casa, non Lassie, ma Maria, Francesca… Torna a casa: non aver paura di riprendere quello che magari non fai da tanti anni, pensando che sono cose che non possono essere perdonate. Vi lascio con questa immagine che deve confortarvi. Se noi potessimo compiere un gesto così grande da rendere impossibile la misericordia di Dio, saremmo più grandi di Dio. Se tu potessi fare un male che Lui non può perdonare, avresti qualcosa in più di Dio, ma possiamo essere più di Lui? No, siamo tutti, per fortuna, per grazia, più giù, per cui le nostre cose sono sempre più piccole della misura della Sua misericordia: è quello di cui vogliamo fare esperienza.

Ci mettiamo in piedi e ci teniamo per mano. Proprio per riscoprirci fratelli, non possiamo dire “Padre nostro” senza riconoscere che in quel “nostro” ci sono anche gli altri: non siamo figli unici, per fortuna.

Padre nostro…

È appena il caso di ricordarvi che il prossimo incontro è tra quindici giorni: sarà l’ultimo prima di Pasqua e quindi l’approdo di questo cammino, in quattro momenti, della Quaresima 2009. È alle 21:00 perché ci troveremo già in orario legale, quindi con la possibilità di partecipazione più ampia.

 

Benedizione del Vescovo

 

Adesso cantiamo il Miserere con solo due strofe del Salmo 50: il resto lo pregate da soli. Vi ricordo che, per rendere più bello il Salmo 50, ieri notte ha nevicato a Roccamonfina, perché noi stasera potessimo avere un’immagine: “Lavami e sarò più bianco della neve…”. Ma dove sta questa neve? È arrivata a Roccamonfina per noi: tutto organizzato, tutto a puntino per la Preghiera-Giovani. Terminato il canto, quelli che non devono confessarsi possono uscire, gli altri si dirigano verso le navate laterali, dove ci saranno i sacerdoti a disposizione, e incontrate ’o Pate.

 

Canto: Miserere

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.